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Amate sponde
(frammento dal capitolo XI)
Ippolito Caffi (1809-1866) - Neve e nebbia a Venezia

Scappai via dal Lido come inseguito da un contagio, dopo tre giorni spesi in cerimoniali e procedure di ridicola vacuità. Desideravo solo tornare a sentire sotto i piedi la consistenza morbida ma sicura della terra dei miei argini, e toccare il tepore della nuca e delle braccia di Anna, per rientrare attraverso primitive sensazioni corporee nel mondo dei vivi. Mio padre si era lasciato dietro ben poco, quel genere di cose che si possono trovare per lo più sui comodini di vecchie pensioni: i documenti, una sveglietta, un libro giallo, due o tre fotografie raffiguranti antichi colleghi di scuola, un gruppo di studenti sullo sfondo della fiera Campionaria di Milano e il famoso plastico col trenino Rivarossi. In nessuna di esse compariva qualcuno della famiglia. Non presi niente per me, rimase tutto - credo - in una scatola mezza vuota che si portarono via gli zii e che rappresentava, insieme alla assurda urna delle ceneri, i segni dell'esiguo disturbo che mio padre aveva arrecato passando distrattamente per questo mondo.
E pensare che per tutto questo ero tornato al Lido per la prima volta dopo vent'anni.

A Venezia sì, c'ero stato qualche volta, per forza quando serviva qualche documento o per amore per farla visitare ad Anna che non la conosceva.
La portavo in giro per san Polo e Dorsoduro sicuro di farla estasiare davanti ad aeree altanette arrampicate su tegole equilibristiche, e a tralci di biancheria pavesati fra i balconi di calli che si aprivano all'improvviso dietro l'angolo di una fontanella con gatto.
Ci piaceva mangiare quasi come mendicanti un piatto di sardine su tavoli di rozze trattorie tra gli odori ugualmente grevi di clinton e di canale stagnante, mentre assaporavamo gelosamente ricordi di immagini recenti e indelebili come certi tabernacoli popolari con madonne e cristi di legno che lacrimavano amorosamente sotto la volta di sottoporteghi dimenticati, o certi ciuffi d'erba senza nome che fendevano prodigiosamente gli interstizi del selciato di pietra d'Istria, germinando da semi che forse il vento aveva trasportato inconsapevolmente attraverso tutta la laguna. Incapace di guidarla sugli augusti itinerari della cultura convenzionale, indegno di bussare alle porte dei palazzi d'oro e di mosaici, le donai quella Venezia lì, dei campielli dai nomi arguti e dei ponti affacciati su rii secondari, le illustrai la storia delle osterie e dei carbonai.
Ci ristorammo entrambi con la frutta succosa degli orti delle isole che comprammo al mercato; ci trovammo insieme ad assistere inaspettatamente all'uscita dei bambini da una scuola elementare, confusi tra altre coppie di genitori che erano lì apposta e non per caso come noi, e senza esserci messi d'accordo ci divertimmo a fingerci due di loro, in attesa di un figlio nostro in grembiulino celeste col quale riprendere poi la strada verso casa.
E quel gatto che Anna si fermò cocciutamente ad accarezzare sopra una vera da pozzo in mezzo a un campo deserto, malgrado fosse palesemente un frequentatore di rifiuti, e che poi, soggiogato dalle coccole, rifiutò il nostro addio insistendo a seguirci per un po', la coda ritta e lo sguardo insolente e magnetico, finché un nuovo odore irresistibile lo distrasse dalla nostra scia... Anna non si era mai immaginata una Venezia così, e non rimpianse mai che io non la portassi in giro per basiliche e musei, per i quali forse lei non avrebbe avuto la cultura né io l'entusiasmo necessari a ricavarne un reale godimento, quella sensazione di immediata sintonia, di facile compenetrazione che invece tanto ci emozionava nei nostri vagabondaggi plebei.
A volte, ci ritrovavamo su una sponda estrema, dove la laguna era ormai così larga da generare una lieve ma sensibile risacca e da rimandare fino a noi un alito di vento che ricordava l'intensità e l’odore di quello del mare. Da lì, dalla punta della Dogana o dall'ultimo imbarcadero di sant'Elena, stavo a guardare la bruma allungata della mia isola impossibile, il suo lontano profilo di pioppi che tremolava in lontananza e che seguivo con occhi gonfi di rimpianto finché il sole e la nostalgia me li facevano bruciare. Un motoscafo arrivava, gente ne scendeva, altra saliva a bordo, e io lo guardavo staccarsi dal pontile e puntare verso il suo ultimo approdo solcando solitario le piccole onde azzurre del tratto più largo della laguna, inseguito dal placido sole del pomeriggio che riportava a casa impiegati, elettricisti e giardinieri prima di dissolversi nella foschia cadendo dentro l'orizzonte delle campagne del Brenta.
Ed era lì che tornavo ogni volta, sconfitto e insieme salvo, lì dove la mia vigliaccheria si era ormai costruita un nido, che Anna custodiva con la sua materna indulgenza.


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