La processione

Mio padre era da sempre grande fan di Padre, Figlio, Spirito Santo, Madonna con Bambino, Santi Vari e in definitiva di tutto ciò che sprizza religiosità cattolica e non si sarebbe mai perso la Processione dell’Assunta. Poteva cadere merda dal cielo, la terra esalare le ultime scoregge di vita ma, state certi che mio padre per nulla al mondo si sarebbe perso la sua Marcia Mariana.

Da una parte lo capivo, l’Evento si svolgeva una sola volta all’anno, nella sua terra natia, proprio quando lui vi si recava per trascorrere quella manciata di giorni che lui chiamava “ferie” ma che in realtà erano semplice abitudine. Come avrebbe potuto perdere quella rappresentazione tangibile delle sue origini ? Sarebbe stata una mancanza di rispetto per se stesso e per la terra che lo aveva dato alla luce.

Detto questo, bisogna anche dire che vista in questi termini, la faccenda, potrebbe anche suscitare in me un totale disinteresse, al limite del tanto abusato “chi cazzo se ne frega”, ma purtroppo le cose si deteriorano. Ogni anno peggio, verso l’irreparabile. Venne preso dall’ansia di avere tutta la famiglia accanto a se come testimoni. Nessuno venne tralasciato: moglie, figli, nipoti, anche cani e gatti, se ci fossero stati, avrebbero dovuto partecipare.

L’opera di convincimento solitamente iniziava già uno o due giorni prima, con il solito attacco da cane bastonato, faccia torva e fintamente disinteressata, camminata incerta, espressione da uomo che ha sulle spalle una grave incombenza. L’attacco non era diretto, ma sottilmente perfido. Iniziava a parlare al singolare per poi, rapidamente, senza colpo ferire, comprendere tutta la famiglia nel suo progetto minuzioso della serata: dall’ora in cui cenare alle problematiche relative ai mezzi di trasporto per finire con problemi logistici come “chi va con chi”, “dove” e modalità varie sul posteggio dei mezzi.

Ovviamente quando ormai la nostra presenza era data per scontata nessuno di noi si sarebbe azzardato a negarla spezzando così le speranze nascoste di nostro padre.

Questa è la mia semplice storia, liberamente costretto ad affrontare l’annuale prova di fede e coraggio.

Scendendo più nel dettaglio la scena si apre sul mio capo ciondolante avvolto da una nube di sconforto. Scendendo poco più giù c’è questo mio viso pallido, sconvolto, assente, con il pensiero che vola lontano. Lontano…verso quello scarso televisore, abbandonato nel buio della nostra casa , nel quale funziona bene solo un canale, proprio quello in qui da lì a poco avrebbero dato la partita “Real Madrid - Inter”. Amichevole estiva dai risvolti interessantissimi per uno che non tifa nessuna delle due squadre, ma si reputa un amante del calcio. Tutto ciò si affolla distorto e confuso nella mia testa mentre il mio corpo è bloccato lì, in marcia verso rivelazioni mistico-religiose che sembrano affascinare tutti i presenti tranne me. Probabilmente, il mio sguardo sofferente fa credere a molti che abbia chissà quale pena nel cuore da affidare alla Vergine Maria. Non possono sapere ciò che mi rode tanto profondamente. Continuo a consultare l’orologio, sincronizzandolo con l’inizio della partita. Se questa cazzo di sceneggiata fosse terminata in un tempo ragionevole forse avrei fatto in tempo a vedere almeno il secondo tempo.

Una fottuta vocina dentro me continua a darmi del povero illuso, questa puttana sostiene che queste cose non sono mai brevi. Ci sono rigidi rituali da sostenere prima di potersi ritenere liberi. La vocina mi sussurra cose come: preghiere, salmi, ringraziamenti, pause, inni, ricchi premi e cotillon. So che quella vocina dice il vero ma, per la puttana, se devo recitare la parte dell’illuso tanto vale farla bene e crederci davvero fino in fondo.

Una selva di litanie mi attraversa senza fermarsi. Senza lasciare il minimo segno. Tutto entra semplicemente da un orecchio e viene sputato fuori dall’altro. E’ passato poco dall’inizio della processione. Tutti in fila in ordine sparso su uno sterrato di montagna ad inseguire una croce come fanno i turisti che seguono la guida con l’ombrello colorato per non perdersi. Turisti in viaggio per conto di Dio: “Agenzia Trinità”.

Una visione si fa largo nei miei pensieri: io, che ad un tratto scatto, brucio sul posto i presenti, guadagno la testa, mostro il dito a preti e suore e prendendo un discreto vantaggio. Il clero , profondamente offeso dal mio comportamento blasfemo, molla croci e santini ed in punta di tunica mi insegue a capo di un orda di fedeli inferociti, ma io, senza il peso della chiesa sulle spalle, sono nettamente più veloce. Raggiungo la macchina e finalmente sono libero.

