PARTENZA
Ricordo come fosse ieri (invece sono passati trent'anni),
quel sette di ottobre 1942, quando da Cavalese, in val di Fiemme,
sono partito per la Russia. Non ero il solo di Costalta: eravamo
cinque paesani nel battaglione.
L'ordine di partire ci venne dato repentinamente, senza alcun
preavviso.
La sera prima della partenza, decidemmo di fare un po' di baldoria,
tentando di vincere la malinconia con il vino. Quella notte la
passammo in un fienile, non rientrando più nell'accampamento.
Il mattino seguente, durante l'ultima selezione, due di Costalta
ebbero la fortuna di rimanere in Italia, mentre gli altri tre
furono definitivamente destinati alla partenza. Partimmo da Cavalese
di pomeriggio verso le tre, con un trenino che ci portò
a Ora di Trento, dove ci attendeva il treno militare, la tradotta,
che ci avrebbe condotti in Russia. Era un pomeriggio splendido,
con un sole ancora caldo e colori meravigliosi, come solo l'autunno
delle montagne sa offrire. Noi cantavamo a squarciagola, allegri,
con addosso la spensieratezza dei vent'anni, inconsapevoli (forse
era meglio così) di quello che ci attendeva. Eravamo pieni
di "amor patrio". L'amor patrio è un sentimento
grande; lo può capire chi lo ha provato. Oggi è
un po' fuori moda, spesso fa sorridere sentirne parlare, ma noi
avevamo ricevuto a scuola un'educazione di stampo fascista, che
metteva al primo posto tra i valori sacri e difendibili sempre,
proprio la patria. Noi eravamo pronti a difendere con la vita,
se necessario, il nostro Paese.
Ci fermammo al Brennero e da lì scrissi a casa l'ultima
cartolina di saluto dall'Italia. Ricordo bene la cartolina postale
con la scritta "VINCEREMO!!", quasi un augurio per
la nostra avventura in terra russa...
La prima tappa fu Vienna, alle prime ore del mattino seguente.
Nelle due ore di sosta ebbi modo di girare per le strade di quella
splendida città e di ammirarne le bellezze. Capii subito
la grande storia e i fasti che la capitale asburgica doveva aver
conosciuto; rimasi colpito particolarmente dalla Basilica di
Santo Stefano. Ripartimmo e proseguimmo il viaggio attraverso
la Cecoslovacchia e l'Ungheria. Ovunque passavamo, le donne e
le ragazze ci salutavano dalle finestre e dai campi. In mezzo
alla sterminata campagna ungherese, la tradotta si fermò
un bel pezzo per non uccidere centinaia di lepri che attraversavano
i binari. Sono particolari che possono parere insignificanti,
ma io, allora, guardavo tutto con emozione grandissima, perchè
non ero mai uscito da Costalta, non avevo mai conosciuto altri
paesaggi, che non le montagne.
Quelle sterminate e piatte campagne mi affascinavano e nello
stesso tempo mi aiutavano a scacciare il pensiero da ciò
che mi attendeva. Soprattutto la preghiera e la fiducia nella
Provvidenza divina, mi hanno sempre sostenuto, nei momenti più
difficili e disperati, quando anche la ragione sembra non trovare
risposte adeguate, nè gli ideali.
Dopo alcuni giorni di viaggio ininterrotto, ci inoltrammo in
territorio russo, più precisamente nell'Ucraina. Ci accorgemmo
subito che lì era passata la guerra: profonde buche nel
terreno, segni dei bombardamanti e delle granate. Quando arrivammo
a Kiev, sul fiume Dnjeper, il ponte era stato fatto saltare e
i nostri compagni avevano costruito un ponte provvisorio in legno,
sul quale la tradotta faticava a passare. Da quel punto in poi
il viaggio si fece più problematico; dovunque binari rotti
o riaggiustati alla meno peggio, dovunque sconnessioni provocate
dalla guerra. La tradotta andava ora avanti ora indietro. Pareva
vagare senza meta. Ma la meta era invece ben precisa: la stazione
di Potgornje. Vi giungemmo il primo novembre I942, presso il
comando della divisione "Tridentina".
IL FRONTE SUL DON
Durante la prima notte passata in terra di Russia, un bombardamento
dei caccia nemici sfiorò le nostre postazioni, per fortuna
senza centrarle.
Il giorno dopo partimmo di buon mattino, a piedi, verso il fronte.
