Idillio ed elegia
nella pittura di Giovanni De Bettin
"Se una composizione di alberi, di
montagne, di acque e di case, cui diamo il nome di paesaggio,
è bello, non risulta tale per se stesso, ma per la finezza
che è mia, per l'idea o il sentimento, che vi associo." (Charles Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi,
1982)
I dipinti di Giovanni De Bettin (nato a Costalta
di Cadore nel 1923) hanno in molti casi una valenza transitiva,
rinviano cioè a un cumulo di significati diversi che riescono
a innescare nell'osservatore. Egli è pienamente immerso
nel suo tempo, che taglia trasversalmente gran parte del novecento,
avendo un occhio sempre attento alle evidenze della terra natia,
dove risonanze di storia ed effetti di tradizioni si incrociano
in un'analisi dello spazio che si fa dimensione dell'anima. Avviato
fin da piccolo dal padre alla pratica della musica (l'organo
è il suo strumento preferito), coltiva nelle ore libere
il disegno, vergando con la matita qualsiasi superficie possa
risultare piano di registrazione delle emozioni, in un lungo
inesauribile abbecedario dei propri moti interiori, trasposti
su una sorta di diario costituito dagli schizzi improvvisati,
da fraseggi che prendono corpo nel loro evolvere chiaroscurale,
nella confessione tradotta in essenza grafica di stati d'animo,
dominati sovente dalla cifra melanconica. La curiosità
di autodidatta, teso a ogni fonte di potenzialità creativa,
lo porta a un sodalizio, denso di sollecitanti motivi di riflessione,
con il poeta Silvio De Bernardin Stadoan.
Vissuto a stretto contatto con la parrocchia
(anche perché il padre è campanaro), De Bettin
vede avvicendarsi numerosi sacerdoti, che costituiscono spesso
un punto ineliminabile di informazioni anche e soprattutto sulle
questioni dell'arte, quelle più legate alle ragioni e
alla dinamica iconografica sacra e religiosa. Ciò diviene
presto una base di elaborazione per ulteriori approdi, costruiti
sulla convergenza di figura e colore, nella resa di situazioni
atmosferiche capaci di rimandare a precise circostanze di vita
quotidiana. Dal dopoguerra in poi si trova ben dentro quel clima
di ricostruzione, che s'avverte anche a Costalta, e il suo contributo
si concretizza in decorazioni esterne delle case con scene legate
alla caccia o, comunque, all'ambiente familiare. E la consuetudine
con le norme costruttive della figura, con i segreti della composizione,
allungata su una prospettiva che muta ad ogni punto d'osservazione,
si rafforza nell'aspirazione e si consolida nel convincimenti
di un impegno che non può essere sporadico o marginale.
Gli anni '60 sono il periodo più favorevole a un'analisi
sistematica delle ragioni creative e a un impegno costante nella
pittura, dove il carattere di una leggibilità immediata
si coniuga con l'esigenza di una comunicazione diretta delle
proprie sensazioni sul rapporto tra l'uomo e la montagna, sul
mondo naturale così come si manifesta nel Comelico, sugli
usi e costumi di un tempo andato, sulle persone vicine, sugli
avvicendamenti di luce durante il giorno e le stagioni, sulla
brevità del segmento anagrafico, sul succedersi delle
generazioni.
La sua opera si fonda quasi esclusivamente sull'atmosfera di
famiglia (intesa anche in senso lato, come comunità paesana),
quindi su paesaggi montani inseriti in un ambito che equivale
alla scrittura di un cantastorie. Il nesso della trama sta nell'amore
profuso dall'artista nella rappresentazione delle cose, in una
pittura la cui vena poetica risiede nella spinta evocativa. La
capacità di aprire l'orizzonte spaziale si rivela con
tenui sfumature di colore, al di là del quale la vista
è condotta oltre il velo lattiginoso dell'atmosfera, quasi
dentro un pulviscolo bigio. Spesso il quadro nasce non solo dal
gusto di tradurre i suggerimenti di natura, quanto piuttosto
di condensare istanze interiori in un contesto vissuto nell'intensità
di un palpito sentimentale continuo, attivato sui ritmi dell'esistente;
è quello medesimo che accende le aderenze più impercettibili
all'ambiente di casa, con la realizzazione di scene estrapolate
da un lungo racconto sull'attaccamento alla propria terra, nella
cui espressione non sfugge uno slancio esplicitamente elegiaco.
