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Il mio primo Steinbeck è stato Pian della Tortilla, ma non il libro: il
film, un b/n con Spencer Tracy (si intitolava Gente allegra) alla tv al tempo
delle scuole medie, quando si cominciava a restare alzati qualche rara volta la
sera, ma giusto per vedere certi film che i genitori avevano tanto amato in gioventù
e che tenevano ora a condividere con noi ragazzini. Ricordo commozione e divertimento,
entrambi rimasti appiccicati addosso per un bel pezzo, forse direi per sempre.
Ma certo allora non comprendevo gli altri significati di quelle vicende, e sapevo
gustarne solo quanto di bislacco, fresco e surreale illustravano, oltre al piacere
così insolito di guardare un film in televisione dopo l'ora canonica.
Comunque era quella l'età giusta per approdare a questo immenso scrittore,
e cominciò da lì, da quell'inverno di scuola, la mia conoscenza
dei suoi romanzi. Per quelli della mia generazione e dintorni, J.S. è stato
uno degli scrittori di formazione: i suoi libri ci sono passati tra le mani negli
anni dell'adolescenza, un po' come è avvenuto e sta avvenendo in tempi
più recenti con l'altrettanto americano Charles Bukowski, che gode ultimamente
di tanta simpatia e popolarità presso i lettori giovani. Beninteso, ho
letto anche io parecchio Bukowski, ma me ne è rimasta la sensazione di
aver letto sempre lo stesso libro, con lo stesso linguaggio e gli stessi contenuti,
al punto che, quando li osservo in fila sullo scaffale, non mi aiutano i titoli
a distinguerli uno dall'altro nel ricordo. Quanto a forma e contenuto, poi, tra
i due autori le differenze sono assolutamente esplicite: da Steinbeck, che pure
non è affatto uno scrittore convenzionale, si impara a scrivere, da Bukowski
no. Riscoprire Steinbeck a distanza di molti anni dalla prima lettura mi ha procurato
un piacere più fine e maturo, perché ora è con ben altri
occhi e diverso cuore da allora che posso apprezzarlo e confrontarlo con tanti
altri autori conosciuti nel frattempo. Steinbeck ha un suo stile moderno e lineare,
molto americano, ma ogni sua pagina, ogni frase, ogni ideazione, è permeata
di umanità; la semplicità delle costruzioni e dei dialoghi, apparentemente
rudimentali e invece quantomai efficaci, non appiattisce, non mortifica, bensì
sembra porgere con lievità la poesia stessa che sostiene tutto il suo raccontare.
In Steinbeck c'è questo, che ammiro profondamente: la leggerezza e l'innocenza
con cui trasforma in sogno e redenzione un mondo di miseria, fallimento, disperazione.
Mai che ceda all'apologetico. Vigilano sempre una gentile ironia e uno spirito
delicato e intelligente a evitare ogni caduta moralistica e prevedibilmente edificante.
I piccoli eroi di Vicolo Cannery, sconfitti dalla realtà, sopravvivono
comunque, aggrappati alla zattera della speranza: reagiscono al pessimismo rimboccandosi
le maniche davanti a una nuova illusione, ne fanno un'impresa, ogni volta la Grande
Impresa della vita, da affrontare con l'allegria e lo stupore di un gioco, di
un albero della cuccagna o di una caccia al tesoro. Poi, dagli insuccessi che
altri, più saggi o più cinici, avrebbero previsto meglio, ricavano
nuovi spunti di rinascita: ci ridono su, ci bevono su, ci dormono su, e girano
pagina. Sempre giovani, sempre vivi, sempre puri dai peccati degli altri, degli
adulti seri e preoccupati che sembrano lasciarli indietro e invece sono solo degli
infelici, insoddisfatti, nevrotici prigionieri di un irrimediabile autoinganno.
Il coraggio dei poveri, degli esclusi, dei non-predestinati.
Di questo parlano le vicende di Vicolo Cannery: di gente di poco conto, fuori
dalle competizioni e dal ricatto del successo, gente nata senza un domani ma tenacemente
sognatrice. Dietro ogni loro gesto, anche gli errori, resiste questo sentimento
naturale e caparbio, l'amore per la vita, per la terra, per le cose piccole, un
amore che stempera la rabbia e l'impotenza e sorregge ogni nuovo giorno l'attesa
di un futuro sorridente, per il quale ridere, ballare, giocare e continuare a
cercare la felicità.
Dello stesso Autore leggi anche la recensione di
Furore
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