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Caro Alessandro Baricco, alla fine l'ho letto, il tuo Oceano mare. L'unico fra i tuoi libri che
ho letto finora, te lo dico subito; poi su questo tornerò.
L'ho comprato prima di tutto per via del titolo, sai, per via del mare. Anche perché,
sì, insomma, Baricco bisogna pur leggerlo, Baricco è Baricco, è la voce nuova,
lo dicono tutti, lo conoscono tutti. Lo lodano tutti. Ma prima di tutto, il mare, che tu definisci
oceano perché è così grande, è così dappertutto - fuori
e dentro di noi - da dire/credere/desiderare che non abbia una fine. Che poi, questa della fine delle
cose - dov'è, come è fatta, come arrivarci, come (un sogno, questo?) varcarla - è
la chiave del tuo racconto, vero? La domanda costante che ci troviamo tra i passi ogni momento, se solo
vogliamo ammetterlo. Passi che prima o poi ci portano, ognuno, alla soglia di una locanda Almayer, come
i tuoi personaggi. Quella, quella soglia, è il non-luogo della fine, la quale, non potendo per
sua natura né iniziare né finire, se ne sta lì immobile ad aspettare di essere
scoperta, solo scorta e mai misurata. Non ha dimensioni, infatti. C'è, e basta. C'è,
ed è necessaria. Tanto che tu ci hai scritto addirittura un libro.
Un bel libro.
Complessivamente (complessivamente) mi è piaciuto molto.
E l'ho letto bene, con attenzione e pazienza, senza saltare una sola parola e senza mai perdere il
filo, fino alla fine (toh, rieccola, la fine!). Due mezzi pomeriggi, ci ho messo, e sento dire
in giro che è un tempo troppo breve per un libro così difficile, ma il fatto
è che io non l'ho trovato per nulla difficile, tutt'altro. Mi è entrato dentro
come un'acqua che fluisce, come un mare appunto.
Lo dicono difficile perché è fatto di storie surreali e complicate, che ogni tanto si
sovrappongono e portano fuori strada, come illusioni ottiche/spaziali/temporali, e anche perché
è fatto di una scrittura barocca e non convenzionale, che può creare qualche perplessità
nel lettore tradizionalista.
Ma a me per l'appunto non interessa, in genere, lo scorrere dell'intreccio entro schemi chiaramente
comprensibili, mentre mi piace - mi soddisfa - questa tua sovrabbondanza lessicale: mi piacciono
gli aggettivi scelti e ammucchiati attorno a un'immagine per rivestirla di un peso che è
quello giusto per il suo autore, e che non può essere raggiunto da un solo termine - per quanto
azzeccato - perché chi scrive magari ha una sua ansia di far vedere, far vedere bene ,
quello che vede lui, e son cose talvolta inesprimibili, vero?
E gli avverbi mi piacciono, anche quelli cercati, individuati, sistemati con caparbietà
e pazienza al posto esatto, lì dove spieghino ma senza preponderare, lì dove aiutino
appunto a far vedere.
La punteggiatura, sapiente: direi che accompagna con cura quasi maniacale, spezzando e ricucendo,
spostando il fuoco dell'immagine, strumento preciso di un preciso regista. Molto apprezzata, questa
punteggiatura che parla a sua volta; usata qui come non capita praticamente mai di vedere, e dio sa
perché. E' talmente utile!
E molto efficaci anche i dialoghi, pur in questo contesto visionario, anzi forse sono l'aspetto
più godibile, perché si attagliano ai caratteri con tale riuscita esattezza che sembra
davvero di udirli pronunciare.
Poi le costruzioni, quelle un po' acrobatiche, che sembrano trascinare il discorso giù
per un pendio a ruzzolare, a rovinare nella confusione, e invece no, se leggi bene - se ti lasci andare,
ché questo è il trucco - ti accorgi che non cade, il periodo, la frase, non cade, non solo:
alla fine galleggia, trova un equilibrio a mezz'aria e si libra e vola, senza più peso, e
tu che leggi con lui.
Quindi, per me ben venga questa tua scrittura ricca, complessa, studiatamente sperimentale, ma che nel
tuo caso particolarmente sembra soprattutto guidata dalla ricerca di una musicalità, o sbaglio?
