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Torno a Steinbeck a distanza di moltissimi anni dalla prima lettura, ed è
un bene. E' troppo tardi, a questo punto, per ricordare le sensazioni provate
allora, nell'adolescenza, ma giurerei che più forti (quasi inattese) sono
le mie di oggi, malgrado creda di potermi definire una lettrice ormai smaliziata.
Eppure, con Furore mi è capitato, come capita solo con certi libri davvero
grandi, di chiudere il libro dopo l'ultima pagina e desiderare di spegnere
subito la luce per restare un po' al buio e da sola, a tentare di riassorbire
qualcosa che assomigliava fin troppo a un pugno allo stomaco. Sì, qualcosa
che fa male, che lascia un segno pesante.
Di Furore si sa tutto: la storia, ben nota, è quella di una famiglia che
migra attraverso l'America della Grande Depressione, argomento dunque che
induce a una lettura per così dire sociale del testo di Steinbeck,
peraltro osservatore appassionato della miseria e dell'emarginazione e reduce
egli stesso da esperienze di lavoro umili e faticose in giovane età. Ma
poiché di questo libro tanti hanno già scritto, non voglio - né
potrei - aggiungermi a loro, ma limitarmi a buttar giù poche note personali
sulle emozioni di cui gli sono debitrice.
Due sono, per il mio sentire, i protagonisti: uno è la Natura, cui S.,
l'Uomo quanto l'Autore, e qui come in quasi tutta la sua produzione,
riserva la sua riverente commozione davanti alla forza e alla sensualità
dei suoi cicli vitali. L'altro è la Donna, meglio la donna-madre,
madre sempre, a ogni età, e simbolo essa stessa della fecondità
e del vigore della Terra. E la Natura e la Donna, la Terra e la Maternità
si fondono in un'unica identità, che rappresenta lo spirito instancabile
della vita e della sopravvivenza. Il senso della narrazione è un richiamo
alla naturale comunione dell'uomo con la terra da cui ogni cosa ha origine
come da un grembo materno, e la cui dissipazione non può che condurre all'annientamento.
Contro questa minaccia sempre presente, ogni istintiva energia dei personaggi
femminili combatte con la viscerale tenacia propria delle specie viventi, che
culmina nella scena finale, la cui cruda dolcezza mette in ginocchio il lettore,
ormai immedesimato fino allo stremo.
Grandi e potenti le descrizioni dei paesaggi e dei frutti della natura; realismo
venato di tenerezza nelle scene familiari e corali; nessuna retorica faziosa nell'affrontare
un tema di denuncia così intenso. Solo lo stato di grazia di un grande
scrittore capace di cogliere il legame imprescindibile degli esseri umani con
la natura e il valore senza tempo né leggi dell'umana solidarietà.
Dello stesso Autore leggi anche la recensione di
Vicolo Cannery
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