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Rivolto a giovani disaffezionati e a educatori
sull'orlo della rassegnazione, Come un romanzo è un breve
ed efficacissimo corso di sopravvivenza nel mondo della lettura, che rappresenta
la forma più intelligente (e divertente) di conoscenza di se stessi
e degli altri.
Con acume, semplicità e francesissima grazia, questo saggio ci
dice tutto ma proprio tutto sulla lettura e sui lettori, che vengono presentati,
a seconda dei casi, come adepti appassionati oppure vittime neghittose;
di entrambe queste facce del popolo che legge - chi per il proprio fanatico
piacere, chi per uno svogliato dovere - Pennac illustra e spiega gli aspetti,
allo scopo di suscitare in tutti una affettuosa comprensione per chi la
pensa diversamente e per le cause che lo muovono. Così riesce a
suscitare anche nei non interessati la curiosità di avvicinarsi
alla lettura non come a un faticoso impegno da forzati della mente ma
a un goloso disimpegno liberatorio da esploratori della fantasia.
Come un romanzo si legge come un romanzo e ad ogni pagina fa sorridere
per la garbata precisione con cui sviluppa le sue considerazioni, ma anche
ridere per lo spirito col quale ci porge un argomento che altrove viene
generalmente trattato con seriosa accademia. A scrivere sembra uno di
noi, a metà fra il monellaccio e il professore, in un tono simpaticamente
discorsivo che alla fin fine è il modo migliore per risultare convincente
e lasciare il segno.
L'Autore, che per sensibilità personale ed esperienza professionale
è molto vicino alle realtà dell'età evolutiva, parte
dalla constatazione che i bambini nell'età prescolare manifestano
un naturale ed estatico interesse per il racconto, ma lo perdono rapidamente
quando la lettura, poco più avanti, viene rivestita del disvalore
antipatico dell'obbligo, dell'imposizione scolastica prima e di quella
più genericamente culturale poi. Rimuovere queste coercizioni è
l'unica soluzione che permette di riprendersi il piacere incontaminato
e incontaminabile di liberare la fantasia nella delizia della lettura
libera. Una tesi non nuova, ma nuovo è il linguaggio e la sincerità
con cui viene esposta e che la rendono leggibilissima e coinvolgente.
Per favorire la liberazione del lettore,
molto concretamente Pennac ha stilato il famoso decalogo dei suoi Diritti
Imprescrittibili, ognuno dei quali merita almeno una breve considerazione:
io ci ho provato con le mie, ma non c'è dubbio (anzi, è
proprio questo il bello) che ognuno di noi abbia le proprie altrettanto
rispettabili, esattamente secondo la fondamentale e illuminante asserzione
che la vera ricchezza della lettura consiste nel suo essere un bene privato,
e l'obiettivo (raggiunto) di Pennac è quello di invitare a rifletterci
su - ma con leggerezza e divertimento, davanti a una tazza di tè
e a un vassoio di croissants rigorosamente francesi.
I Diritti Imprescrittibili
del Lettore
1. Il diritto di non leggere
Mettiamola così: se non esistessero quelli che non amano i libri,
noi lettori non potremmo ritenerci un popolo di privilegiati. Sì,
perché confessiamolo: ci sentiamo adepti di una setta giusta, detentori
di una verità esclusiva; ci consideriamo, rispetto ai non-lettori,
persone superiori per sensibilità, intelligenza, cultura. Siamo
portati a deridere con sufficienza coloro che non hanno ricevuto la nostra
rivelazione, quella che dietro la copertina di un libro si sveli un intero
universo parallelo dove si rincorrono e si alternano sensazioni e opportunità
migliori, più affascinanti e soprattutto liberatorie. Siamo dell'idea
che chi non varca quella porta resti schiavo della barbarie, dell'oscurantismo,
della piattezza quotidiana, mentre noi ce ne affranchiamo.
Ma in fondo, riflettiamoci, è libertà la nostra che ci incatena
alle pagine scritte e alle illusioni che contengono, o lo è quella
di chi non avverte il bisogno di sfuggire alla realtà attraverso
i sogni degli scrittori? Non sarà che sono più realizzati
e più consapevoli i non lettori, quelli che sono esenti dalla nostra
passione (e ogni passione contiene in sé i germi dell'asservimento)
e possiedono invece in se stessi la capacità di gestirsi, di bastarsi?