Una marcia lunghissima, estenuante, con la strada in salita,
che impegnò tutta la giornata. Non c'era molta neve, però
il freddo era pungente. Raggiungemmo il reparto verso sera e
fummo aggregati agli altri, che stazionavano lì da parecchi
giorni. Scrissi la prima cartolina dal fronte. Mittente: Sesto
Reggimento Alpini, Battaglione Val Chiesa, 112° Compagnia
AA, Posta militare 201, RUSSIA. In una "isba", trasformata
in Fureria, trovai un caporale maggiore di Auronzo. L'isba è
la tipica abitazione russa: ha forma quadrata, un piano unico
e spesso stanza unica. Il tetto è a piramide, composto
con paglia intrecciata. I muri sono di rami intrecciati e poi
ricoperti di gesso, per raggiungere lo spessore di circa 20 cm.,
sufficienti per proteggere dal gelido inverno russo. Marciando
verso il fronte incontrammo parecchi gruppi di isbe, uno solo
dei quali abitato. La nostra marcia proseguiva tra quelle steppe
interminabili, dove spingendo lo sguardo non si vedevano altro
che pianure e collinette, intervallarsi una all'altra, in uno
spazio che pareva infinito. Stanchi per la marcia, ma ancora
entusiasti, vigorosi e desiderosi di combattere, per dimostrare
ai nostri superiori, ma soprattutto a noi stessi il valore, lo
spirito di patria che animava i nostri cuori, continuavamo a
camminare, finchè giungemmo sul fronte del Don.
Il fronte era posto su una linea di basse colline, dalle quali
si scorgeva in basso, a una distanza di un paio di chilometri,
il Don, già imprigionato dalla morsa del ghiaccio. Sulla
sponda opposta, si vedeva una strada, percorsa dalle macchine
dei russi. Alla sera, nel silenzio, giungeva fino a noi il canto
dei soldati russi e, intervallate, grida in italiano (forse qualche
fuoriuscito), che incitavano alla diserzione: "Italiani,
arrendetevi! Mussolini vi tradisce!".
Ci mettemmo subito all'opera; dovevamo scavare in quelle collinette
dei rifugi per ripararci dal freddo. C'erano i turni di lavoro
e i turni di sentinella. Da quell'altura si scendeva, sempre
in gruppo ed armati, per attingere l'acqua da una sorgente situata
in un boschetto di roveri. I fusti degli alberi erano tutti bucati
per le continue sparatorie dei russi. Il freddo era ogni giorno
più pungente, soprattutto perchè le nostre divise
erano del tutto inadeguate per quelle temperature. Così
i rifugi che avevamo costruito, si rivelarono provvidenziali,
perchè alla sera, con la legna raccolta durante il giorno,
accendevamo dei fuochi che ci riscaldavano, che riuscivano perfino
a ricordarci il tepore delle nostre "stue" a casa.
Chi non era di sentinella passava il tempo a raccontare esperienze
personali, più o meno divertenti, o magari un po' gonfiate,
ma soprattutto a sognare il ritorno in Italia, a casa.
La fame era tanta, la razione che ci davano era del tutto insufflciente
e tutti approfittavano dei rari momenti di libertà per
sparpagliarsi per la campagna a raccogliere girasoli, che spuntavano
ancora tra la neve, per portarli a seccare sulla stufa e mangiarli.
In quelle pianure c'erano anche delle mucche, che servivano all'approvvigionamento
del battaglione; pascolavano in mezzo alla steppa innevata e
si facevano largo col muso tra la neve alla ricerca dell'erba.
Di notte si sdraiavano sulla neve e passavano la notte all'adiaccio.
Pensavo con quanta attenzione chiudevo ogni fessura della stalla,
a casa... Una volta al giorno giungevano i viveri dal comando
di reggimento. Il pane era un pezzo di ghiaccio e il vino lo
portavano nei sacchi, distribuendo poi una lastra a ciascuno,
che veniva sciolta nella gavetta sulla stufa. Il vino era molto
buono, arrivato da Verona in botti. Il gelo ne impediva però
la conservazione, in quanto vi erano 35 gradi sotto zero e il
vino si gelava all'istante.
Nonostante il fronte fosse fermo, si sentivano sempre degli spari,
sia da parte nostra che dei nemici. Ogni tanto passava qualche
aereo a bassa quota per mitragliarci.
