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La misteriosa fiamma della regina Loana
(Umberto Eco)

A sorpresa, un nuovo romanzo di Eco, dopo solo quattro anni da Baudolino e nemmeno questo preannunciato. Notizia colta di passaggio dal telegiornale durante i rumorosi riti della cena, tanto che ne cerco conferma in internet, da dove annoto il titolo, esotico e fantasioso. Non mi convince del tutto: sarà lo humour del Maestro, mi dico, ma intanto mi par di andare inventando un disegno a colori come le vignette dei giornaletti di avventure di tanti anni fa. Qualcosa come una Regina (di Saba?) sfarzosa e spietata, che ravviva un fuoco (sacro? satanico?) in una spelonca di buio e tesori, ma - non so perché, o forse sì - nel folto di una giungla. Insomma, un'eco di Salgari o dell'Intrepido, quest'ultimo al bando in casa mia dove entrava di straforo in scambio a giornalini più ortodossi e approvati, ma anch'essi lesinati.
A questo penso mentre, la mattina dopo, mi impossesso di una copia del libro, arrivato con inaspettata puntualità anche sugli scaffali del mio supermercato, accanto, devo dire, a molti Grisham, Wilbur Smith e Casati-Modigliani: gli Implacabili.
Romanzo.
Illustrato.
Non si usa più, illustrare i romanzi; non quelli per gli adulti.
C'è scritto anche (più o meno): un romanzo sulla memoria, ma non quella autobiografica. Dunque, non di memorie, o meglio non le memorie di qualcuno in particolare, ma, come si capisce dalle prime pagine, di tutti, di una società, di una generazione. E le illustrazioni servono appunto a definirne i confini (gli sconfinati confini) storici e geografici. Le illustrazioni come talismani, come i sassolini di Pollicino, o come - ovvia citazione tra le prime e tra le infinite - le madeleines di Proust, Dio lo benedica. Alcune, poi, le conosco, o le ri-conosco: ho avuto materialmente tra le mani molte di quelle pubblicazioni, annate quasi complete del Corriere dei Piccoli, la Storia Illustrata del nonno, i libri per ragazzi, i fumetti, i calendari, la pubblicità. Mi predispongo quindi a un immaginifico viaggio nel tempo, un tempo che è anche il mio, in parte realmente attraversato, in parte rispecchiato nei racconti dell'infanzia.
Lo spunto è classico (un pozzo di san Patrizio, per uno scrittore): il protagonista, non a caso un mercante di libri antichi, colpito da amnesia, scopre di dover ricostruire il proprio passato e se stesso. Eco tratta questa golosa idea di partenza al suo modo, che è poi quello del Grande Catalogatore, e fin dall'inizio fornisce una messe di citazioni - per lo più esplicite - come svuotasse sulla scrivania di un bibliotecario scatoloni di materiale cartaceo scovato nello sgombero di una soffitta. Si capisce subito che anche questo sarà un libro di libri, come ci ha abituato fin da "Il nome della rosa": un libro che contiene, suggerisce e prolunga i mille altri che lo hanno preceduto e che sono entrati nel tessuto della memoria collettiva, divenendo inconsciamente e irresistibilmente parte di noi.
La parte prima (L'incidente) è una piacevole introduzione, che sfrutta un registro azzeccato, pensieroso, nebbioso. La nebbia come elemento costante. Molto evocativo. Ci si muove in un ambiente sfocato che induce cautela e interrogativi: un mondo tabula rasa da rimisurarsi addosso, per lo svagato protagonista che non riesce più a collegare emotivamente gli eventi del passato al proprio vissuto. Gli sono accanto personaggi premurosi, la moglie opportunamente psicologa, il medico comprensivo, l'amico prudente. Ma i loro suggerimenti non bastano: si rende necessario un pellegrinaggio terapeutico al santuario dei ricordi, un luogo dove tutto gli parli di chi è stato - e quindi è. Così, eccolo, randagio e attonito, aggirarsi nei nascondigli della memoria custodita nelle vecchie stanze di una casa di campagna: odor di mele e di carta ammuffita, la presenza ancora tangibile del nonno nelle raccolte di libri, quaderni di scuola, giornali, francobolli, dischi, fotografie, compendio della pietas familiare di generazioni.
