COSTALTA NEGLI ANNI 1943-44
A Costalta i primi gruppi partigiani cominciarono a formarsi
nella primavera del 1944. Sotto la spinta della lotta che già
interessava il centro Italia e più vicino il Friuli dalla
rotta del'43, anche nel periferico Comelico, alcuni uomini si
riunirono per combattere i tedeschi. La nostra zona, con boschi
e montagne, era il luogo ideale per la guerriglia e per le imboscate
partigiane, che attaccavano con azioni sporadiche e poi si ritiravano
in montagna.
L'esercito tedesco aveva il comando a Santo Stefano e transitava
spesso sulla strada verso Sappada, che divenne quindi luogo di
frequenti scontri con i partigiani. Le rappresaglie tedesche
seguivano gli attacchi e i soldati ispezionavano tutti i paesi
della vallata per scoprire collaboratori o presunti partigiani
tra gli abitanti. Ma per tutta la primavera e l'estate '44, Costalta
venne risparmiata. Anche i partigiani in quel periodo stettero
piuttosto tranquilli, tranne per le periodiche visite alle malghe
in cerca di burro e formaggio. Le rappresaglie più dure
avvennero nell'autunno, quando ormai i tedeschi sentivano che
la guerra per loro stava volgendo al peggio e si erano incattiviti.
Dopo l'uccisione di un soldato tedesco sulla strada Santo Stefano-Sappada
e la cattura di altri tre, tra cui un ufficiale, la rabbia tedesca
contro la gente si scatenò. I soldati tedeschi erano tenuti
prigionieri in un fienile a "Cercenà" e a nulla
valse la loro liberazione da parte dei partigiani dopo alcuni
giorni. Vennero effettuati due rastrellamenti in paese: il primo
il 2 ottobre, in cui circa 15 uomini vennero trattenuti per alcune
ore presso le scuole elementari e in seguito rilasciati e il
secondo, il 26 ottobre, più deciso e violento, in cui
un'ottantina di uomini furono raggruppati nella piazza della
chiesa con lo scopo di scoprire se tra essi vi fossero partigiani
o fiancheggiatori. Il rastrellamento provocò una grande
paura in paese, perchè vi erano coinvolte tutte le famiglie.
I tedeschi bruciarono anche parecchie case e fienili, dove sospettavano
la presenza di partigiani. L'incendio aumentò la disperazione
della gente. Vecchi, donne e bambini tentavano di spegnere gli
incendi o perlomeno di preservare le case vicine. Paura, rabbia,
disperazione erano i sentimenti più diffusi. Un senso
di impotenza verso l'agire ingiusto dei tedeschi, ladri e approfittatori,
che rubavano le poche risorse alimentari alla gente. Non fu possibile
tentare nessuna reazione, perchè i nazisti avevano minacciato
di fucilare 10 degli uomini segregati in piazza, per ogni soldato.
La gente sperava che dopo aver bruciato le case, essi avrebbero
lasciato liberi gli uomini, invece furono portati a Santo Stefano
(tranne quelli sopra i cinquant'anni) e tenuti prigionieri nel
cinema Piave, dove furono sottoposti ad interrogatori.
CATTURATO E DEPORTATO
Nel 1944 lavoravo a Cortina. Arrivai a Costalta il 30 settembre.
In quella stagione la mia famiglia teneva le mucche in Val Visdende
e io mi recai là al pascolo. La zona era già stata
"visitata" dai tedeschi, che la pensavano rifugio naturale
dei partigiani.
In uno di questi rastrellamenti fui preso anch'io, ma subito
rilasciato per la mia giovane età: avevo allora diciassette
anni. In paese intanto continuavano le azioni partigiane.
La mia famiglia vi venne coinvolta suo malgrado. Ci chiesero
due quintali di fieno, presi dal fienile di "Cercenà"
e rilasciarono una ricevuta di pagamento a nome di mio padre.