Rimasi in prima linea fino al 23 novembre. Quella sera arrivò
un soldato portaordini, con la comunicazione di servizio per
me: ero chiamato per preparare il pane. Il forno, costruito in
un'isba dai soldati italiani, era situato nel paesino disabitato
a ridosso del fronte, serviva da approvvigionamento soltanto
per il mio battaglione. Eravamo in otto a fare il pane, quattro
per turno. In quell'occasione conobbi e strinsi amicizia con
un alpino di Brescia, persona con cui instaurai un rapporto molto
bello, con cui condivisi momenti terribili e disperanti, non
solo in Russia, ma anche nei due anni che seguirono di prigionia
in Germania, che si è salvato dall'inferno di ghiaccio
russo insieme a me. Purtroppo le razioni del pane non erano mai
sufficienti, perchè la farina stentava ad arrivare. Nelle
ore extra-turno, spaccavamo la legna, ricavata dalle isbe, per
avere sempre il forno alla temperatura giusta per cuocere il
pane. Quando terminavo il lavoro, con due pagnotte sotto il cappotto,
mi avviavo verso il fronte e le portavo ai due paesani che erano
nello stesso battaglione. Era un'occasione per ricordare Costalta
e passare un momento di serenità, anche se di immensa
nostalgia.
ORDINE DI RITIRATA
Trascorremmo il Natale del 1942 a fronte fermo. Proprio durante
le feste natalizie si sentirono continui bombardamenti in lontananza
e movimenti di aerei. "Radioscarpa" informava che la
Julia era in pieno combattimento a circa cinquanta chilometri
da noi. I nostri auguri di Natale furono i colpi della "katiuscka"
(cannone automatico a venticinque colpi), che centrò una
scuola disabitata, posta nelle vicinanze, che i russi credevano
requisita dal battaglione alpino. Il giorno di Santo Stefano
venne al forno, dove lavoravo, un cappellano militare, che celebrò
la messa, a cui parteciparono tutti. Io sentivo particolarmente
forte la presenza di Dio, la fiducia nella Provvidenza non mi
abbandonò mai, anzi fu il principale sostegno, anche nei
momenti più duri, che di lì a poco avrei dovuto
affrontare.
Il freddo era terribile e si intensificò maggiormente
verso i primi di gennaio. Ricordo un particolare. Un compagno
era uscito dall'isba per prendere il rancio ad un centinaio di
metri di distanza; ebbe l'imprudenza di togliersi i guanti per
portare il cibo bollente in quattro gavette. Ma il freddo era
così intenso che gli si congelarono le mani e dovette
essere portato d'urgenza all'ospedale militare.
Eravamo tutti all'oscuro di ogni cosa, però nei discorsi
di tutti c'era l'ansia di sapere notizie sicure, di conoscere
quale sarebbe stata la nostra sorte, dove ci avrebbero indirizzato
per il futuro. Il 17 gennaio I943, verso le quattro di sera,
mentre stavo infornando il pane, giunse un sottotenente del comando
di divisione, il quale ci disse poche ma significative parole:
"Ordine di ritirata!". Io sapevo come agire: chiusi
il forno perchè il pane si bruciasse, buttai in terra
i sacchi di farina, spargendola sulla neve, gettai in un fosso
il pane rimasto, cospargendolo di benzina.
Verso le cinque partimmo in direzione di Podgornoje. Imbruniva.
Era una sera infernale, con una tormenta ed un gelo inimmaginabili.
Quante scene terribili! Alpini che per la stanchezza e il freddo
si coricavano nella neve, arrendendosi all'ultimo sonno; altri
che, ubriacatisi di cognac trovato nelle dispense, non si reggevano
in piedi e stramazzavano a terra, fuori dalla lunga, interminabile
colonna nera che procedeva a serpentina nella steppa gelata;
i muli, che si accasciavano, stremati, ogni cento metri.
Camminammo tutta la notte con passo veloce ed arrivammo al comando
di divisione di Podgornoje alle sette di mattina; trovammo posto
in qualche isba e tentammo di dormire, perchè sembrava
proprio di non farcela più dalla stanchezza. Alle dieci
suonò l'adunata ed il generale Reverberi, salito su un'isba,
rivolse ai soldati questo discorso: "Alpini, siamo circondati
e chiusi in una sacca. Dovremo fare due o tre combattimenti e
poi di là troveremo il treno che ci riporterà in
Italia a rivedere le nostre mamme e le nostre spose". Si
alzò un urlo da tutta la truppa, perchè pensavamo
di aspettare la primavera per l'avanzata verso gli Urali e il
Volga; nemmeno lontanamente avremmo avuto sentore di tornare
in patria così presto.
Il discorso di Reverberi dette certamente sprone a tutti, a me
in particolare, che da quel momento pensai soltanto al ritorno
a casa. La ritirata iniziò di pomeriggio.