Ma chi guarda è portato a sondare anche in direzione dei
simbolico, qualche volta in un paesaggio che si fa luogo di un'attività
fantasticante, fondata sulle illusioni del naturalismo. L'evoluzione
dell'arte di Giovanni De Bettin è in alcuni punti esaltata
da un senso panico e magico della natura, il suo mondo di scoscendimenti,
valli, monti, piccole figure che appaiono attori di una scena
dai risvolti struggenti, emersioni di una memoria dispersa nelle
vibrazioni del colore, nella stratificata tensione della stesura
pittorica. E' sufficiente scorrere alcune delle opere di questa
mostra, per rilevare una serie di fattori strutturali che sono
le radici di una "fioritura" poetica, marcata da connotazioni
pienamente riconoscibili. Il tutto non disgiunto da un magma
fluttuante di segnali provenienti da presenze della storia dell'arte,
più o meno vicine nello spazio e nel tempo, che entrano
nella sostanza di un repertorio culturale, dove si registra la
prevalenza della sua sintesi personale: da una parte i suggerimenti
derivati dalla sapienza cromatica di Tiziano, dalla sintassi
chiaroscurale di Caravaggio, dall'altra la sensibilità
rispetto all'incanto dei scenografici sfondi di Delacroix e ai
molteplici giochi di luce sulle tele di Segantini.
Nei ritratti, dove sono concomitanti profonde
esigenze creative con precise richieste della committenza, De
Bettin interviene sulle fisionomie considerate con il tocco di
una propria interpretazione, talora intrisa dal gusto per l'ironia.
L'opera dedicata al vecchio dal sorriso sdentato (anni '50) ne
è solo un esempio: una superficie dove la pittura vive
su una matericità, dalla quale sembra aggettare il volto
della persona ritratta, modulata sulle tonalità terrose.
Ma il complesso di motivi si allarga a una vasta gamma di possibilità:
dal bimbo imbronciato (anni '70), dove l'autore esprime la cifra
di un'incisiva capacità di entrare nel carattere del soggetto
e di proporlo con vibrante partecipazione personale.
E poi, dentro lo stesso genere, il ventaglio di opzioni arriva
alla precisa caratterizzazione della "cadorina" (primi
anni '70), alla trasognata frontalità di "Dvane dal
Col" (anni '70), che si affermano in una tavolozza scarna,
dove il fattore luminoso crea i contrasti, come si evidenzia
"Simon co la lioda" (anni '80). Il taglio fotografico
della composizione resta uno dei cardini dell'opera di De Bettin,
che agisce sul fattore luminoso per dare sostanza plastica alla
figura: il ritratto dell'amico Carlo Spano ('84) ne è
prova rivelatrice. Oppure quello dei fratello Alberto (anni '50),
"costruito" pittoricamente sulle tonalità delle
terre e dei verde. Ma anche dove prevalgono il bianco e il nero
l'efficacia della pittura non viene meno; lo dimostra ampiamente
il ritratto dei "vecchio di profilo"(70). E il bianco
è il vero dominatore nella bella nevicata (fine '80),
dalla quale emergono due cavalli che trainano il fendineve, in
una scena densa di slanci dinamici mentre il contesto è
intessuto dalla caduta leggera dei fiocchi gelati. La simbologia
del tramonto si riflette nella speculare condizione di un giorno
che va incontro alla notte e di due vecchi che s'avviano alla
fine dei proprio segmento esistenziale (Il tramonto del giorno
e della vita", 1982); il dato drammatico della dipartita
è stemperato dal contrasto della luce diffusa, che sospende
la montagna in uno spazio inciso dal nero delle due figure, che
s'allontanano dal primo piano. I "Tre fienili" (fine
'70) poi sembrano immersi in una dimensione senza tempo, dove
il silenzio scandisce i battiti di una necessità, quella
degli animali. Mentre le "Tre Terze con cavalli" (fine
'80) offrono una singolare combinazione osmotica tra la "pelle"
dei quadrupedi e il colore delle rocce dolornitche. Nel "Paesaggio
autunnale" (70) lo stato misterioso di sospensione vive
tra il verde declinante delle piante e il rosso di foglie, che
costituisce la griglia strutturale dei quadro. Nelle "Tre
Cime Lavaredo" (70), la fisicità rarefatta dei cielo
e quella dei picchi rocciosi si compenetrano in un'unica grande
e pulsante situazione di natura. Quel verde non squilla per la
luce cristallina delle alte quote, ma si dispiega in un canto
sommesso dentro una determinata corsia cromatica, con poche variegazioni
tonali; i "buoi al lavoro"(inizio '80) ribadiscono
con forza questo assunto. Un che di epico anima la figura di
"Giovan" (1995) di fronte a uno spettacolo di monti
ad anfiteatro, dove forme alpine e sagome di luce si muovono
in una cornice maestosa.
