PRAGA
città aperta
Al
ristorante di Vladimir e Josephine, di fronte alla frequentatissima
piazza vecchia, la cucina ceca era di buon livello ma sfortunatamente
non a buon prezzo.
Non potevamo certo saperlo, ma potevamo almeno immaginarlo.
Era l'unico esercizio commerciale con tanto di ingresso a
sei stelle, ubicato in uno splendido palazzo in stile art
nouveau, dichiarato monumento nazionale, tirato a nuovo, e
a due passi dall'antico Municipio con il celebre orologio
del XV secolo.
Io e la mia troupe ci fermammo una sera, dopo un lungo lavoro
di riprese fotografiche nella periferia della città,
per riprendere scorci di paesaggio e caratteristiche vedute
invernali da inviare a quella stupida rivista dalla quale
eravamo stati ingaggiati e ben pagati. Nessuno di noi conosceva
abbastanza bene la città nonostante avessimo lavorato
più volte in questo paese, quindi dopo cena, dopo aver
pagato come turisti sprovveduti una cifra spropositata per
quattro porzioni di gulasch, ci incamminammo a piedi senza
una meta precisa ma desiderosi di buttar giù in corpo
una buona dose di birra.
Per una vera birra genuina e locale, l'unica cantina rimasta
si trovava nel cuore della città vecchia. Marlene lo
sapeva bene ed era per questo che passava qui intere giornate
prima di esibirsi, come suo solito, lungo le 16 arcate che
compongono il ponte più famoso dell' Europa orientale,
il "Ponte Carlo".
Marlene era una musicista ambulante, non aveva più
casa, era costretta a mendicare e vagabondare alla ricerca
di un tetto e di un tozzo di pane.
Aspetto bizzarro e fantasioso, carnagione chiara, capelli
color cielo e scarponi Doctor Marten's sotto la lunga gonna
di lana, la si sarebbe definita una donna di ghiaccio, ma
bastava una breve conversazione per scoprire una gentilezza
di modi quasi ottocentesca.
L' ho conosciuta sulle sponde della Moldava, durante il suo
turno di riposo, quando ancora per guadagnarsi da vivere faceva
la barista al Caffè Slavia, in centro, prima che chiudesse
definitivamente per lasciar posto ad una rivendita di cristalleria
boema.
Aveva posato per me un paio di volte all'inizio, quando mi
era stato commissionato un servizio di moda metropolitana
e quando serviva un viso particolare per una campagna pubblicitaria,
poi l'avevo persa di vista.
Fui contento di ritrovarla proprio in questa cantina semi
sperduta, nella fredda notte, dove un grigio camino in pietra
emanava con le sue ultime lingue di fuoco, un po' di calore
che sgelava e sollazzava i pochi avventori presenti. Lei invece
non era contenta, sembrava triste, persa nei suoi pensieri,
nessun sorriso sulle sue sottili labbra dipinte di un blu
cobalto, sembrava aver perduto completamente la gioia di vivere.
Nessun atteggiamento mi ricordava la dura ma soave ragazzina
del caffè Slavia, che mi chiedeva di raccontarle, tra
un te e un caffè macchiato, della mia vita in Italia
o del mio lavoro di fotografo, per farmi sentire a mio agio.
Ora se ne stava lì in disparte, sola, lontana anche
dai sui nuovi amici di strada: sghembi giocolieri con le carte,
ventriloqui attempati, acrobati e mangiatori di spade.
Il suo viso si stava sciupando, si sarebbe ben presto consumata
come l'erba dei prati viene consumata dal gelo d'inverno.
Ero convinto di poter fare qualcosa, di poterla aiutare, in
segno almeno della nostra passata amicizia.
