(In scena Pietro Jahier)
Jahier:
Altri morirà per la Storia d'Italia volentieri
e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita.
Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno
che non sa perché va a morire
popolo che muore in guerra perché "mi vuole bene"
"per me" nei suoi sessanta uomini comandati
siccome è il giorno che tocca morire.
Altri morirà per le medaglie e per le ovazioni
ma io per questo popolo illetterato
che non prepara guerre perché di miseria ha campato
la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni.
Altri morirà per la sua vita
ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli
perché sotto coperte non si conosce miseria
popolo che accende il suo fuoco solo la mattina
popolo che di osteria fa scuola
popolo non guidato, sublime materia.
Altri morirà solo, ma io sempre accompagnato:
eccomi, come davo alla ruota la mia spalla facchina.
Sotto, ragazzi, se non si muore si riposerà allo spedale.
Ma se si dovesse morire
basterà un giorno di sole
e tutta l'Italia ricomincia a cantare.
Il coro canta la prima strofa della "Leggenda del
Piave"
Alpino: (in scena con vestiti normali)
...un presagio amaro e preoccupante... Li ho visti passare nei
giorni scorsi gli uomini in divisa, lo zaino in spalla, il fucile
a tracolla. In silenzio, il ritmo disordinato dei passi e negli
sguardi sorpresa e paura.
Mi hanno detto che l'Italia ha dichiarato guerra all'Impero di
Austria e Ungheria ed alla Germania e che sarà una guerra
di postazione, per difendere i confini. Le nostre montagne invase
da sud e da nord da migliaia di soldati! ...e verrà anche
la mia ora...sono in età di leva.
A combattere? Per chi? Contro chi? Contro i valligiani di Tilga
e Kartich? Quelli che incontriamo ogni estate sui pascoli di
Dignas? Quelli che hanno appena concluso un affare con barba
Tano per trasportare in segheria un lotto boschivo oltre la cima,
scalandolo in Val Visdende e stuandolo fino in Cordol? Il Piave
mormorava... come me, probabilmente, chiedendosi chi abbia ideato
questa follia: fare la guerra quassù da noi, sulle nostre
montagne? In una terra che non ha mai avuto invasioni, lotte,
battaglie, perché siamo sperduti e ai margini, chiusi
da lunghi inverni.
Gli austriaci nostri nemici?! Parlano un'altra lingua, ma nel
bisogno ci si capisce. E noi abbiamo bisogno di loro, dei "paure"
della Pusteria, che sfamano i più poveri che vanno per
i masi a "carì"...E il Tirolo, la Carintia,
la Stiria, regioni dove molti dei nostri vanno a fare gli "aisinponar"
e "i clonpar"?
Noi siamo gente pacifica, abituata a lavorare, fare famiglia,
invecchiare insegnando ai giovani la saggezza, l'amore per questa
terra, considerandola una madre, anche se spesso sembra dura
e poco fertile.
Così ha fatto mio nonno con me, così vorrei fare
io...
Hanno cominciato a scavare trincee sulla monte di Palonbin. Lassù
dal costone si vede Tilga d Sora... dicono che faranno arrivare
un cannone, un obice per lanciare bombe e distruggere quelle
case... la monte d Palonbin, il santuario d'amore di mio nonno,
trasformato in un cantiere di devastazione!
Ci veniva ogni agosto a falciare l'erba di monte, lui, la nonna,
i bambini... e la loro coa era il cadon d Palonbin...
Canzone "Al dizon d Palonbin"
(In scena Jahier)
Jahier:
Ci sono delle consolazioni di questa vita, le consolazioni del
militare. Bisogna conoscerle e saperle godere. E la prima consolazione
è proprio questa privazione che ci fa apprezzare il minimo
bene. Chi più ha e più vorrebbe avere, è
non quieto un minuto; un ricco neanche più tutto il mondo
basta a poterlo consolare. Ma noi soldati che non abbiamo più
nulla, un nulla ci consola. L'acqua pura è diventata liquore
alla nostra sete, e lo zaino è un armadio fornito; e la
carezza della nostra donna, quando si va in permesso, torna a
essere quella della morosa.