Durante il primo rastrellamento i tedeschi requisirono il blocchetto
delle ricevute e così mio padre fu dichiarato persona
sospetta. Venimmo a conoscenza di questi avvenimenti spiacevoli
e decidemmo di spostare il fieno rimasto da "Cercenà",
per paura che lo bruciassero. Durante il primo rastrellamento,
i tedeschi vennero a casa mia e chiesero di mio padre, prendendo
le sue fotografie. Era assente, nel trevigiano, in cerca di granturco,
sicchè non poterono prelevarlo. Ma nel secondo rastrellamento,
non avendolo ancora trovato, presero me, che ero l'unico maschio
presente in casa. Così mi ritrovai, con quaranta costaltesi,
al cinema di Santo Stefano, dove rimanemmo per 17 giorni. Mi
interrogarono spesso, mostrandomi le fotografie di mio padre
e chiedendomi notizie, a volte minacciandomi. Ma io negavo o
non rispondevo.
Mi fu poi riferito che proprio mentre mi stavano interrogando,
mio padre passava per Santo Stefano, con il carro del granturco.
Io mi premurai di fargli sapere che era ricercato e che scappasse,
in Val Visdende o in qualche altro posto sicuro. Mentre ero a
Santo Stefano ebbi la possibilità di fuggire.
Un giorno furono lanciate bombe da aerei americani diretti in
Germania e dopo l'esplosione c'erano da rimettere in sesto i
muri crollati. Mentre stavamo lavorando, scoppiò un'altra
bomba e vi fu un caos generale di cui alcuni approfittarono per
fuggire. Io non lo feci per paura di rappresaglie contro la mia
famiglia.
Dopo 17 giorni ci trasferirono. A piedi fino a Calalzo, quindi
ci caricarono sul treno diretti a Bolzano, dove c'era il centro
di smistamento per la Germania. Passai lì tre mesi. In
quel periodo lavorai in galleria e cominciai a rendermi conto
della disumanità dei tedeschi: sveglia alle cinque, divisa
da carcerati, dodici o più ore di lavoro al giorno, duecento
grammi di pane assieme ad una misera zuppa. Ma era nulla, paragonato
a quello che mi attendeva! Erano di conforto le visite dei paesani
che da Costalta, perlopiù a piedi, arrivavano fino a Bolzano
per portare viveri ai loro parenti. Si parlava del paese, delle
persone care e la nostalgia era immensa.
La partenza per la Germania era stabilita a scaglioni: insieme
ad altri cinque paesani, partii il 19 gennaio. Cinque giorni
e sei notti di viaggio, interrotto soltanto dai frequenti bombardamenti,
in sessanta persone stipate su un carro bestiame sigillato. Il
ricordo più lancinante di quel viaggio terribile è
la sete, una sete esasperante, che portava a bere addirittura
l'urina.
Il 24 gennaio eravamo giunti a Flossemburg.
VITA NEL LAGER
Giungemmo a Flossemburg di sera. Imbruniva, ma subito mi resi
conto dell'inferno in cui ero arrivato. Il campo di concentramento
era posto in leggero pendio, mi pareva grande il doppio di Costalta.
Dissero che erano lì raccolti diciassette mila prigionieri.
Il campo era circondato da una doppia rete di fil di ferro attraversata
dalla corrente ad alta tensione. Ogni dieci metri si elevava
una garritta con due guardie e i rispettivi cani (anche i cani
portavano la scritta SS sulla schiena). Nel tragitto dalla stazione
al campo, i bambini tedeschi, crudelmente, ci colpivano con pezzi
di ghiaccio, facendo dei prigionieri il loro tiro a segno. Evidentemente
anche i bambini avevano assorbito quel clima di odio e di disprezzo
che caratterizzava la Germania nazista!
Appena arrivati al campo, ci fu l'adunata nel piazzale coperto
da mezzo metro di neve. Ci indirizzarono in una baracca per consegnare
gli effetti personali, dall'orologio ai vestiti; poi ci venne
consegnato il numero di matricola e quindi uscimmo, nudi, nel
freddo della notte di gennaio. Cento metri di corsa sulla neve
per giungere in un seminterrato dove si trovavano le docce. Venimmo
rapati a zero e poi cominciò la tortura della doccia,
un'abitudine dei campi di concentramento. L'intervallo repentino
di acqua freddissima e poi bollente, che noi dovevamo sopportare
in silenzio, soverchiati dalle urla dei kapò. Quando le
guardie decisero che il primo trattamento poteva essere sufficiente,
ordinarono di stenderci a terra, in attesa del giorno. Alcune
ore nell'acqua, senza possibilità di protestare.
