"DAL CAMPO DI CONCENTRAMENTO:
ESPERIENZE DI UN COSTALTESE"

di Evelino Casanova Borca
(da "Gli anni dell'orrore", Gruppo Musicale di Costalta, 1994)

COSTALTA NEGLI ANNI 1943-44

A Costalta i primi gruppi partigiani cominciarono a formarsi nella primavera del 1944. Sotto la spinta della lotta che già interessava il centro Italia e più vicino il Friuli dalla rotta del'43, anche nel periferico Comelico, alcuni uomini si riunirono per combattere i tedeschi. La nostra zona, con boschi e montagne, era il luogo ideale per la guerriglia e per le imboscate partigiane, che attaccavano con azioni sporadiche e poi si ritiravano in montagna.
L'esercito tedesco aveva il comando a Santo Stefano e transitava spesso sulla strada verso Sappada, che divenne quindi luogo di frequenti scontri con i partigiani. Le rappresaglie tedesche seguivano gli attacchi e i soldati ispezionavano tutti i paesi della vallata per scoprire collaboratori o presunti partigiani tra gli abitanti. Ma per tutta la primavera e l'estate '44, Costalta venne risparmiata. Anche i partigiani in quel periodo stettero piuttosto tranquilli, tranne per le periodiche visite alle malghe in cerca di burro e formaggio. Le rappresaglie più dure avvennero nell'autunno, quando ormai i tedeschi sentivano che la guerra per loro stava volgendo al peggio e si erano incattiviti.
Dopo l'uccisione di un soldato tedesco sulla strada Santo Stefano-Sappada e la cattura di altri tre, tra cui un ufficiale, la rabbia tedesca contro la gente si scatenò. I soldati tedeschi erano tenuti prigionieri in un fienile a "Cercenà" e a nulla valse la loro liberazione da parte dei partigiani dopo alcuni giorni. Vennero effettuati due rastrellamenti in paese: il primo il 2 ottobre, in cui circa 15 uomini vennero trattenuti per alcune ore presso le scuole elementari e in seguito rilasciati e il secondo, il 26 ottobre, più deciso e violento, in cui un'ottantina di uomini furono raggruppati nella piazza della chiesa con lo scopo di scoprire se tra essi vi fossero partigiani o fiancheggiatori. Il rastrellamento provocò una grande paura in paese, perchè vi erano coinvolte tutte le famiglie.
I tedeschi bruciarono anche parecchie case e fienili, dove sospettavano la presenza di partigiani. L'incendio aumentò la disperazione della gente. Vecchi, donne e bambini tentavano di spegnere gli incendi o perlomeno di preservare le case vicine. Paura, rabbia, disperazione erano i sentimenti più diffusi. Un senso di impotenza verso l'agire ingiusto dei tedeschi, ladri e approfittatori, che rubavano le poche risorse alimentari alla gente. Non fu possibile tentare nessuna reazione, perchè i nazisti avevano minacciato di fucilare 10 degli uomini segregati in piazza, per ogni soldato. La gente sperava che dopo aver bruciato le case, essi avrebbero lasciato liberi gli uomini, invece furono portati a Santo Stefano (tranne quelli sopra i cinquant'anni) e tenuti prigionieri nel cinema Piave, dove furono sottoposti ad interrogatori.