Ammettiamolo: troppo spesso ai nostri sentimenti, alle nostre gioie oppure
sventure, alle stesse decisioni che prendiamo, noi diamo il volto, il
nome, i gesti e la partecipazione di quei personaggi di carta e inchiostro
nei quali ci immedesimiamo con ardore. La nostra passione per i libri,
per le storie raccontate, non sarà una fuga da un'identità
imprecisa - la nostra - che ci va stretta, che si dimostra quotidianamente
inadeguata?
Spero di no. Spero caldamente di no.
Ma se anche fosse, mi riconosco il diritto di essere umile e eternamente
schiava delle catene della lettura, finché morte non ci separi.
2. Il diritto di saltare le pagine
Sì sì, è vero, questo è un diritto inebriante,
una volta che si sia preso coscienza che non è un dovere morale
leggere parola per parola un trenta-quaranta pagine di fila di sole descrizioni
di paesaggi o elucubrazioni cervellotiche che non siano inconfutabilmente
funzionali alla vicenda.
Gli sbrodolamenti, i fronzoli superflui, le disquisizioni accademiche,
ma in genere tutto ciò che tende a rallentarci il ritmo di lettura,
ad allungare il brodo e a collocarsi nella categoria volgarmente definita
"delle seghe mentali", ci è lecito tagliarli prima che
ci privino del piacere di finire un libro che magari per molti altri versi
è valido.
O l'autore preferirebbe che, presi da sfiducia e sbadigli, mollassimo
tutto?
Un lettore che salta le pagine - a meno che non sia per colpevole pigrizia
- andrebbe preso molto sul serio dallo scrittore in questione, perché
se lo fa non può essere che per un motivo: la noia. Lo scrittore
probabilmente non si rende conto di avere scritto quelle trenta-quaranta
pagine di noia. Per lui erano pagine profonde, magari liriche, magari
così rifinite da ritenerle il clou dell'intera opera; ma se il
lettore le salta perché ci si annoia, perché gli pare che
siano ininfluenti, perché a lui non dicono niente, lo scrittore
dovrebbe rifletterci. Può significare che quelle pagine saltate,
scartate, in pratica rifiutate, contengano solo messaggi personali che
l'autore invia a se stesso, uno scambio di complimenti fra sé e
sé, un esercizio di vanità privata che si trasforma in una
pubblica incomunicabilità. Quando cioè lo scrittore scrive
solo per se stesso e perde di vista il suo lettore, quest'ultimo, che
è molto più obbiettivo, se ne accorge, ci resta male e lo
punisce. Saltando le pagine.
3. Il diritto di non finire un libro
Ah sì: il lettore è tristemente consapevole che non gli
basterà una vita per appagare la sua smania di lettura, perché
leggere non è una professione remunerativa ma una necessità
privata che richiede tempo e condizioni ambientali favorevoli, due requisiti
sempre troppo difficili da trovare. Liberarsi dalla falsa idea che portare
a termine un libro, anche se non piace, sia un obbligo morale è
un comportamento di semplice e sacrosanta autodifesa. Rifiutiamo questa
coscienza ligia e miope e abbracciamo senza rimorsi la fede della libertà
di accantonare, che ci eviterà la frustrazione di spendere il nostro
poco tempo al servizio devoto di un'autodisciplina senza scopo, ma al
contrario ci permetterà di riservare la dovuta accoglienza ad altre
letture, più soddisfacenti e convincenti. Un libro non finito non
è un libro cestinato, non lo bruceremo né lo cancelleremo
dalla mente: lo terremo parcheggiato sotto gli altri, giusto un po' in
disparte, nel baule delle cose lasciate a metà (ne collezioniamo
tante ogni giorno, in fondo), ad aspettare, magari inutilmente ma non
è mai detto, che ripassi il suo momento e che noi lo sappiamo riconoscere.
4. Il diritto di rileggere
Soprattutto quando non c'è in vista una lettura intrigante, oppure
si sente il bisogno di una vacanza mentale prima di affrontare qualcosa
di nuovo o impegnativo, tornare su testi già letti e collaudati
è un conforto. E' un po' come tornare in un posto conosciuto e
amato, di cui si sente la nostalgia e dove si sa già che ci si
troverà bene, a casa, fra amici.
C'è chi afferma che rileggere è una perdita di tempo rispetto
a una lettura nuova; che è sentimentalismo. A volte sì,
è per debolezza che ci si rifugia nel già letto; oppure
è per sopportare meglio una certa stanchezza, una certa sfiducia,
che si torna sui propri passi, con l'idea di andare sul sicuro, di evitarsi
delusioni.