La colonna in marcia era lunga, pareva non avere fine; si stagliava
nettamente, serpente scuro in mezzo al chiarore della steppa
innevata. Eppure erano uomini, con le loro speranze, i loro desideri,
una vita ancora tutta da vivere, ma ora costretti a marciare,
malvestiti, provvisti soltanto di poche munizioni e di pochi
viveri, in una morsa di gelo che induriva le membra e la mente.
Dopo due ore di marcia incontrai un amico di Sappada, ferito
ad una spalla, che aveva appena sostenuto un combattimento.
Il giorno successivo, incontrammo un gruppo di partigiani russi,
che controllavano un paese e riuscimmo ad espugnarlo. Proprio
in quel paese il giorno prima il comando e il reparto motorizzato
della divisione Julia era stato distrutto in un violento combattimento.
C'erano ancora decine di morti per terra e sulle macchine.
Marciavamo verso ovest e le giornate di marcia a ritmo bestiale
si susseguivano l'una all'altra, ininterrottamente, senza intravederne
la fine. Allorquando si giungeva in prossimità di qualche
paese, c'erano sempre dei partigiani o reparti dell'esercito
russo, che aprivano il fuoco sulla divisione. Avemmo 11 combattimenti,
prima del grande scontro di Nikolajewka, ma riuscivamo a sfondare,
anche se non senza difflcoltà. Per tre sere, quando la
marcia cessava, incontrai i due compaesani, stanchi, sfiduciati.
Uno dei due disse: "Non ne posso più, sono stanco,
affamato, non voglio più camminare!". Gli detti una
scatoletta che avevo con me, esortandolo a continuare, a marciare,
a non cedere alla stanchezza. Oltre alla stanchezza per la marcia
e i continui combattimenti, dovevamo sopportare una fame lancinante
e i pidocchi, a migliaia. Le mutande grigioverdi erano ormai
diventate di color marrone per la loro presenza.
Per sei giorni praticamente non ho toccato cibo.
La notte del 25 gennaio, fu dato l'allarme a mezzanotte. Usciti
in fretta dalle isbe, un compagno mi disse: "Guarda i russi".
Erano a dieci metri da noi; riuscimmo ancora a metterli in fuga.
Ma il giorno dopo ci attendeva Nikolajewka.
NIKOLAJEWKA, C'ERO ANCH'IO
La località in cui ci eravamo fermati quella notte
distava circa dieci chilometri da Nikolajewka. Partimmo molto
presto, era ancora buio; dopo due ore di marcia, mentre spuntava
l'alba, già si sentiva sparare. Verso le otto arrivammo
in prossimità di una collinetta. In basso, a circa cinque
chilometri, si trovava questa cittadina russa, destinata a diventare
epica dopo la giornata del 25 gennaio 1943. Si elevava sulle
case una grande chiesa, senza campanile; la neve che copriva
i tetti mimetizzava le isbe nella steppa. Si vedeva il fuoco
dei cannoni che i russi avevano appostato dietro le case. La
nostra artiglieria rispondeva al fuoco e si scendeva lentamente
dal colle, mentre gli avamposti della Tridentina già da
ore sostenevano aspri combattimenti. Ogni colpo di cannone seminava
morti nella colonna che scendeva. Frattanto confluivano lì
anche soldati tedeschi, magiari, sbandati che si univano alle
nostre fila. Io mi trovavo a metà della colonna, procedendo
a fatica, perchè ero senza una scarpa. Una sera durante
la ritirata, ci eravamo fermati a dormire in un pagliaio e io
avevo posto gli scarponi accanto al fuoco, perchè erano
congelati. Uno si bruciò e dovetti, da quella sera, avvolgere
il piede in una pezza molto stretta, per poter continuare a camminare.
D'altronde la maggioranza era nelle mie stesse condizioni. Mentre
si scendeva verso la città, le granate passavano vicinissime,
con il loro fischio di morte, a cui seguiva sempre un grido lancinante
di un compagno colpito. Intorno non c'era che morte e disperazione.