La seconda consolazione è la salute. Gli altri mestieri
lavorano a consumar la salute, ma il mestiere di soldato ce la
conserva e migliora. Vedete: il soldato ha sempre appetito; il
soldato fa i muscoli duri e invecchia più tardi; il soldato
impara a scattare, e le donne lo guardano più volentieri
perché è corpo più sano e più perfetto,
il campione del corpo umano:
La terza consolazione è l'uguaglianza. Nella vita borghese
ci si può distinguere coi denari dell'eredità ingiusta,
col pane rubato al povero, col vestito.
Ma in questa vita la ricchezza non conta più nulla e la
miseria non avvilisce; non ci sono più comodi da comprare,
e sta meglio chi è più amato.
Il soldato è l'uomo più vero: ricco o povero, potente
o meschino, la sua uniforme uguale proibisce di sapere queste
cose. Il soldato è un uomo che può distinguersi
soltanto dal cuore.
La quarta consolazione è l'ubbidienza. Da borghesi bisogna
dirigersi da soli, ed è difficile conoscere il dovere
e se si sbaglia si passa pena. Invece, soldato ubbidiente, sei
sempre sicuro del dovere. Riposi nella coscienza del tuo superiore.
E' lui colpevole se va male. E non hai da pensare al domani.
Il tuo destino non dipende da te, ti viene da fuori. Tu sei un
uomo che nasce alla sveglia e muore alla ritirata. E' il riposo
dell'obbedienza. Bisogna saperlo godere.
La quinta consolazione è la disciplina. Anche il borghese
ha la sua disciplina e gli serve a soddisfare i bisogni. Ma quando
la disciplina del borghese non ne può proprio più,
allora comincia appena la disciplina del militare. Noi siamo
quelli che partono anche se piove; e digeriscono anche se non
hanno mangiato; e fan paura alla più brutta paura; e quando
son morti, rispondono ancora all'appello e vanno all'assalto
7 volte almeno.
La sesta consolazione è l'amore. Ora vi cercate tra paesani,
ma tra poco vi cercherete tra compagni che han fatto quella notte,
quella solitudine, quella passione. Da borghese si possono fare
amici falsi, ma davanti alla morte non ci son più che
amici veri.
Il coro canta "Sul cappello che noi portiamo"
(in scena l'alpino e la morosa)
Carolina:
Checo, Checo
ne stà lassame! Iö n me rassögno
ch tu parta pla guera. Tu às da stà a ceda a föi
famöia aped me.
Checo:
Tu sas, Carolina, cuanto ch iö tögno a ti e cuanto
ch iö voraa böte in pratga el to parole
Carolina:
Cösto iné al momöinto da vinze la paura, da
föisse coragio un par l autra, da cröde al promösse
ch se son fate tant ote caminön inbrazade sot al ziel piön
de stöle.
Checo:
Tu saras senpro la lus di mi dis, la forza ch me farà
vinze dute el dificoltes, la spranza da podöi vive la vita
intiöra aped te.
Carolina:
Caminon, Checo, caminon, lasson sto Stato ch inveze da iuté
la pöra dente a gni fora da la miseria, core dòi
a la grandiöra dal re e di so cmandantes, ch vö föi
la guera e mandà a morì la möio dovantù.
Checo:
e dì gno-mo, Carolina?
Carolina:
El nostre famöi inà calche franco da na banda; podasson
dì in Svizra, gno ch ni vö savöi de guere, opur
in Brasile, gno ch iné emigrede nascuance di nosse. Son
dogns, e n mancia voia da lorà
Checo:
ma iö saraa considró un disertor. No par me,
che n m interessa nente, anze saraa un onor dì ch inöi
rifiutò la divisa e la violenza dl esercito, ma ple nostre
famöi, ch podaraa esse maltratade e rovinede. E iö
n vòi avöi sto peso su la cossenzia, Carolina.
Carolina:
Iö odio i cmandante di States ch à dichiaró
la guera! Odio i generai e duce cöi co le stelöte su
l divise: ch i se fronte intrà d löre e pi ch i se
maza, pi naietre stadasson polito!
Checo:
Cuanta bila ch inöi a vödte csi intossieda, tu ch par
me ines l incarnazion dl amor.
Carolina: (se vizina e lo inbraza)
Ströidme saró
sauda el mi ciarne che trema,
passa pi mi nerve e fermte zl ingröspio dla mi anma agiteda.