Ma rileggendo si finisce spesso con lo scoprire che a distanza di tempo
i buoni libri non solo continuano a trasmettere sensazioni, ma ne suscitano
di diverse e spesso sorprendenti, perché il tempo che è
passato ha reso diversi noi e il nostro piano di lettura, la nostra visuale,
la nostra reattività. Rileggere un libro in realtà è
un po' rileggere dentro noi stessi e contarci l'età, i cambiamenti,
gli arricchimenti oppure le perdite; è un po' rifare il punto delle
nostre esperienze, guardarci allo specchio e conoscerci un po' di più.
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
Giusto: riprendiamoci il diritto alle letture informali, cialtrone, svaccate.
Capita di attraversare periodi di apatia mentale in cui un po' di abbrutimento
non può peggiorare le cose più di tanto, e poi anche la
mente più fulgida e pura ha bisogno ogni tanto di staccare la spina.
Ci prenderà il senso di colpa per aver tradito i nostri amici ufficiali,
i nostri sodali, i condiscepoli della nostra setta esclusiva, con i quali
ci atteggiamo a lettori esigenti e selettivi? Ci vergogneremo di noi al
punto di non confessare le nostre debolezze?
Sbagliato.
La passione per la lettura di cui tanto ci vantiamo implica il pregio
vizioso (o il prezioso vizio) della curiosità. E' quella che seguiamo
quando, ben nascosti e in incognito, apriamo uno di quei libri proibiti,
messi all'indice dalla giuria degli intellettuali duri e puri cui guardiamo
come a un faro, e ce lo sciroppiamo con inconfessabile delizia. Del resto,
come potremmo parlare noi pro o contro (possibilmente contro, ci auguriamo)
di un best seller da ombrellone senza averlo letto? Ce lo faremo prestare
da una biblioteca oppure da un conoscente dal palato più facile
del nostro, ma in qualche modo lo leggeremo, lo espugneremo, ci faremo
una ragione del suo successo, verificheremo di persona i gusti dei milioni
di lettori entusiasti, sonderemo i perversi meccanismi che determinano
la popolarità di uno scrittore (e ne fanno la fortuna, quella finanziaria)
a prescindere dal suo valore e spesso in totale assenza dello stesso.
In parole povere ma oneste: il Codice Da Vinci - beninteso, sempre che
riusciamo a superare le prime cinque righe senza arrenderci alla rivelazione
che si tratta del più indegno trash mai letto da occhi umani -
leggiamolo pure alla luce del sole e ammettiamolo a testa alta. Solo dopo,
ma con cognizione di causa, lanceremo la nostra liberatoria vendetta,
proclamando il verdetto di una totale e sdegnatissima stroncatura.
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)
Ma in fondo il bovarismo non è un diritto, bensì una vera
e propria motivazione alla lettura. Io ne approfitto senza risparmio,
e i miei libri più amati sono ovviamente quelli che mi permettono
di esercitare il mio bovarismo dalla prima all'ultima pagina.
Bovarismo significa, in buona sintesi, immedesimazione, ma di regola la
si intende in senso deteriore, ossia nel suo essere eccessiva e quindi
connotarsi come vizio o debolezza adolescenziale, da immaturi, da sprovveduti.
Eppure quando abbiamo scoperto la lettura abbiamo scoperto contestualmente
il piacere dell'immedesimazione, del suo potere di farci evadere rivestendoci
dei panni e dei sentimenti dei nostri eroi, e ne siamo caduti subito in
balia. E' un altro mondo più esaltante e sorprendente quello che
ci aspettiamo di trovare tra le pagine di un libro; un mondo dove succedono
le cose che noi desideriamo, che noi progettiamo, noi
e non le circostanze prevedibili del nostro quotidiano.
E cos'è che ci tiene avvinghiati a una lettura, che ci fa stare
svegli la notte per continuarla, che ci estrania dall'incresciosa piattezza
delle giornate e che ci fa sentire orfani quando il nostro libro è
finito, se non la delizia dell'immedesimazione? Ci si affeziona non solo
ai personaggi e alle vicende, ma anche agli ambienti e ai tempi in cui
si svolgono, e quando si volta una pagina e ci si ritrova in una scena
già nota se ne riconoscono i segni e le dimensioni come rientrando
nel tinello, nel salotto, nella camera da letto di una casa che consideriamo
nostra. Ci sono familiari - perché li vediamo nitidamente con la
nostra immaginazione bovarista - perfino gli oggetti, le tende alle finestre,
gli abiti, gli alberi delle strade, le facciate delle case, gli archi
di un ponte. E' un mondo parallelo nel quale entriamo con golosità,
e dal quale usciamo di malavoglia e quasi sentendoci estirpati quando
ci chiamano a tavola o al lavoro.