Si sente dire che certe battaglie sono un inferno: sì,
quella di Nikolajewka lo fu, assurda e terribile. Cercavo di
correre una volta a destra, una volta a sinistra, per scansare
i colpi; cosl per ore, ore atroci, interminabili, in cui non
c'era possibilità di fuggire all'orrore. Il generale Reverberi
gridava "Avanti ragazzi!", perchè sapeva che
quella battaglia per noi era ad una sola direzione. Dovevamo
sfondare. L'alternativa era tra una morte possibile nella battaglia
di quella giornata o una morte certa nella steppa russa. I combattimenti
continuarono accaniti fin verso l'imbrunire, quando finalmente
i russi si ritirarono da Nikolajewka. Quella notte trovai posto
per dormire, dopo una giornata intensa di combattimenti e dopo
aver girato tutte le isbe in cerca di cibo (alcuni cetrioli e
un po' di farina di segale), in una chiesa. Aveva pavimento in
legno e un gruppo di ragazzi accese un fuoco per scaldarsi. In
un momento la chiesa bruciava interamente e fuggii, trovando
un cantuccio nell'atrio di un'isba, dove rimasi per il resto
della notte. Il mattino, al risveglio, guardai la collina. Era
una distesa di corpi, neri, in contrasto con il paesaggio bianco,
ammucchiati o divisi, accomunati da un destino di morte. Uno
spettacolo raccappricciante, che mi è rimasto impresso
negli occhi e nel cuore e che credo non dimenticherò mai.
Ancora oggi questo è per me il sogno più ricorrente.
IL RITORNO
Da quel giorno eravamo tutti sbandati: non c'era più
il comando. Ci si riuniva a gruppi tra amici superstiti e si
proseguiva la marcia in una nuova colonna. Dopo due giorni, giungemmo
alla tanto sospirata ferrovia, ma la delusione doveva essere
cocente, perchè ci dissero che l'ultimo treno doveva trasportare
i feriti. Sicchè, delusi, riprendemmo la marcia, che durò
ancora trenta giorni. Non ci furono più battaglie, ma
attraversammo tutta l'Ucraina per giungere in Russia Bianca.
Si disse fossero 1500 chilometri. Ogni tanto passavano dei tedeschi
sui camioncini, a cui i soldati italiani, loro alleati, chiedevano
un passaggio. Se qualcuno si aggrappava ai camion, i tedeschi
colpivano le loro mani col calcio del fucile.
Una sera, in otto, trovammo un maiale. Dopo averlo arrostito
lo mangiammo tutto quella notte. Trenta chili di carne!. Per
stomaci così disabituati al cibo, quell'abbuffata di carne
fece proprio uno strano effetto...
In Russia Bianca giungemmo ai primi di marzo. Ci fermammo otto
giorni perchè fosse approntata la tradotta per il ritorno
in Italia. Sempre più stanchi ed affamati, frugavamo tra
le isbe per trovare qualcosa di commestibile e qui l'impresa
era più facile, in quanto la zona non era stata teatro
di scontri. In quei giorni ebbi modo di apprezzare la bontà
della gente russa. Caritetevoli, dignitosi, senza prevenzione
verso gli italiani, che pur erano loro nemici. Ci rispettavano
e nei limiti del possibile ci aiutavano, offrendo volentieri
il poco che avevano. Ricordo, in quei giorni di sosta forzata,
un particolare di vita quotidiana: le donne lavavano sul ghiaccio
con gli stivali, tenendo fermi i vestiti con un piede e strofinandoli
con l'altro.
Arrivò finalmente il mio turno di partenza. A Leopoli,
in Polonia, ci fecero scendere per una disinfestazione. Diverso
questo viaggio da quello di andata! Allora entusiasmo, inconsapevolezza
e forse paura; ora tristezza, sconfitta, insieme alla gioia per
essere un sopravvissuto a quell'immensa pianura sconosciuta e
gelida. Arrivai e Tarvisio alle sei di mattina del giorno 19
marzo, il mio ventunesimo compleanno. Ero stato in Russia sei
mesi. Sentii suonare le campane e mi misi in ginocchio a piangere,
a baciare la terra e a ringraziare Dio per essere tornato. Rimasi
ancora 15 giorni "in contumacia", come è consuetudine
per chi torna dalla guerra. Arrivai a casa ai primi di aprile,
accolto dalla grande gioia dei miei. Ma la mia allegria durò
poco, perchè incontrai la mamma di uno dei due paesani
che avevo lasciato in Russia. Mi guardava interrogandomi con
gli occhi; io non sapevo cosa risponderle e le detti buone speranze.
Non smise mai di attenderlo.
Questa sembrerebbe una storia a lieto fine, ma dopo un mese ritornai
"sotto le armi". Di lì a poco gli avvenimenti
storici avrebbero dato una nuova sterzata alla mia vicenda personale.
L'otto settembre 1943, per me non significò altro che
l'inizio di ventidue mesi di prigionia in Germania, nei campi
di concentramento nazisti...!
Albino Eicher Clere |