Checo:
Tu es dinze d me com al sango che score zle vöne, es al
fió dal mi cöre. Te porto aped me com lus dal saroio,
par vinze la nöte e deslegà dute el paure
Canzone: Ai preât la biele stele
(in scena Jahier)
Jahier:
Reclute, che sono andato a vestire al deposito degli alpini.
Non erano reclute comuni. Niente fiori sul cappello, niente allegrezze,
niente canzoni. Avevo visto i giovani colare a picco in fiume
le vecchie mutande e camice tra scherzi e grida di evviva.
Ma questi son padri tristi e quieti che non si aspettavano la
chiamata. 32 anni: saltare non è più un piacere;
cambiare non è più distrazione.
Tutti contadini in giacchetta; più usati di me come corpo,
quantunque della mia leva; parecchi bevuti, come sempre il montanaro
nelle emozioni. Si provavano le uniformi, si mettevano i fregi
con imbarazzo, come roba non da loro, con un senso di ridicolo
penoso.
Si son lasciati incolonnare senza chiedere nemmeno dove andavamo.
Solo un nanerello mattacchione, venuto dall'America, è
riuscito a far ridere la compagnia, quando ha alzato la coda
a una vacca e la ha baciato la fessa chiamandola: me nona.
Pioveva lugubremente. Li ho accompagnati ai padiglioni. Nessuna
osservazione: Camminavo in mezzo ai corpi abbandonati sul grigio.
Tutto uniforme, tutto uguale; eppure ciascuno i suoi ricordi
e i suoi affetti; ciascuno una sua storia di uomo. Ho sentito
il bisogno di dar loro un segno di cura. Ho detto: buona notte,
figlioli. E tutti han risposto: buona notte. Nessuno era addormentato.
Il coro canta "Monte Canino"
Alpino: (in scena con la divisa)
Mi hanno vestito con questa divisa
le divise
non
ho mai sopportato le divise, a cominciare da quella da chierichetto,
che ci facevano indossare per servir messa o per le funzioni.
A me piaceva lo spazio della chiesa, l'atmosfera della liturgia,
tra candele e incenso, canti gregoriani e suono dell'organo.
Il parroco aveva messo gli occhi su di me perché entrassi
in seminario e diventassi prete. Tentava di convincermi con la
sontuosità dei paramenti, i camici con pizzi ricamati,
le pianete e le casule di diversi colori, trapuntate e orlate
con filo d'oro, i piviali, decorati con pietre preziose
ma a me non diceva nulla la teatralità dei gesti e dei
paludamenti sacri. Piuttosto mi prendeva il mistero di un dio-uomo
appeso ad una croce, ammazzato con cattiveria ed ingiustizia.
Benché non capissi niente delle letture in latino e poco
anche delle prediche che avrebbero dovuto spiegarle, avevo cominciato
a sfogliare la Bibbia con curiosità, perché mi
dicevano che era proibito leggerla, specialmente in certi episodi
dell'Antico Testamento.
Ma è leggendo il vangelo che sono rimasto affascinato
dalla figura di Gesù, un profeta non violento, difensore
dei deboli e degli sfortunati, che denunciava le ingiustizie
e le ipocrisie del potere religioso, che insegnava ad amare ed
essere tutti uguali.
Ma come è stato possibile che la religione fondata da
questo profeta, la civiltà che si dice cristiana, abbia
attraversato i secoli della storia accettando e sostenendo la
violenza, organizzando le guerre in nome di Cristo?
Se lo chiedeva anche Erasmo, uno degli autori che leggo con più
attenzione
(toglie un foglio di tasca) : S'impone una domanda:
come ha potuto questa peste della guerra infiltrarsi nel popolo
di Cristo? Anche questo male, come molti altri, si è imposto
per gradi, non si è stati in guardia abbastanza
Un
principe cristiano (sempreché sia cristiano davvero) dovrebbe
in tutti modi evitare, scongiurare, tener lontana questa faccenda
infernale, tanto aliena dall'insegnamento di Cristo
Un solo
precetto Cristo enunciò come proprio: quello della carità.
E che cosa ripugna alla carità più della guerra?
Nelle sue preghiere ispirate Gesù chiede al Padre soprattutto
che i suoi adepti, i cristiani, siano una cosa sola con lui,
così come lui è una cosa sola col Padre.
Ed io mi chiedo: come può un ministro di Gesù essere
a servizio della guerra? Ieri sono rimasto di stucco: è
venuto il vescovo castrense a celebrare una messa da campo per
il battaglione. Ha benedetto le armi, ha predicato che Dio è
con noi, per sostenerci a combattere i nemici.