Godiamocela, questa malattia testualmente contagiosa; anzi, facciamoci
contagiare incurabilmente dall'immedesimazione letteraria, e consigliamo
vivamente a chi ne è esente di sostituire con essa quella veramente
deleteria, ingiustificata e sempre più diffusa che prende a modello
le vacuità insignificanti che ci offre la tivù.
7. Il diritto di leggere ovunque
Ovunque non è poi un problema, per il vero lettore. Il vero lettore
non ha bisogno di particolari comodità per leggere; ottima la poltrona
in studio o in salotto, oppure il letto o la sdraio o anche due bei cuscini
su un tappeto, ma il vero lettore legge tranquillamente anche in autobus,
in metropolitana, in treno, in aereo, su barche, traghetti, navi da crociera,
in sale d'aspetto e su panchine dei giardini; il vero lettore legge seduto,
sdraiato, stravaccato, raggomitolato, ma anche in piedi sotto le pensiline
e addirittura camminando, se convenientemente addestrato. Da tutti questi
posti e da tutti questi modi, il vero lettore esce e si affranca quando
entra nel suo libro; dentro le pagine, un altro mondo, forse un'altra
strada, un'altra pensilina, un'altra sala d'aspetto, oppure un giardino
o un deserto, un salone da ballo o una soffitta, comunque sia per lui
sarà un altro dove, e non ne prova mai disagio. Sa sempre dove
stare, il lettore, e ci sta bene, ci sta da dio, dimentica il resto, non
avverte scomodità, non si lamenta di sedili duri o correnti d'aria.
Il problema non è dove, ma casomai quando.
Il vero lettore dovrebbe avere il diritto di leggere ogni volta che lo
desidera, e di farlo in pace, senza invasioni o interruzioni, senza la
distrazione di passanti e impiccioni, senza l'obbligo di guardare l'orologio
e di affrettarsi perché è ora di pranzo o di lezione o d'altro.
Il vero lettore soffre fisicamente a dover chiudere il suo libro perché
lo reclamano a tavola o perché la sua luce accesa alle tre di notte
disturba chi dorme. Il vero problema del vero lettore - il vero diritto
da regolamentare - sono i rumori di fondo.
8. Il diritto di spizzicare
Diritto ampiamente esercitabile nelle librerie e nelle biblioteche, e
non solo per evitare di comprare a scatola chiusa ma prima di tutto perché
il vero lettore è uno che di fronte a tanta grazia di libri esposti
perde la testa e li vorrebbe annusare, toccare, sfogliare, accarezzare,
conoscere, assaggiare tutti. Li vorrebbe quasi abbracciare, sopraffatto
dalla commozione di trovarsi circondato da tanti amici. E per non trascurarne
qualcuno, gli vien voglia di spizzicarne più possibile, per procurarsi
l'illusione di portarsi a casa almeno un pezzetto, un segno, una traccia,
un ricordo di ognuno.
A casa è ancora più facile: basta ammassare libri anche
a casaccio vicino al letto o alla poltrona, e passare le serate soprattutto
d'inverno a saltabeccare dall'uno all'altro secondo l'estro del momento.
Perché c'è un libro per ogni occasione della vita e anche
per ogni circostanza della giornata e per ogni variazione di umore: la
mattina si può (è un diritto) sentirsi attratti da Melville,
il pomeriggio da Benni, la sera da Agata Christhie e in piena notte da
E.A.Poe, e il solito vero lettore impara presto a destreggiarsi fra i
diversi stili e intrecci senza perdere il filo.