Da quel giorno la andai a trovare spesso, quando potevo, su
quel lungo ponte pedonale,
la portavo con me, non avevo una casa, certo, ero solo di
passaggio, ma la ospitavo nei limiti del possibile nella mia
stanza d'albergo. Viaggiavamo in tram e metropolitana. Mi
accompagnava durante i miei servizi fotografici, scherzavamo
spesso ed io ne fissavo ogni istante per l'eternità
con la mia Nikkon professionale. Sembrava si stesse riprendendo,
stava riacquistando il suo splendido sorriso. Trascorrevamo
intere ore a parlare, di come era stato bello vederci al caffè
Slavia, in quelle giornate piovose in cui io mi rifugiavo
aspettando il bel tempo per i miei servizi fotografici, facevamo
progetti per i prossimi mesi estivi, magari sui monti Tatra,
nella Slovacchia settentrionale, in giro per le foreste, le
praterie e fermarci la sera per assaporare il tramonto ai
piedi di quei numerosi laghetti chiamati "occhi di mare".
Mi stavo proprio innamorando di lei.
Ma non era tutto oro quello che luccicava.
La direzione del mio albergo, un giorno, mi fece trovare in
camera, assieme alla colazione, una lettera contenente una
nota di disapprovazione sulla mia recente e continua pessima
condotta.
Il biglietto riferiva: "Una persona come la vostra ospite
non è gradita in questo albergo, ne va del nostro buon
nome, pertanto siamo spiacenti ma ci vediamo costretti a disdire
la sua prenotazione presso il nostro "Hotel Pariz".
Lo lesse per primo Marlene. Scappò fuori dalla stanza
e corse giù lungo le scale.
Io mi infilai i primi indumenti che trovai a portata di mano
e cercai di raggiungerla correndo a più non posso.
Mollai un dritto in pieno viso al direttore che stava dirigendosi
verso di me ed uscii fuori. Cercai Marlene per tutto il giorno,
sostai più volte sul ponte Carlo, chiesi a tutti i
venditori di strada notizie di lei.
Niente di niente, non riuscii più a trovarla. Provai
insistentemente anche nei giorni a venire ma senza nessuna
fortuna.
Mi trovai un lavoro stabile come fotografo e reporter per
un quotidiano ceco e mi stabilii in città. L' inverno
incalzava ed io instancabile tornavo di volta in volta nei
nostri luoghi, ripercorrevo i posti delle nostre lunghe passeggiate,
ma non ebbi modo ne di rivederla ne tanto meno di riabbracciarla.
Sostavo per ore nei giardini dove arbusti coraggiosi si coprivano
di fiori sfidando le peggiori brinate e riempiendo l'aria
di profumi deliziosi. Il mio amore appena sbocciato era stato
bruciato, estirpato dalla brutale e perversa logica perbenistico-materialistica.
Non mi restavano che preziose fotografie di quei recenti momenti,
istantanee che immortalavano la magia di quegli attimi felici.
.
In
una gelida e cupa giornata invernale, rischiarata soltanto
da sottili fiocchi di neve che, dondolando, cadevano sulla
città, già dall'alba mi trovavo al lavoro sopra
una delle due torri gotiche che delimitano austeramente le
estremità del maestoso ponte. Stavo fotografando la
città dei miei sogni, stavo immortalando le cose che
la maggior parte di voi non possono vedere, quando da quassù,
sporgendomi da questa intelaiatura di pietre e mattoni, scorsi
un'ombra funerea allontanarsi dalle tristi rive ancora addormentate.
La vidi scivolare via silenziosa, risucchiata dalla gelida
corrente, lentamente. Gli occhi mi si gonfiarono, si inumidirono,
si annebbiò la vista. Era lei, Marlene. Gracile ragazzina
ceca. Aveva proprio deciso di farla finita. Un nodo alla gola
mi impedì di urlare. Barcollai tremendamente e fui
costretto a ritrarmi all'interno della protezione metallica
che mi cingeva i fianchi per non cadere.
Dopo alcuni istanti volsi di nuovo lo sguardo, lucido per
le lacrime, verso il basso. Questa volta c'era solo lo spettacolo
dei tetti di Praga sotto la neve, nello scintillio barocco
delle luci e delle cupole dorate.
In
mezzo scorreva il fiume Moldava
.
roberto