Il paesaggio è creatura pulsante nelle mani di De Bettin,
che ama giocare con i riverberi di luce, innervando di un rosso
cangiante un pianoro toccato dal raggi obliqui del sole ("Paesaggio",
'70). Nelle nevicate ("Paesaggio invernale", inizi
'80) l'artista realizza quella sintesi che congiunge la polarità
lirica e quella evocativa, in un'esaltazione del silenzio quale
protagonista assoluto della scena.
Il "Trasporto di tronchi" (2000) è documento
di una maniera costruttiva, suggerita dalle mutate capacità
di vedere: l'indugio non è più sulla minuzia del
particolare e del contorno, ma la figura si forma per forza agglomerante
del colore che si espande nella stesura fino al margini della
figura stessa; i connotati dei volto evaporano verso la determinazione
di una fisionomia generica, perché quanto interessa a
De Bettin non è il dato spicciolo della cronaca, ma il
valore delle azioni salienti nello sviluppo di una storia. E
guardando la realtà con "1'occhio della mente",
la interpreta dilatando un po' il ventaglio di colori e allontanandosi
a volte decisamente dalla tendenza monocromatica; lo si riscontra,
per esempio, nella "Conversione" (2004), costruita
sull'intensità dei contrappunti luministici e su un complesso
di tinte opache e smorzate che rilevano il tratto intimistico
dell'opera.
Gli "Anziani nel bosco" (fine '80) sono gli stessi
dei "Tramonto dei giorno e della vita" ( 1982) e rappresentano
certamente uno stato d'animo molto diverso: i colori si accendono
di un rosso che dà corpo alle evidenze figurali dei quadro,
mentre le persone sono le medesime, risolte col nero che variega
i propri riflessi nel gioco dell'esposizione, diretta o meno,
ai raggi dei sole. Le nervature cromatiche che virano verso il
rosso ricompaiono nel "Riposo nel bosco" (fine '80),
dove i due personaggi dei tempi andati si beano di quel crogiuolo
di silenzi e luce che promana dall'ambiente montano.
Nei "Campanili dei Comelico" (1993), quasi un omaggio
al lavoro paterno, l'autore di Costalta riunisce in un unico
ambito di cielo e nuvole, evidenziandole in una specie di campionario,
le peculiarità architettoniche delle varie torri che punteggiano
il territorio.
Nello sviluppo della pittura di Giovanni De Bettin si colgono
alcune linee caratterizzanti di una presenza, generosa di spunti
di riflessione per chi voglia leggere l'opera non solo per quanto
essa prospetta, ma anche per quello che evoca, che richiama cioè
alla superficie dell'attualità dai recessi della memoria:
un mondo di attività e di abitudini cancellate dal tempi
che, pertanto, assume un valore di autentica testimonianza. Poi
i moduli più specifici della pittura, che anche quando
ricrea sulla tela situazioni di intensa partecipazione emotiva,
sa collocarle in un alveo di intonazione idillica nel quale non
prevale il dato dei compiacimento formale, bensì una gamma
di umori molteplici: dal tormento esistenziale alla calda adesione
al suo mondo, dalla profonda malinconia per la fugacità
del tempo, alla problematica relazione con l'attualità.
Dalla fine degli anni '50, quando comincia a farsi strada in
lui anche la voglia di confrontarsi con iI largo pubblico delle
occasioni espositive, fino ad oggi, l'artista, estraneo alle
seduzioni del nuovo a tutti i costi, rimane tenacemente abbarbicato
alle sue convinzioni, quelle di fissare la realtà più
cara, ambientale e umana, dentro la retina della coscienza, proiettandola
poi sulla superficie in una pittura che non "fotografa"
il mondo ma ne elabora alcuni aspetti, quelli che maggiormente
si sintonizzano con le proprie motivazioni interiori. Da questo
punto di vista Giovanni De Bettin è cantore della poesia
di Costalta, inscritta nei suoi silenzi, nella storia della gente
frequentata in oltre ottant'anni di solidale partecipazione alle
sollecitazioni di una montagna, avara eppur amica.
Enzo Santese |