CATTURATO E DEPORTATO

Nel 1944 lavoravo a Cortina. Arrivai a Costalta il 30 settembre. In quella stagione la mia famiglia teneva le mucche in Val Visdende e io mi recai là al pascolo. La zona era già stata "visitata" dai tedeschi, che la pensavano rifugio naturale dei partigiani.
In uno di questi rastrellamenti fui preso anch'io, ma subito rilasciato per la mia giovane età: avevo allora diciassette anni. In paese intanto continuavano le azioni partigiane.
La mia famiglia vi venne coinvolta suo malgrado. Ci chiesero due quintali di fieno, presi dal fienile di "Cercenà" e rilasciarono una ricevuta di pagamento a nome di mio padre. Durante il primo rastrellamento i tedeschi requisirono il blocchetto delle ricevute e così mio padre fu dichiarato persona sospetta. Venimmo a conoscenza di questi avvenimenti spiacevoli e decidemmo di spostare il fieno rimasto da "Cercenà", per paura che lo bruciassero. Durante il primo rastrellamento, i tedeschi vennero a casa mia e chiesero di mio padre, prendendo le sue fotografie. Era assente, nel trevigiano, in cerca di granturco, sicchè non poterono prelevarlo. Ma nel secondo rastrellamento, non avendolo ancora trovato, presero me, che ero l'unico maschio presente in casa. Così mi ritrovai, con quaranta costaltesi, al cinema di Santo Stefano, dove rimanemmo per 17 giorni. Mi interrogarono spesso, mostrandomi le fotografie di mio padre e chiedendomi notizie, a volte minacciandomi. Ma io negavo o non rispondevo.
Mi fu poi riferito che proprio mentre mi stavano interrogando, mio padre passava per Santo Stefano, con il carro del granturco. Io mi premurai di fargli sapere che era ricercato e che scappasse, in Val Visdende o in qualche altro posto sicuro. Mentre ero a Santo Stefano ebbi la possibilità di fuggire.
Un giorno furono lanciate bombe da aerei americani diretti in Germania e dopo l'esplosione c'erano da rimettere in sesto i muri crollati. Mentre stavamo lavorando, scoppiò un'altra bomba e vi fu un caos generale di cui alcuni approfittarono per fuggire. Io non lo feci per paura di rappresaglie contro la mia famiglia.
Dopo 17 giorni ci trasferirono. A piedi fino a Calalzo, quindi ci caricarono sul treno diretti a Bolzano, dove c'era il centro di smistamento per la Germania. Passai lì tre mesi. In quel periodo lavorai in galleria e cominciai a rendermi conto della disumanità dei tedeschi: sveglia alle cinque, divisa da carcerati, dodici o più ore di lavoro al giorno, duecento grammi di pane assieme ad una misera zuppa. Ma era nulla, paragonato a quello che mi attendeva! Erano di conforto le visite dei paesani che da Costalta, perlopiù a piedi, arrivavano fino a Bolzano per portare viveri ai loro parenti. Si parlava del paese, delle persone care e la nostalgia era immensa.
La partenza per la Germania era stabilita a scaglioni: insieme ad altri cinque paesani, partii il 19 gennaio. Cinque giorni e sei notti di viaggio, interrotto soltanto dai frequenti bombardamenti, in sessanta persone stipate su un carro bestiame sigillato. Il ricordo più lancinante di quel viaggio terribile è la sete, una sete esasperante, che portava a bere addirittura l'urina.
Il 24 gennaio eravamo giunti a Flossemburg.