Senza contare che spizzicare libri, al contrario di spizzicare cioccolatini
o patatine che porta facilmente a nausea, ha i suoi vantaggi: ogni libro
contiene messaggi e riferimenti che allargano la mente e le suggeriscono
nuove strade, nuove ricerche. I libri, lo sostengo da sempre, sono un
po' tutti imparentati fra loro, figli della stessa voglia di raccontare,
stupire, incuriosire, e a sapersi ben disporre risulta facile riconoscere
in ciascuno dei legami, dei richiami, che portano - sulla via di questa
curiosità - ad altri libri che trattino oppure approfondiscano
temi simili, o viceversa propongano argomenti in netta antitesi. Seguendo
queste tracce, questi suggerimenti, queste associazioni di idee, si comincia
per esempio con lo sfogliare una biografia storica e critica di Giulio
Cesare scritta da Antonio Spinosa, poi, passando per le ricostruzioni
avvincenti e verosimili di Colleen McCullough, si approda con animo ormai
appassionato alla tragedia di Shakespeare, ma sono ammesse e raccomandate
ampie digressioni nei tomi del liceo da cui si traduceva il nostro De
Bello Gallico quotidiano e, con più divertimento, nel campo del
fumetto o meglio nell'accampamento di Asterix.
E alla fine saremo ricchi di sempre più numerosi input, perché
di Spinosa c'è molto altro da leggere, anzi c'è tutto il
settore delle biografie storiche da esplorare, così come i romanzi
della McCullough risultano buoni riempitivi per le stagioni morte, e come
di Shakespeare ci si rende conto di non aver mai letto né riletto
abbastanza, e di Asterix non si può non ammettere di essere innamorati
e ammiratori.
Insomma, si spizzicano libri come si trangugiano pop corn, con la differenza
che i secondi al massimo provocano mal di pancia, mentre i libri... beh,
sì: provocano dipendenza. Ma volete mettere, che magnifica droga?
9. Il diritto di leggere a voce alta
Su questo diritto non mi pronuncio perché non ne sento, personalmente,
il bisogno. Non leggo a voce alta perché non sono io, non è
la mia voce, che darebbe voce al libro, ma è il libro stesso che
mi parla nella mente, e con la sua voce. E' lui che parla, e io devo solo
ascoltarlo. Allo stesso modo, non riesco ad ascoltare un libro letto da
altri: è come se, passando attraverso la voce, la pronuncia, la
declamazione di un altro, il libro perdesse qualcosa della sua identità
e arrivasse a me mediato da un estraneo, quando invece ciò che
mi aspetto dalla lettura è lo stabilirsi di un ponte diretto e
molto privato fra me e il racconto, senza suggeritori né spettatori.
Ricordo molto bene quando e perché ho imparato a leggere: ero ancora
troppo piccola per la scuola, ma già non mi bastavano più
le storie raccontate da altri, i libri letti da altri. Volevo impossessarmi
io di quelle storie e quegli oggetti chiamati libri, volevo gestirli,
spadroneggiarli e tuffarmici dentro di persona, volevo essere io a esplorarli
e a trovarne il significato, il mio significato e non l'interpretazione
di qualcun altro; probabilmente non mi rendevo conto - a cinque anni -
che già allora il mio rapporto con la lettura era quello di una
profonda interazione, uno scambio intenso e senza intermediari.
10. Il diritto di tacere
Pennac si riferisce alla facoltà di non rispondere cui può
appellarsi un lettore interpellato su un libro letto, o meglio sulla sostanza
di cui è fatto il rapporto che lo lega alla lettura. Anche lui,
Pennac, sa benissimo che si tratta di un rapporto troppo intimo per venir
condiviso facilmente, per venir addirittura reso a parole senza timore
di un travisamento. E' un po' quello che dicevo nelle mie considerazioni
sulla lettura ad alta voce: tra lettore e libro intercorre un legame troppo
personale per poter essere ridotto a formule o soggetto a giustificazioni.
Nella lettura ciascuno proietta un po' o molto o a volte tutto di sé,
in particolare gli aspetti più nascosti o inconfessati, e più
ancora quelli nebulosi, non chiari nemmeno a lui stesso. Di tutto questo
non è lecito chiedere un rendiconto: teniamoci dunque il nostro
segreto e la nostra rivelazione privata, che solo a noi può giovare,
al nostro microcosmo che è sempre e comunque sostanzialmente diverso
da qualunque altro. Dei libri che leggiamo parleremo, è certo,
anche a voce alta, anche con ardore, o ne scriveremo recensioni perfino
ragionate e documentate, ma sarà un parlare della superficie, di
ciò che è già chiaro e comprensibile a tutti; il
nucleo, ciò che solo noi sappiamo averci smosso dentro e perché,
è un tesoro inesprimibile ed è solo ed esclusivamente affar
nostro.
Dello stesso Autore leggi anche la recensione
di
La saga Malaussène
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