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A sorpresa, un nuovo romanzo di Eco, dopo solo quattro
anni da Baudolino
e nemmeno questo preannunciato. Notizia colta di passaggio dal telegiornale
durante i rumorosi riti della cena, tanto che ne cerco conferma in internet,
da dove annoto il titolo, esotico e fantasioso. Non mi convince del tutto:
sarà lo humour del Maestro, mi dico, ma intanto mi par di andare
inventando un disegno a colori come le vignette dei giornaletti di avventure
di tanti anni fa. Qualcosa come una Regina (di Saba?) sfarzosa e spietata,
che ravviva un fuoco (sacro? satanico?) in una spelonca di buio e tesori,
ma - non so perché, o forse sì - nel folto di
una giungla. Insomma, un'eco di Salgari o dell'Intrepido,
quest'ultimo al bando in casa mia dove entrava di straforo in scambio
a giornalini più ortodossi e approvati, ma anch'essi lesinati.
A questo penso mentre, la mattina dopo, mi impossesso di una copia del
libro, arrivato con inaspettata puntualità anche sugli scaffali
del mio supermercato, accanto, devo dire, a molti Grisham, Wilbur Smith
e Casati-Modigliani: gli Implacabili.
Romanzo.
Illustrato.
Non si usa più, illustrare i romanzi; non quelli per gli adulti.
C'è scritto anche (più o meno): un romanzo sulla memoria,
ma non quella autobiografica. Dunque, non di memorie, o
meglio non le memorie di qualcuno in particolare, ma, come
si capisce dalle prime pagine, di tutti, di una società,
di una generazione. E le illustrazioni servono appunto a definirne i confini
(gli sconfinati confini) storici e geografici. Le illustrazioni come talismani,
come i sassolini di Pollicino, o come - ovvia citazione tra le prime
e tra le infinite - le madeleines di Proust, Dio lo benedica. Alcune,
poi, le conosco, o le ri-conosco: ho avuto materialmente tra le mani molte
di quelle pubblicazioni, annate quasi complete del Corriere dei Piccoli,
la Storia Illustrata del nonno, i libri per ragazzi, i fumetti, i calendari,
la pubblicità. Mi predispongo quindi a un immaginifico viaggio
nel tempo, un tempo che è anche il mio, in parte realmente attraversato,
in parte rispecchiato nei racconti dell'infanzia.
Lo spunto è classico (un pozzo di san Patrizio, per uno scrittore):
il protagonista, non a caso un mercante di libri antichi, colpito da amnesia,
scopre di dover ricostruire il proprio passato e se stesso. Eco tratta
questa golosa idea di partenza al suo modo, che è poi quello del
Grande Catalogatore, e fin dall'inizio fornisce una messe di citazioni
- per lo più esplicite - come svuotasse sulla scrivania di
un bibliotecario scatoloni di materiale cartaceo scovato nello sgombero
di una soffitta. Si capisce subito che anche questo sarà un
libro di libri, come ci ha abituato fin da "Il nome della
rosa": un libro che contiene, suggerisce e prolunga i mille altri
che lo hanno preceduto e che sono entrati nel tessuto della memoria collettiva,
divenendo inconsciamente e irresistibilmente parte di noi.
La parte prima (L'incidente) è una piacevole
introduzione, che sfrutta un registro azzeccato, pensieroso, nebbioso.
La nebbia come elemento costante. Molto evocativo. Ci si muove in un ambiente
sfocato che induce cautela e interrogativi: un mondo tabula rasa da rimisurarsi
addosso, per lo svagato protagonista che non riesce più a collegare
emotivamente gli eventi del passato al proprio vissuto. Gli sono accanto
personaggi premurosi, la moglie opportunamente psicologa, il medico comprensivo,
l'amico prudente. Ma i loro suggerimenti non bastano: si rende necessario
un pellegrinaggio terapeutico al santuario dei ricordi, un luogo dove
tutto gli parli di chi è stato - e quindi è.