Tornato sulla terra, il mio cervello riesce a notare che il serpentone di fedeli si sta fermando riunendosi attorno alla croce sostenuta da un valente chierichetto, solo in quel momento che mi accorgo della presenza tra il clero di una donna di origine indiana.

Poco importa delle arcane motivazioni che l’hanno portata qui con noi, le vie del Signore sono infinite. Ciò che importa è che ora il mio sguardo è completamente rapito da questa figura in tunica rosa con finiture violacee, una sorta di madonna new-age, apparsa in una calda serata di Agosto. La immagino carica di sapori speziati, acre profumo di incenso, mirra, yoga e pelle candidamente olivastra sotto uno strato di vellutata serenità mistica. Mi vedo già nelle vesti di santone orientale, dinoccolato su un letto di chiodi, a proclamare verità assolute ai miei boccheggianti discepoli.

Questo nuovo tocco di colore mi rianima e per un attimo mi scordo della partita e dell’orologio.

La donna ha in mano un fogliettino a quadretti mezzo stracciato, scritto male. Ancor peggio la donna legge quello che c’è scritto. Non che abbia molta importanza, visto che le parole scritte sono solo un cumulo di merda fumante. Parlano dei giovani: giovani e l’amore, giovani e il lavoro, giovani e la fede. Diciamo anzi che lo strano accento della donna fa sembrare meno insensate quelle parole. Le rende più comiche.

E’ tutto calcolato: tot passi…una fermata, con questo angelo indiano, disarticolato nel suo approccio al linguaggio, che ci intrattiene con appassionati sermoni sui giovani d’oggi. Beh...che bisogno c’è di parlare di questa facile gioventù. Certo, io posso rientrare in questa sporca categoria di persone per via della mia età, ma più li vedo all’opera e più mi auto-convinco di essere di ben altra pasta. Non che mi trovi a mio agio con la scorreggiosa vecchiaia con la quale mi tocca spartire questa triste serata.

Noto, nel frattempo, che uno dei preti adotta uno strano comportamento. Durante le fermate, l’uomo ne approfitta per allontanarsi dal restante clero. Il furbacchione, quatto, quatto si avvicina ad un paio di giovani pulzelle con le quali si sofferma a parlare. All’inizio non ci trovo niente di strano. Mi convinco semplicemente che stanno parlando di questioni di fede ma quando sono abbastanza vicino posso sentire alcuni brandelli di discorso. Non sono disquisizioni teologiche o parole di fede quelle che escono dalla bocca del prete. Il prelato si sta accordando per necessità ben più terrene: un uscita a bere e mangiare con anche altri ragazzi della comunità parrocchiale. Niente di male, se non fossimo nel bel mezzo di una così solenne occasione, e se non avesse avuto dipinto in faccia un così sporco sguardo libidinoso. Ho un conato di vomito. Lo ingoio. L’acidità mi riempie la bocca ed insieme tutto il mio essere.

Fermata dopo fermata, raggiungiamo la chiesetta di montagna, dove ci aspettano quelli che, saggiamente, hanno preferito aspettare seduti sulle panche, messe alla buona fuori dall’edificio.

Si sono risparmiati un bel po’ di merda. Belli freschi, aspettano il nostro avvento con fare tranquillo e rilassato. Io, invece, sono già alla frutta, in preda a furiosi attentati interni al mio stomaco. Sento una pioggia di meteoriti arroventarmi le budella. Evidentemente, qualcosa che precedentemente è entrato in me, credo sotto forma di cibo, ora ha l’impellenza di uscire da una parte non proprio nobile del mio corpo. Non voglio mostrare la mia sofferenza a quel gruppo di esaltati. Stringo i denti ed anche qualcos'altro.

E’ divertente vedere tutte le persone che hanno partecipato alla lenta processione scattare furiosamente alla ricerca di un piccola porzione di panca su cui posare i loro lardosi culoni.

Io che ho rallentato pesantemente il passo, per concentrarmi totalmente su i miei problemi intestinali, sono uno degli ultimi ad arrivare, e logicamente mi tocca la posizione eretta. Inizio a sudare copiosamente, pur non facendo particolarmente caldo, tanto che mio padre mi chiede " Ti senti bene ?". All'uscita di quelle fatidiche 3 parole il mio cervello inizia una micidiale elaborazione di dati statistici e di opportunità che danno il seguente risultato: la risposta negativa alla domanda mi avrebbe sicuramente consentito di attuare un piano di fuga molto astuto. La mia sofferenza fisica si sarebbe trasformata presto in una veloce scappatoia verso il secondo tempo della partita. Mi sarei fatto accompagnare alla macchina assicurando mio padre sulle buone possibilità di riuscire ad arrivare a casa da solo, l’avrei convinto a rimanere dicendogli che mi dispiaceva molto non poter seguire l'intera funzione. Ed infine la libertà: casa, cesso, televisione, partita. Il ragionamento non fa una grinza. Qualche grinza deve evidentemente averla però la mia lingua se, mentre il mio buon vecchio cervellino faceva tutte queste belle supposizioni, dalla mia bocca esce solo un: "Sì, grazie, tutto OK". Un brutto colpo.