Questa parte centrale (parte seconda: Una memoria di carta), in realtà, si presenta come affetta da qualche lungaggine che dirada l'interesse: è in gran parte occupata da lunghi e disordinati elenchi di nomi e date, dietro i quali l'oggetto che di volta in volta identificano non riesce a trovare spazio come emozione, ma resta indietro, fuori fuoco, come un rottame senza più vita accatastato fra altri rottami su uno scaffale trascurato. Del resto, in questa fase il protagonista è ancora solo un esploratore confuso che non sa chiarirsi la meta: le immagini che gli rimanda il passato gli scorrono tra le mani senza che scatti l'interruttore, il collegamento. E' ancora un frustrato osservatore della memoria altrui, nella quale non ritrova il proprio posto. Tuttavia, questo capitolo a mio avviso si prolunga troppo e con insistenza gratuita - mitigata da tratti di un umorismo piuttosto insufficiente - su quella che alla fin fine appare una catalogazione compiaciuta, un po' come certe minuziose (ossessive) descrizioni di particolari architettonici dell'Abbazia ne Il nome della rosa, e anche altrove in Eco. Il quale, sempre secondo me, manifesta anche qui un suo difetto di narratore: l'esibizione del suo sapere. Eco, insomma, indulge. E quando esagera, francamente annoia.
La parte terza (Oi nòstoi): ovvero i ritorni, il ritorno degli eroi, il ritorno a Itaca, grembo e spiegazione di tutto. Il capitolo precedente si era chiuso su una trovata-thriller, la scoperta di un in folio inestimabile tra le macerie della soffitta, magazzino di memorie mute; espediente narrativo che rianima, e riconduce anch'esso a certe tensioni melodrammatiche già felicemente presenti ne Il nome della rosa, a mio avviso citato qui più volte e più o meno esplicitamente. Il capitolo finale invece torna ad avvolgersi nelle nebbie, ma è da queste - arcane e profetiche - che emergono, finalmente nitide e acuminate, le figure e le vicende che la malattia aveva inghiottito, in una ricostruzione fulminea e sofferta degli anni e degli affetti smarriti. La narrazione si fa di colpo più vivace e coerente, attinge verosimilmente alle memorie private dell'Autore (che intervistato ammette la matrice autobiografica del romanzo), e vi si riconosce l'elemento fin qui assente o trascurato: la passionalità, l'immedesimazione, il soffio vitale che riconcilia anche con le lungaggini delle precedenti elencazioni anonime e allinea ogni componente del racconto secondo una convincente geometria. Le pagine finali inseguono un crescendo che attanaglia, rafforzato dalla presenza di sempre più numerose illustrazioni grottesche e allarmanti rielaborate ad hoc dagli originali, e sfocia non senza una sottile angoscia nell'esito previsto, dovuto e tutto sommato terapeutico. Come dire che l'essenza di un uomo è sempre e comunque nelle sue radici: perdere di vista la commozione per i propri ricordi, per le emozioni attraversate seppure con sofferenza, in sostanza per la propria umanità, è una distrazione arrischiata, e si paga con l'inquietudine di un prolungato rimpianto. E' il senso, doloroso, di una mancanza.
Finita la lettura, ho pensato immediatamente di aver avuto con questo libro uno scambio, lo scambio di una fatica. Non è certo un capolavoro, ha i suoi stridori e i suoi cali, non finirà tra i miei preferiti, ma con tutta sincerità questo merito glielo riconosco.
Ed è - credo proprio - un buon effetto.

Dello stesso autore leggi anche la recensione di
Baudolino


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