Ha letto una preghiera che diceva "rendi forti le nostre
armi contro chiunque minacci la nostra millenaria civiltà
cristiana.". Non so chi l'abbia scritta, quella preghiera,
ma sicuramente una persona diabolica, perché recitandola
la si pronuncia proprio una bestemmia: "
e tu Maria,
madre di Dio can-dida come la neve
(ripete più volte)"
(cadendo in ginocchio) Signore della pace, salvami dalla guerra!
Canzone "Guai a voietre"
Jahier:
Criticano perché sto tanto coi soldati. Anche dopo l'orario.
Ma questi son soldati che migliorano i superiori. E' per migliorarmi
che sto con loro. Cerco di farmi questa virile rassegnazione.
Questa è assistenza d'amore. Dunque vado a sentire cosa
pensano in camerata. Scherzo sul loro piccolo bucato. Mi interesso
alla scarpa slabbrata, strizzo il foruncolo nero. Presenzio anche
l'iniezione, perché offrano il petto fieri, e, reggendo
lo sguardo nel mio, nessuno tremi quando penetrerà l'ago;
perché salutino calmi al primo sangue versato.
Criticano perché assaggio ogni marmitta di rancio. E non
una sola volta. Ma nessun rancio è uguale, se pure è
uguale la spesa. Disuguale di sale, disuguale di cottura; e lo
sa valutare il soldato che mangia rancio solo, che ha appetito
di tutto il corpo e non appetito di stomaco, come il borghese
viziato.
Criticano perché divido troppo col soldato. Anzi vorrei
dividere il rancio, vorrei dividere il padiglione. Sarebbe giusto
ed opportuno. Alla guerra chi ha meno bisogni è superiore.
In questo l'ufficiale di guerra non è superiore. In questo
l'ufficiale è inferiore. Ma l'autorità
ma
il prestigio
Un uomo che mangia con un altro, non gli resta
che il prestigio dell'anima per distinzione. Sentiresti il bisogno
di questo prestigio, mangiando insieme. Questa è superiorità
vera. Guadagnarsi di essere il loro capo.
Criticano di nuovo e uno si volta al mio saluto, pronto a scattar
sull'attenti. "Mi avevi messo paura. Ma è un soldato.
Tu saluti un soldato meglio di un generale. No, ma saluto il
suo dovere di ubbidire, uguale al mio dovere di comandare. Sono
doveri uguali, per questo è uguale il saluto. Eppoi è
un soldato che conosco bene. Non conosco bene il signor generale.
Criticano sempre perché mi accompagno con gli inferiori.
Ma non mi accompagno con gli inferiori: mi accompagno coi miei
uguali.
Alpino: (interloquisce con Jahier)
Anch'io ti critico, tenente Jahier, e non voglio mettere in dubbio
la tua buona fede, quando affermi di considerarti uguale ai tuoi
soldati, anche se sei superiore gerarchico.
Io ti critico perché giustifichi questa guerra e lo fai
nella maniera più subdola, volendo far credere che essa
è una lotta per la libertà e la giustizia, contro
l'arroganza e l'aggressività del popolo tedesco: "Noi
ci battiamo per una causa di giustizia tra gli uomini. Se la
nostra forza severa non lo castiga, l'oppressore diventerà
ancora più ingiusto e cattivo. Questa è una guerra
che continua la nostra vita di popolo povero e buono. E' un lavoro
che continua quello della vanga: il lavoro del fucile".
Io ti critico perché ami l'esercito e lo dici senza pudore:
"Perché amo tanto l'esercito? Perché la forza
è un bene quanto l'istruzione. E dovrebbe essere obbligatoria
come l'istruzione. L'esercito è l'organismo della forza
obbligatoria. E della salute". Ma perché non racconti
la verità, tenente Jahier? L'esercito è lo strumento
della violenza legalizzata, è la pianificazione dell'assassinio
giustificato, per non parlare delle torture, degli stupri, delle
devastazioni. La storia è racconto di eserciti, vittoriosi
o sconfitti, ma la vera sconfitta è quella dell'umanità,
che viene affondata nel baratro dell'odio.
