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Vicolo Cannery
(John Steinbeck)

Il mio primo Steinbeck è stato Pian della Tortilla, ma non il libro: il film, un b/n con Spencer Tracy (si intitolava Gente allegra) alla tv al tempo delle scuole medie, quando si cominciava a restare alzati qualche rara volta la sera, ma giusto per vedere certi film che i genitori avevano tanto amato in gioventù e che tenevano ora a condividere con noi ragazzini. Ricordo commozione e divertimento, entrambi rimasti appiccicati addosso per un bel pezzo, forse direi per sempre. Ma certo allora non comprendevo gli altri significati di quelle vicende, e sapevo gustarne solo quanto di bislacco, fresco e surreale illustravano, oltre al piacere così insolito di guardare un film in televisione dopo l'ora canonica.
Comunque era quella l'età giusta per approdare a questo immenso scrittore, e cominciò da lì, da quell'inverno di scuola, la mia conoscenza dei suoi romanzi. Per quelli della mia generazione e dintorni, J.S. è stato uno degli scrittori di formazione: i suoi libri ci sono passati tra le mani negli anni dell'adolescenza, un po' come è avvenuto e sta avvenendo in tempi più recenti con l'altrettanto americano Charles Bukowski, che gode ultimamente di tanta simpatia e popolarità presso i lettori giovani. Beninteso, ho letto anche io parecchio Bukowski, ma me ne è rimasta la sensazione di aver letto sempre lo stesso libro, con lo stesso linguaggio e gli stessi contenuti, al punto che, quando li osservo in fila sullo scaffale, non mi aiutano i titoli a distinguerli uno dall'altro nel ricordo. Quanto a forma e contenuto, poi, tra i due autori le differenze sono assolutamente esplicite: da Steinbeck, che pure non è affatto uno scrittore convenzionale, si impara a scrivere, da Bukowski no. Riscoprire Steinbeck a distanza di molti anni dalla prima lettura mi ha procurato un piacere più fine e maturo, perché ora è con ben altri occhi e diverso cuore da allora che posso apprezzarlo e confrontarlo con tanti altri autori conosciuti nel frattempo. Steinbeck ha un suo stile moderno e lineare, molto americano, ma ogni sua pagina, ogni frase, ogni ideazione, è permeata di umanità; la semplicità delle costruzioni e dei dialoghi, apparentemente rudimentali e invece quantomai efficaci, non appiattisce, non mortifica, bensì sembra porgere con lievità la poesia stessa che sostiene tutto il suo raccontare. In Steinbeck c'è questo, che ammiro profondamente: la leggerezza e l'innocenza con cui trasforma in sogno e redenzione un mondo di miseria, fallimento, disperazione. Mai che ceda all'apologetico. Vigilano sempre una gentile ironia e uno spirito delicato e intelligente a evitare ogni caduta moralistica e prevedibilmente edificante.
I piccoli eroi di Vicolo Cannery, sconfitti dalla realtà, sopravvivono comunque, aggrappati alla zattera della speranza: reagiscono al pessimismo rimboccandosi le maniche davanti a una nuova illusione, ne fanno un'impresa, ogni volta la Grande Impresa della vita, da affrontare con l'allegria e lo stupore di un gioco, di un albero della cuccagna o di una caccia al tesoro. Poi, dagli insuccessi che altri, più saggi o più cinici, avrebbero previsto meglio, ricavano nuovi spunti di rinascita: ci ridono su, ci bevono su, ci dormono su, e girano pagina. Sempre giovani, sempre vivi, sempre puri dai peccati degli altri, degli adulti seri e preoccupati che sembrano lasciarli indietro e invece sono solo degli infelici, insoddisfatti, nevrotici prigionieri di un irrimediabile autoinganno. Il coraggio dei poveri, degli esclusi, dei non-predestinati.
Di questo parlano le vicende di Vicolo Cannery: di gente di poco conto, fuori dalle competizioni e dal ricatto del successo, gente nata senza un domani ma tenacemente sognatrice. Dietro ogni loro gesto, anche gli errori, resiste questo sentimento naturale e caparbio, l'amore per la vita, per la terra, per le cose piccole, un amore che stempera la rabbia e l'impotenza e sorregge ogni nuovo giorno l'attesa di un futuro sorridente, per il quale ridere, ballare, giocare e continuare a cercare la felicità.

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