Come se, per coglierla meglio e a fondo (per entrarci), la strada giusta fosse leggere ad alta voce e
seguire il ritmo; un ritmo sempre intonato e carezzante, non c'è che dire, un ritmo che varia
a seconda del quadro ma senza scosse o cadute. Insomma, un bel ritmo, una buona musica. Anche il mare
ha una musica. Il mare è una musica.
A questo mi vien da pensare. E ad altro: ho avvertito frequenti evocazioni di cose già lette,
forse citazioni inconsapevoli come succede sempre quando si scrive. Ti potrei segnalare Mann, Conrad,
Bronte, Salgari (?) riemersi da mie vecchie e care letture, e, per la parte centrale sulla tragedia
della Alliance (una prova di bravura, una specie di assolo dell'Autore, eh?), dipinti '800 di
naufragi apocalittici, scogli, relitti, disperazione, l'ira della natura contro il genere umano e le
sue risibili presunzioni, le sue miserie, le sue eresie. Un passaggio molto forte e ossessivo, quel
capitolo, a tinte sanguigne e tenebrose. Tuttavia, te lo voglio dire, un po' troppo insistito: è
un racconto a se stante all'interno di un romanzo già così fitto, così zeppo, che
forse, dai, avresti potuto alleggerirlo. A me - te lo voglio dire - pare che pesi eccessivamente, che
sbilanci.
Anche il capitolo 4°, suvvia: non mi è piaciuto per niente, l'ho trovato stucchevole,
fuori registro e oltretutto ininfluente. Fa l'effetto di un soprammobile kitsch in un salotto raffinato.
Stona. Sai una cosa? Io lo toglierei: zac, via.
Per la verità, un pochino inverosimili ho avvertito tutte le descrizioni delle figure femminili:
caricate, tendenti al tragico, e raramente beneficiate di quella dose di elegante umorismo che hai
riservato ai personaggi maschili. La più simpatica, per me, è la Signorina Maria Luigia
Severina, personaggio del finale, caricatura leggera e colorata, molto viva pur nelle poche battute
del suo ruolo. Anna invece è proprio algida dall'inizio alla fine: un angelo finto, in
realtà una donna insopportabile, una civetta con qualche risvolto di acuta malvagità,
cui trovo improprio affidare la simbologia dell'eterno femminino. Per non dire di Elisewin,
povera piccola, disegnata sull'archetipo della fanciulla dolente, diafana, cagionevole: un modello
logoro, per non dire fastidioso.
Da ultimo, dato che ti devo non solo lodi ma anche sincere critiche, ho voglia di contestarti la
chiusura: quel volo della locanda, la sua ascensione, l'assunzione al cielo, ha un sapore
piuttosto ovvio, è una scena già vista, prevedibile, tirata via. Scenografica e simbolica
quanto si vuole, ma modesta rispetto alla densità del lavoro nel suo complesso.
Dalla lettura, su cui ho riflettuto molto e ti prego di credermi, ricavo la sensazione leggermente
sgradevole di un'opera in cui hai espresso un grandissimo, incontestabile mestiere: scrivere, sai
scrivere, però... però si avverte (o io avverto) la presenza costante di una ricerca
di forma che sconfina nel puntiglio, perdendo di vista l'ispirazione subitanea, trasformando la
creatività in tecnica, seppure di alto livello. Scrittura estetizzante, caro Alessandro Baricco,
scrittura maestra e fluida ma in odore di artificiosità. Di maniera. Come se avessi avuto lo
scopo di raggiungere la Bellezza ma avessi invece fissato l'Estetica. C'è una certa differenza,
e sta nella passione. Questo, per me, è il limite del tuo libro. Devi averlo lisciato molto
nell'idea di renderlo perfetto; lisciato, vezzeggiato, leccato come un cioccolatino sublime, ma si sente.
E quando il compiacimento - la golosità - si sente così tanto, è l'autenticità
a risentirne, come converrai.
Per questo bisognerà proprio che adesso io legga altre cose tue: cercherò di farlo senza
pregiudizi (se mai fosse umanamente possibile) per verificare il valore di questo mio commento di oggi.
Può darsi che cambi idea; spero in ogni caso di leggere altre storie di sogno e immaginazione e
di trarne altrettanto piacere. Dopo, magari, ti saprò dire.
Ciao, Alessandro Baricco. Scrittore.
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City
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