E ciò che non sopporto è che i capi di questa organizzazione
di morte, i generali, i colonnelli, i graduati vari, anziché
essere considerati la vergogna della società, come i boia
o i capi dei sicari, siano onorati come dignitari e sul loro
petto senz'anima vengano appuntate le medaglie al valore.
Io ti critico, tenente Jahier, perché parli di patria,
come fosse il più grande valore della vita: "Noi
soldati non abbiamo più nessuno, solo la patria. Quella
ti rimane sempre. Una grande parola, la patria, la patria italiana".
Ma io non credo nel patriottismo. Ho letto gli scritti di Lev
Tolstoj, grande scrittore russo: (estrae il foglio e legge):
"Ciò che fa nascere la guerra è il desiderio
del bene esclusivo della nazione propria, il patriottismo. Quindi
per abolire la guerra bisogna abolire il patriottismo. Il patriottismo
è un sentimento negativo, non naturale. Mari di sangue
sono stati sparsi per questo sentimento e lo saranno ancora se
gli uomini non si libereranno da simile avanzo dei tempi barbari".
Ti critico, tenente Jahier, perché non nomini mai i responsabili
di questa maledetta guerra, cioè il re, il governo, i
generali. Dov'è il re? Dove sono i comandanti di questo
Stato? Nelle ville e nei castelli serviti e riveriti, mentre
noi povera gente dobbiamo andare a marcire in trincea. Ma io
non voglio combattere per i potenti che sfruttano il popolo per
i loro interessi. Io voglio vivere in una società senza
oppressi e senza oppressori, dove ci sia fraternità e
giustizia.
(se ne va scandendo: "Viva l'anarchia, abbasso il re
.)
Canto "Gno elo al re"
Jahier:
Mio forte compagno, è perché non hai voluto arrenderti;
è perché anche per me hai voluto morire; come mio
padre. La casa era serena e fedele come l'amavi; e Gioietta ansiosa
a interrogar tutto il giorno colla vocina: ma dov'è, ma
chi ha scritto che è prigioniero e ferito?
Dicevi; sta fermo e non temere
ora io sto fermo; ma tu sei caduto
nella gloria sei passato
o compagno che mi avevi creduto, o amato.
E hai detto quando mi hai lasciato:
tu non dovevi venire
ma non temere, Piero, perché torniamo.
Perché hai detto torniamo
se avevi il viso che non può tornare?
Ora io che sono restato,
mi sento chiamare.
Inginocchiato
vicino alla chiesa
solo della voce eri armato
con la voce ti sei battuto
o compagno, o amato!
Ma perché hai detto: torniamo
se avevi il viso che non può tornare!
Ora, io che sono restato,
mi sento tanto chiamare.
Il coro canta "Maledetta la guerra e i ministri"
Alpino:
Sarà stata codardia, sarà stato senso di responsabilità,
o forse destino
ci sono andato infine alla guerra, lassù
sotto le crode del Popera.
Un paese di uomini giovani trasferito sui sassi del ghiaione
a scavare buche, a costruire muri, a scalpellare scalini, a preparare
attacchi che mi auguravo non arrivassero mai.
Li ho conosciuti gli esaltati, i fanatici della guerra; squilibrati
che passano le giornate e anche le notti a studiare strategie
di aggiramento del fronte nemico, scalando pareti, scavando gallerie,
facendo saltare pezzi di montagna. Per loro è un obiettivo
glorioso fare strage di tedeschi, conquistare la vetta per poter
piazzare mitragliatrici e sterminare più esseri umani
possibile
Noi siamo schiavi esecutori, meno considerati dei muli che dobbiamo
accudire
una notte, Carolina, ti ho sognato che salivi con altre
donne portatrici per il sentiero di Selvapiana
la commozione
mi saliva dal cuore e volevo raccontarti ancora del nostro futuro,
dei figli che avremo, della casa che costruiremo nel nostro paese
finalmente in pace, finalmente liberato dagli invasori in divisa
ti correvo incontro, in quella notte d'aprile, per dirti
che ti voglio bene
te vòi bögn, te vòi bögn, te vòi
bögn
Canzone "Alpin dal Popera"
Jahier:
Ma questa guerra non dire che è una lezione. La distruzione
non è una lezione. Muoiono i migliori, muoiono i soli
che potessero approfittare.
Scena finale con Carolina vecchia, seduta, mentre i nipoti
le giocano intorno.
Canzone "Luna rossa |