Al mattino appello e consegna della divisa. A me diedero un paio
di zoccoli, giacca, pantaloni e un berretto. Vestiti usati, tante
volte, passati di mano in mano, dai morti ai nuovi venuti. Quel
giorno mi colpì una costruzione molto grande in muratura,
con un lungo camino da cui usciva un fumo giallognolo e nauseabondo.
Capii in seguito che era il forno crematorio. Iniziavano a bruciare
cadaveri alle quattro di mattina, fino all'una del pomeriggio.
Un giorno mi costrinsero a portare un uomo, con una gamba fratturata,
fln davanti al forno. Probabilmente fu cremato. Non dimenticherò
mai quell'orribile scena della porta che si apriva e poi si richiudeva
alle spalle di un uomo condannato a essere bruciato.
Alloggiavamo in baracche-dormitorio; si dormiva in letti a castello
di tre piani, in dodici per letto, cioè quattro per branda.
La sveglia era alle cinque, alle urla dei guardiani; in tre minuti
si doveva essere vestiti e pronti per l'adunata. Sulle porte
delle baracche sostavano delle guardie il cui compito era esclusivamente
quello di colpire i prigionieri con delle verghe. Chiaramente
tutti si accalcavano all'uscita per cercare con foga di salvarsi
dalle vergate; ma i più deboli e i vecchi non facevano
in tempo e finivano schiacciati dalla ressa. L'appello durava
circa due ore, in cui si doveva restare fermi, in piedi, al freddo.
Quando era accertata la presenza di tutti, ci indirizzavano al
lavoro; chi a spalare neve, chi a pulire le cucine, chi ad altre
mansioni. Io vissi senza toccare cibo i primi giorni; la paura
per le urla disumane e la violenza che caratterizzava ogni aspetto
di quel luogo mi avevano paralizzato lo stomaco. Poi giorno per
giorno, come tutti, mi abituai ad accettare con il maggior distacco
possibile quell'inferno terreno che gli uomini avevano creato.
Venti giorni rimasi a Flossemburg; giorni durissimi, in cui la
brutalità, la bestialità, l'orrore erano diventati
il quotidiano, la norma. Vedevo compagni morire e rimanevo quasi
indifferente, chiedendomi soltanto quando sarebbe toccato a me,
non sperando certo di sopravvivere al lager.
Dopo venti giorni, durante un'adunata, ci fu una richiesta di
500 prigionieri, boscaioli, per un campo in Slesia. Subito noi
di Costalta ci offrimmo e fummo trasferiti a Pordorf. Lasciammo
a Flossemburg compagni del Comelico, che vi morirono. Tra essi
voglio ricordare Orazio Pontil.
Anche nel campo di Pordorf la vita era durissima, ma ormai la
violenza, la crudeltà, il cinismo erano cose normali,
a cui non potevamo e non dovevamo reagire. Le guardie naziste
di quel campo erano particolarmente sadiche; oltre ad usare in
continuazione la frusta (di gomma, con l'ossatura di ferro, terminante
con pallini di piombo), i primi giorni della nostra permanenza
si divertivano a farci portare dei massi per un tratto in salita
di trecento metri e il giorno appresso riportarli al posto di
prima. Dicevano che serviva a mantenerci in movimento! A Pordorf
si facevano tre adunate al giorno; si mangiava pochissimo, ovvero
mezzo litro di acqua di carote a mezzogiorno e cinquanta grammi
di pane con venti grammi di margarina alla sera. Ci inviarono
a lavorare sui binari per svellere rotaie e caricarle su dei
battelli per trasportarle a sud, in quanto i tedeschi sentivano
ormai vicina l'avanzata dei russi. I giorni in cui era necessario
lavorare a tempo continuato, era tolto il pasto a mezzogiorno,
per non perdere tempo. Restammo in quel campo fino alla fine
di aprile.
