14 giugno 2005
Venezia, Aula Magna dell'Ateneo Veneto: alle ore 18, presentazione dell'ultimo
romanzo di Pier Maria Pasinetti, A
proposito di Astolfo, edito da Helvetia e nelle librerie in questi
giorni.
Il portone monumentale dell'Ateneo
Veneto è scrostato e sprangato, sembrerebbe da secoli. Un caffè
lì vicino ha accampato davanti due file di tavolini e sedie impagliate,
oggi deserti perché pioviggina. L'ingresso, allora, è in
calle; giro l'angolo, abbandono la luminosità plumbea di campo
san Fantin e percorro alcuni metri in una luce bassa, da corridoio di
teatro. La porticina a vetri è stretta e anonima, illuminata dall'interno
da luci altrettanto basse e discrete, come quando vengono calate per segnalare
l'inizio di uno spettacolo. Spazio angusto, quasi domestico; sembra l'ingresso
di una casa veneziana, con una scala lunga e stretta che sale ripida verso
un pianerottolo, poi gira e si perde. Ma subito a destra un'altra porta,
più ampia e spalancata: la sala dell'Aula Magna, col rosso delle
poltroncine (semplici sedie severamente allineate) e gli affreschi sulle
alte pareti attorno ai finestroni opachi. Soffitto a cassettoni altrettanto
affrescato, inserti di marmo in giro, senso di una solennità equilibrata,
non invadente. Bellezza, insomma, ma non autoreferenziale, in una città
in cui la bellezza è tratto di natura e non tronfia ricerca.
Non c'è ancora nessuno. Mi sembra di essere entrata in una chiesa
prima di un rito. Al posto del sacrestano, Daniela si aggira festosa ma
in ritardo con locandine e dépliants da distribuire; un abbraccio
- siamo emozionate entrambe - e poi le do una mano come si trattasse di
imbandire una festa scolastica. Arriva il libraio con una sacca delle
copie del nuovo libro che tra poco verrà celebrato; lo conosco,
il libraio, titolare della più veneziana delle librerie veneziane,
antro stretto e vivissimo dove i volumi sono ammucchiati dappertutto,
ospiti o protagonisti - amici, meglio - e non merce senza nome né
calore.
Arrivano altri, ora più rapidamente e a gruppi. L'atmosfera aumenta
di tono e temperatura, persone che si conoscono oppure si riconoscono
solo per il fatto di essere comunque in questo posto significativo, simbolo
della storia e della cultura veneziana e non solo da qualcosa come duecento
anni. Per lo più donne e non giovani, espressione di quello che
più tardi qualcuno, sulla pedana, annuncerà come "l'harem
di Pasinetti": scopro anche io che è sul pubblico femminile che
hanno avuto da sempre più presa le storie e lo stile di questo
Autore, che in effetti a molte splendide figure femminili ha dedicato
ritratti leggeri, ironici e innamorati in ognuno dei suoi romanzi. Giovani,
pochissimi. Non frequentano questo genere di incontri oppure non frequentano
questo genere di letteratura, il romanzo, che in Italia oggi come oggi
è del resto così scarsamente e mediocremente interpretato.
Oppure ancora non conoscono Pasinetti, scrittore di razza ma da sempre
indifferente alla pubblicità, osservatore distratto e incidentale
della sua stessa fama, araba fenice nel mondo letterario della sua patria,
dalla quale ha vissuto lontano la maggior parte dell'anno nella maggior
parte degli ultimi 40 o 50 anni.
C'è un minimo di ritardo. Annunciano che il Maestro è arrivato
in Ateneo e ora sta riposando qualche minuto prima di presentarsi. Corrono
i sussurri, le confidenze, le informazioni locali: ultranovantenne, da
tempo malandato in salute, il femore in tempi recenti, stato più
di là che di qua, ma lucido sapesse: lu-ci-dis-si-mo. E scrive
ancora, le sue memorie adesso; c'è già un titolo (un titolo
di coda) che a pelle intuisco come la struggente anteprima del suo addio,
"Possono partire le immagini". Io intanto con la mia macchinina
digitale faccio alcune prove, neanche a dirlo fallimentari.
Poi entra. Entra in scena da una porticina laterale, sorretto da persone
amorose e compiaciute, mettendo avanti prima delle gambe impacciate un
curioso bastone verde chiaro, cui si appoggia con curiosità lui
stesso, quasi a non riconoscergli altra identità che quella di
un giocattolo di gusto improbabile che qualcuno ha insistito per giudicare
confacente alla sua inferma età. E' alto e diritto malgrado ciò,
conserva il portamento del bell'uomo che è stato e che ci restituiscono
le rare fotografie pubbliche. Indossa una camicia aperta e un cardigan
di lana grigio scuro: indossa cioè il suo ruolo di vecchio e familiare
pensionato veneziano, e insieme l'aria domestica di un padre o di un nonno
strappato per un'ora alla sua sedia di cucina, alla radio accesa, al giornale
spiegato sul tavolo con accanto una scatolina di mentine, o pasticche
per il cuore. Nel sedersi con teatrale sollievo sulla poltroncina centrale,
emette un sospiro teatrale anch'esso nella sua autoironia: "Semo qua!",
cioè siamo qua, finalmente; seduti comodi dopo la stancata, la
camminata, questa fatica di arrivare fino a noi che è una delle
quotidiane sue fatiche necessarie, in una città dove si invecchia
a piedi arrancando senza misericordia, se non si vuole restare fermi del
tutto dietro una finestra.