Così, eccolo, randagio e attonito, aggirarsi nei nascondigli della
memoria custodita nelle vecchie stanze di una casa di campagna: odor di
mele e di carta ammuffita, la presenza ancora tangibile del nonno nelle
raccolte di libri, quaderni di scuola, giornali, francobolli, dischi,
fotografie, compendio della pietas familiare di generazioni.
Questa parte centrale (parte seconda: Una memoria di carta),
in realtà, si presenta come affetta da qualche lungaggine che dirada
l'interesse: è in gran parte occupata da lunghi e disordinati
elenchi di nomi e date, dietro i quali l'oggetto che di volta in
volta identificano non riesce a trovare spazio come emozione, ma
resta indietro, fuori fuoco, come un rottame senza più vita accatastato
fra altri rottami su uno scaffale trascurato. Del resto, in questa fase
il protagonista è ancora solo un esploratore confuso che non sa
chiarirsi la meta: le immagini che gli rimanda il passato gli scorrono
tra le mani senza che scatti l'interruttore, il collegamento. E'
ancora un frustrato osservatore della memoria altrui, nella quale non
ritrova il proprio posto. Tuttavia, questo capitolo a mio avviso si prolunga
troppo e con insistenza gratuita - mitigata da tratti di un umorismo
piuttosto insufficiente - su quella che alla fin fine appare una catalogazione
compiaciuta, un po' come certe minuziose (ossessive) descrizioni
di particolari architettonici dell'Abbazia ne Il nome della
rosa, e anche altrove in Eco. Il quale, sempre secondo me, manifesta
anche qui un suo difetto di narratore: l'esibizione del suo sapere.
Eco, insomma, indulge. E quando esagera, francamente annoia.
La parte terza (Oi nòstoi): ovvero i ritorni, il
ritorno degli eroi, il ritorno a Itaca, grembo e spiegazione di tutto.
Il capitolo precedente si era chiuso su una trovata-thriller, la scoperta
di un in folio inestimabile tra le macerie della soffitta, magazzino
di memorie mute; espediente narrativo che rianima, e riconduce anch'esso
a certe tensioni melodrammatiche già felicemente presenti ne Il
nome della rosa, a mio avviso citato qui più volte e più
o meno esplicitamente. Il capitolo finale invece torna ad avvolgersi nelle
nebbie, ma è da queste - arcane e profetiche - che
emergono, finalmente nitide e acuminate, le figure e le vicende che la
malattia aveva inghiottito, in una ricostruzione fulminea e sofferta degli
anni e degli affetti smarriti. La narrazione si fa di colpo più
vivace e coerente, attinge verosimilmente alle memorie private dell'Autore
(che intervistato ammette la matrice autobiografica del romanzo), e vi
si riconosce l'elemento fin qui assente o trascurato: la passionalità,
l'immedesimazione, il soffio vitale che riconcilia anche con le
lungaggini delle precedenti elencazioni anonime e allinea ogni componente
del racconto secondo una convincente geometria. Le pagine finali inseguono
un crescendo che attanaglia, rafforzato dalla presenza di sempre più
numerose illustrazioni grottesche e allarmanti rielaborate ad hoc dagli
originali, e sfocia non senza una sottile angoscia nell'esito previsto,
dovuto e tutto sommato terapeutico. Come dire che l'essenza di un
uomo è sempre e comunque nelle sue radici: perdere di vista la
commozione per i propri ricordi, per le emozioni attraversate seppure
con sofferenza, in sostanza per la propria umanità, è
una distrazione arrischiata, e si paga con l'inquietudine di un
prolungato rimpianto. E' il senso, doloroso, di una mancanza.
Finita la lettura, ho pensato immediatamente di aver avuto con questo
libro uno scambio, lo scambio di una fatica. Non è certo
un capolavoro, ha i suoi stridori e i suoi cali, non finirà tra
i miei preferiti, ma con tutta sincerità questo merito glielo riconosco.
Ed è - credo proprio - un buon effetto.
Dello stesso autore leggi anche la recensione di
Baudolino
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