VITA NEL LAGER

Giungemmo a Flossemburg di sera. Imbruniva, ma subito mi resi conto dell'inferno in cui ero arrivato. Il campo di concentramento era posto in leggero pendio, mi pareva grande il doppio di Costalta. Dissero che erano lì raccolti diciassette mila prigionieri. Il campo era circondato da una doppia rete di fil di ferro attraversata dalla corrente ad alta tensione. Ogni dieci metri si elevava una garritta con due guardie e i rispettivi cani (anche i cani portavano la scritta SS sulla schiena). Nel tragitto dalla stazione al campo, i bambini tedeschi, crudelmente, ci colpivano con pezzi di ghiaccio, facendo dei prigionieri il loro tiro a segno. Evidentemente anche i bambini avevano assorbito quel clima di odio e di disprezzo che caratterizzava la Germania nazista!
Appena arrivati al campo, ci fu l'adunata nel piazzale coperto da mezzo metro di neve. Ci indirizzarono in una baracca per consegnare gli effetti personali, dall'orologio ai vestiti; poi ci venne consegnato il numero di matricola e quindi uscimmo, nudi, nel freddo della notte di gennaio. Cento metri di corsa sulla neve per giungere in un seminterrato dove si trovavano le docce. Venimmo rapati a zero e poi cominciò la tortura della doccia, un'abitudine dei campi di concentramento. L'intervallo repentino di acqua freddissima e poi bollente, che noi dovevamo sopportare in silenzio, soverchiati dalle urla dei kapò. Quando le guardie decisero che il primo trattamento poteva essere sufficiente, ordinarono di stenderci a terra, in attesa del giorno. Alcune ore nell'acqua, senza possibilità di protestare.
Al mattino appello e consegna della divisa. A me diedero un paio di zoccoli, giacca, pantaloni e un berretto. Vestiti usati, tante volte, passati di mano in mano, dai morti ai nuovi venuti. Quel giorno mi colpì una costruzione molto grande in muratura, con un lungo camino da cui usciva un fumo giallognolo e nauseabondo. Capii in seguito che era il forno crematorio. Iniziavano a bruciare cadaveri alle quattro di mattina, fino all'una del pomeriggio. Un giorno mi costrinsero a portare un uomo, con una gamba fratturata, fln davanti al forno. Probabilmente fu cremato. Non dimenticherò mai quell'orribile scena della porta che si apriva e poi si richiudeva alle spalle di un uomo condannato a essere bruciato.
Alloggiavamo in baracche-dormitorio; si dormiva in letti a castello di tre piani, in dodici per letto, cioè quattro per branda. La sveglia era alle cinque, alle urla dei guardiani; in tre minuti si doveva essere vestiti e pronti per l'adunata. Sulle porte delle baracche sostavano delle guardie il cui compito era esclusivamente quello di colpire i prigionieri con delle verghe. Chiaramente tutti si accalcavano all'uscita per cercare con foga di salvarsi dalle vergate; ma i più deboli e i vecchi non facevano in tempo e finivano schiacciati dalla ressa. L'appello durava circa due ore, in cui si doveva restare fermi, in piedi, al freddo. Quando era accertata la presenza di tutti, ci indirizzavano al lavoro; chi a spalare neve, chi a pulire le cucine, chi ad altre mansioni. Io vissi senza toccare cibo i primi giorni; la paura per le urla disumane e la violenza che caratterizzava ogni aspetto di quel luogo mi avevano paralizzato lo stomaco. Poi giorno per giorno, come tutti, mi abituai ad accettare con il maggior distacco possibile quell'inferno terreno che gli uomini avevano creato. Venti giorni rimasi a Flossemburg; giorni durissimi, in cui la brutalità, la bestialità, l'orrore erano diventati il quotidiano, la norma. Vedevo compagni morire e rimanevo quasi indifferente, chiedendomi soltanto quando sarebbe toccato a me, non sperando certo di sopravvivere al lager.
Dopo venti giorni, durante un'adunata, ci fu una richiesta di 500 prigionieri, boscaioli, per un campo in Slesia. Subito noi di Costalta ci offrimmo e fummo trasferiti a Pordorf. Lasciammo a Flossemburg compagni del Comelico, che vi morirono. Tra essi voglio ricordare Orazio Pontil.
Anche nel campo di Pordorf la vita era durissima, ma ormai la violenza, la crudeltà, il cinismo erano cose normali, a cui non potevamo e non dovevamo reagire. Le guardie naziste di quel campo erano particolarmente sadiche; oltre ad usare in continuazione la frusta (di gomma, con l'ossatura di ferro, terminante con pallini di piombo), i primi giorni della nostra permanenza si divertivano a farci portare dei massi per un tratto in salita di trecento metri e il giorno appresso riportarli al posto di prima. Dicevano che serviva a mantenerci in movimento! A Pordorf si facevano tre adunate al giorno; si mangiava pochissimo, ovvero mezzo litro di acqua di carote a mezzogiorno e cinquanta grammi di pane con venti grammi di margarina alla sera. Ci inviarono a lavorare sui binari per svellere rotaie e caricarle su dei battelli per trasportarle a sud, in quanto i tedeschi sentivano ormai vicina l'avanzata dei russi. I giorni in cui era necessario lavorare a tempo continuato, era tolto il pasto a mezzogiorno, per non perdere tempo. Restammo in quel campo fino alla fine di aprile.