LA LIBERAZIONE
Le sorti della guerra erano ormai segnate per la Germania
nazista e anche i prigionieri si rendevano conto dell'avanzata
dei russi. Le guardie erano più irose del normale contro
di noi e accrescevano percosse e maltrattamenti. Fummo spostati
più a sud in una ritirata generale dell'esercito tedesco.
Cinque giorni di cammino a piedi senza mangiare. Alla prima tappa,
dovemmo creare degli sbarramenti contro l'avanzata russa. Quando
arrivammo all'ultima tappa del viaggio, io ero allo stremo delle
forze. Venimmo alloggiati in una fabbrica diroccata, dove in
mezzo ai pidocchi e agli escrementi, passai gli ultimi giorni
di prigionia, che credevo fossero anche gli ultimi della mia
vita. Ero ad un punto di debolezza fisica e psicologica tale,
da non riuscire ad alzarmi da terra; a fatica ingurgitavo un
po' di acqua e ormai pensavo di morire. Nel frattempo circolavano
notizie dell'avvicinamento dei russi e gli stessi tedeschi ci
avvertivano che mancavano pochi giorni.
Una notte udimmo del trambusto e il mattino seguente nessuno
venne a darci la sveglia. Già questo particolare pareva
strano e riempiva i cuori di speranza. Quando finalmente ci fu
detto che i tedeschi erano fuggiti e noi eravamo liberi, nella
vecchia fabbrica si sentirono urla di gioia, pianti, qualcuno
cantava.
Anch'io vissi quei momenti con speranza e trepidazione, pur nello
stato di semincoscienza in cui mi trovavo. "Forse mi salveranno,
forse riesco a tornare a casa". Dopo tre giorni arrivarono
i russi. Ricordo con gratitudine quei soldati carichi di umanità
verso i prigionieri, che trattavano finalmente come degli esseri
umani, non più brutalizzati, che curavano i feriti e nutrivano
tutti. Fui trasportato all'ospedale e rimasi in cura per molti
giorni. Pian piano mi riabituai al cibo e mi tornarono le forze.
Accanto a me ebbi, in questo periodo di malattia, Guido Pradetto,
un caro compagno che non potrò mai dimenticare. Assieme
partimmo per l'Italia, quando riuscii nuovamente a reggermi in
piedi. Impiegammo diciassette giorni per arrivare a casa.
L'incontro con mio padre e mia sorella a Santo Stefano fu commovente.
Ci avviammo a piedi verso Costalta e quando vidi di lontano le
case tanto sognate e che non contavo più di rivedere,
mi sembrava di scoppiare dall'emozione. Tutti i paesani fecero
festa per il mio ritorno, ormai insperato. Le conseguenze di
questa terribile prova si protrassero per gli anni successivi,
finchè mi ammalai di tifo e fui per molti giorni in fin
di vita.
Dopo il campo di concentramento, la violenta oppressione nazista,
la mancanza di libertà, c'era la speranza di vivere in
una società più giusta, che rispettasse maggiormente
i diritti delle persone. Invece ho toccato con mano le ingiustizie
e l'emarginazione in cui sono tenuti i poveri nelle società
attuali. Ho dovuto attendere trentun anni per ricevere una misera
pensione come risarcimento dei danni di guerra. Per poter lavorare
e mantenere la famiglia ho dovuto, negli anni Sessanta, tornare
in Germania come emigrante. Sì, proprio in quello stato
dove avevo patito sofferenze indicibili! Ad una scelta precisa
mi hanno portato le sofferenze del lager: sono antifascista,
risolutamente contro ogni forma di prevaricazione dei pochi sulle
masse e credo invece nella democrazia come bene supremo. Questi
miei ricordi vogliono essere soprattutto un appello ai giovani
perchè non permettano più il ripetersi di tali
orrori e contribuiscano alla costruzione di una società
in cui non ci sia spazio per le atrocità che ho visto
e provato nei lager.
Evelino Casanova Borca |