Dalla mia sedia subito sotto la pedana, piccola io e insaccato lui in
una poltrona fonda, e per di più con un microfono davanti, vedo
e guardo e non me ne stacco fino alla fine solo il suo viso, vagamente
sconcertato mentre ascolta dubbioso i colti panegirici dei suoi due ospiti.
Sembra colto di sorpresa e poco convinto che le loro ordinate analisi
riguardino lui; sembra chiedersi se non stiano esagerando per quella pelosa
cortesia che si deve ai vecchi, per di più malandati. Infatti,
invitato, commenta: "Beh, ciò, se è tutto vero allora vuol
dire che son proprio bravo!". La platea si estasia e lo adora.
Altre cose, dice, poche e un po' slegate, col tono di smitizzare, di prendere
le distanze dalla celebrazione, di indicare la strada sensata e più
congeniale dell'ironia, del ridimensionamento affettuoso. A chi cerca
di attribuirgli metafore e di ottenere da lui spiegazioni, chiavi, messaggi,
non dà molta corda, avvertendo - ma come dovesse essere evidente
a tutti - che le sue storie, nomi/cognomi/località/amori &
lutti compresi, sono inventate, tutte inventate. Dal suo sornione incanto
si scuote un attimo per intervenire su una parola che non gli è
sfuggita e che trova fuori luogo: il termine laico, cui - citando
se stesso - assegna il valore di parola-zero. Sul tema della
morale e del trascendente, che qualcuno invoca con un certo azzardo, ha
un monito saldissimo da affermare, e ce lo trasmette con un improvviso
destarsi del tono di voce, che ora è serissimo e fermo davanti
a questa semplice immensa verità: "Bisogna sempre agire in modo
da rendersi minimamente presentabili a se stessi". Rifiuta il confronto
col soprannaturale, la morale di Pasinetti, e ribadisce la centralità
della coscienza, del qui, dell'oggi. La platea incamera, riflette, tende
a condividere. Io, nel mio piccolo, mi alzerei in piedi, ma non mi vedrebbe
nessuno. Neanche lui che all'inizio ci ha informati esilarato di avere
con sé solo gli occhiali per vicino.
I discorsi, applauditi, si esauriscono, le domande dalla sala ottengono
risposte ormai per lo più umoristiche ed evasive: il Vecchio non
ci sta, ai confronti animati e dottorali, persiste nella sua tattica naturale,
quella di ridurre il rito alle dimensioni di un incontro familiare, ai
toni semplici e pacati che in fondo spiegano meglio e di più.
Prima del commiato, gli si fanno attorno molti con l'offerta di auguri
e la richiesta di dediche. Ho la mia copia in mano e sento il viso che
mi si scalda, che brilla credo, mentre lo avvicino anche io. Senza sgomitare,
trovo un pertugio: lo trovo perché si è girato e ha incontrato
i miei occhi, facendomi un cenno. Mi faccio avanti, lo saluto "Maestro",
vorrei dirgli che lo amo, ma lui lo sa, perché mi prende una mano
fra le sue e mi guarda fisso e mi comunica che noi due ci conosciamo.
Non è vero, ma ci credo. Mi chiede il mio nome, e mi conferma che
ci conosciamo, anzi mi esorta a cercare con lui nel passato l'anello di
congiunzione. Mi soggioga. Sto al gioco: elenchiamo incerti ma speranzosi
alcuni omonimi, collocandoli nel tempo, nello spazio, nelle parentele,
nelle professioni. Risaliamo - ma per me è un viaggio ormai sublunare
- a certe conoscenze veneziane di suo padre, remotamente medico in questa
città, e questa pare la chiave che chiarisce e conforta entrambi.
Non è vero, ma ci credo. Ora qualcuno dietro preme e sbuffa, ma
la mia mano è sempre tra le sue in quel modo così naturale
e riposato che sembra fare di me una sua parente di sangue, vissuta lontana
per tanto tempo e ora tornata, come lui del resto, alla base, alle mura
domestiche, al posto giusto. Sono io che devo accomiatarmi, dopo aver
raccolto il libro dove ora c'è per sempre una frase di affetto
e augurio e la sua firma che per la malfermità della mano - mi
spiega - da tempo usa abbreviare. Sguscio via, altri se lo inghiottono,
non mi giro neanche più, saluto rapidamente qualcuno ed esco in
calle, ancora non è notte, stringendomi dentro già una nostalgia.
Avrei voluto aspettare che se ne andassero tutti, poi porgergli il suo
buffo bastone verde e sorreggerlo per un gomito - lui così più
alto di me - mentre lo accompagnavo adagio verso casa, alla sua sedia
di cucina, alla sua tazza di caffè d'orzo, alle pastiglie per la
gamba, per il cuore, per i ricordi. In mezzo a un campiello, lo so, si
sarebbe fermato per declamare come al teatrino dei preti qualcosa del
Macbeth, ma in inglese, così non lo avrei capito ma ugualmente
me lo sarei bevuto di gusto.
Invece avevo un treno in attesa, un interregionale delle venti e qualcosa,
semivuoto. Quando è partito imboccando il ponte sulla laguna per
approdare in terraferma, ero già a pagina 36.
In Cortesconta puoi leggere le recensioni
dei seguenti romanzi del Maestro:
Rosso veneziano
Il ponte dell'Accademia
A proposito
di Astolfo
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