LA LIBERAZIONE

Le sorti della guerra erano ormai segnate per la Germania nazista e anche i prigionieri si rendevano conto dell'avanzata dei russi. Le guardie erano più irose del normale contro di noi e accrescevano percosse e maltrattamenti. Fummo spostati più a sud in una ritirata generale dell'esercito tedesco. Cinque giorni di cammino a piedi senza mangiare. Alla prima tappa, dovemmo creare degli sbarramenti contro l'avanzata russa. Quando arrivammo all'ultima tappa del viaggio, io ero allo stremo delle forze. Venimmo alloggiati in una fabbrica diroccata, dove in mezzo ai pidocchi e agli escrementi, passai gli ultimi giorni di prigionia, che credevo fossero anche gli ultimi della mia vita. Ero ad un punto di debolezza fisica e psicologica tale, da non riuscire ad alzarmi da terra; a fatica ingurgitavo un po' di acqua e ormai pensavo di morire. Nel frattempo circolavano notizie dell'avvicinamento dei russi e gli stessi tedeschi ci avvertivano che mancavano pochi giorni.
Una notte udimmo del trambusto e il mattino seguente nessuno venne a darci la sveglia. Già questo particolare pareva strano e riempiva i cuori di speranza. Quando finalmente ci fu detto che i tedeschi erano fuggiti e noi eravamo liberi, nella vecchia fabbrica si sentirono urla di gioia, pianti, qualcuno cantava.
Anch'io vissi quei momenti con speranza e trepidazione, pur nello stato di semincoscienza in cui mi trovavo. "Forse mi salveranno, forse riesco a tornare a casa". Dopo tre giorni arrivarono i russi. Ricordo con gratitudine quei soldati carichi di umanità verso i prigionieri, che trattavano finalmente come degli esseri umani, non più brutalizzati, che curavano i feriti e nutrivano tutti. Fui trasportato all'ospedale e rimasi in cura per molti giorni. Pian piano mi riabituai al cibo e mi tornarono le forze. Accanto a me ebbi, in questo periodo di malattia, Guido Pradetto, un caro compagno che non potrò mai dimenticare. Assieme partimmo per l'Italia, quando riuscii nuovamente a reggermi in piedi. Impiegammo diciassette giorni per arrivare a casa.
L'incontro con mio padre e mia sorella a Santo Stefano fu commovente. Ci avviammo a piedi verso Costalta e quando vidi di lontano le case tanto sognate e che non contavo più di rivedere, mi sembrava di scoppiare dall'emozione. Tutti i paesani fecero festa per il mio ritorno, ormai insperato. Le conseguenze di questa terribile prova si protrassero per gli anni successivi, finchè mi ammalai di tifo e fui per molti giorni in fin di vita.
Dopo il campo di concentramento, la violenta oppressione nazista, la mancanza di libertà, c'era la speranza di vivere in una società più giusta, che rispettasse maggiormente i diritti delle persone. Invece ho toccato con mano le ingiustizie e l'emarginazione in cui sono tenuti i poveri nelle società attuali. Ho dovuto attendere trentun anni per ricevere una misera pensione come risarcimento dei danni di guerra. Per poter lavorare e mantenere la famiglia ho dovuto, negli anni Sessanta, tornare in Germania come emigrante. Sì, proprio in quello stato dove avevo patito sofferenze indicibili! Ad una scelta precisa mi hanno portato le sofferenze del lager: sono antifascista, risolutamente contro ogni forma di prevaricazione dei pochi sulle masse e credo invece nella democrazia come bene supremo. Questi miei ricordi vogliono essere soprattutto un appello ai giovani perchè non permettano più il ripetersi di tali orrori e contribuiscano alla costruzione di una società in cui non ci sia spazio per le atrocità che ho visto e provato nei lager.

Evelino Casanova Borca


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"Gli anni dell'orrore"

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