Una volta che tutti sono sistemati, una suora ci avvisa che avremmo aspettato pazientemente l’arrivo del vescovo. Nell’attesa avremmo intonato qualche bel canto a Nostro Signore.

Non c’è bisogno di dire che ne sono immensamente felice. L’unico aspetto positivo della faccenda è che la lagnosità dei canti assopisce anche quegli stronzi che si agitano in me. Mi sento leggermente meglio ma ciò non toglie il fatto che vedo la partita scivolare lontana a cavallo della straziante noia che mi percuote a calde folate. Anche l’anno prima era stata annunciata la presenza dell’alto prelato ma alla fine, dopo una snervante attesa, non si presentò. Mio padre me lo racconta come se fosse un divertente aneddoto. Il sorriso sul suo volto sparisce in fretta quando vede la reazione nevrotica del mio viso in preda a spasmi di irritazione.

Abbiamo ormai finito l’intero libretto dei canti e in questo momento il clero, riunito, si rende tristemente conto della impossibilità di avere un contatto diretto con il pezzo grosso poco fa annunciato in pompa magna. Non almeno per questa sera. Ringrazio Dio per il formidabile intuito che ha donato ai portatori della sua parola.

Chi l’avrebbe mai detto ?

La funzione inizia così in tono minore, i prelati sono evidentemente scossi, probabilmente dal fatto di essere stati gabbati per la seconda volta di seguito. Manca la necessaria motivazione e così ho la netta sensazione che il rito venga notevolmente abbreviato. Ne sono piacevolmente sorpreso, tanto che ho quasi l’impeto di applaudire in segno di approvazione. Mi giro verso le persone che mi circondavano e noto anche nei loro volti espressioni di gioia mal celate.

In un passato lontano in cui frequentavo abitualmente luoghi religiosi avevo notato una cosa che mi aveva sempre divertito ed ancora adesso non riesco a fare a meno di notarla durante le messe che saltuariamente mi si costringe ad assistere. Se vi capitasse di farci caso noterete che verso la fine della funzione, quando si arriva alle battute di chiusura, le parole vengono scandite sempre più velocemente sia dal prete che dai fedeli. Accelerano, accelerano fino quasi a tagliare le stesse parole.

Scandito l’ultimo Amen, una fiumana di persone solitamente si accalca vergognosamente pur di uscire immediatamente, pur di finire tale tortura. Ecco come sono i bravi cristiani.

La messa è finita. Gioia e tripudio. Sono felice. Anzi sono uno dei primi ad adoperarsi per riportare le panche di legno all’interno della chiesetta. Non è gran cosa ma il viso di mio padre ora è raggiante.

I dolori intestinali si sono assai affievoliti e il mio aspetto ne ha beneficiato. Sento lo stesso qualcosa spingere freneticamente lungo il mio colon, ma ora sono altresì sicuro di potercela fare. Per quanto riguarda la partita, non tutto è perduto, forse sarei riuscito a vedere almeno un pezzo del secondo tempo.

Ci dirigiamo a passo svelto verso le macchine. Salgo sulla mia vettura e sono assalito dalla furia dell’arrivare. Mia madre e mia sorella, che hanno avuto la sfortuna di salire con me, compostamente non mi riprendono per la mia guida…diciamo…”sportiva”, non so se il loro totale silenzio è dovuto al semplice non avere niente da dire oppure al terrore che stanno provando. La stradina è stretta e tortuosa, come si conviene ad ogni strada di montagna che si rispetti, ma a me non interessa, non vedo curve davanti a me, solo una lunga strada che mi porta dritto alle gioie di un cesso, un divano, un televisore. L’equazione è semplice: più schiaccio su quel cazzo di pedale, meno velocemente quella fottuta lancetta dell’orologio si sarebbe spinta avanti.

Mi dispiace non vedere negli occhi di mia madre la comprensione di questo semplice concetto.

In poco tempo siamo davanti alla porta di casa. Le mie mani sudate si aggrovigliano alla ricerca della giusta chiave e della serratura che nel buio più fitto fatico a trovare. Ormai me la sto facendo addosso. Trovo le chiavi. Trovo la serratura. Trovo il cesso. Sputo fuori tutto. E’ un gran bel momento.

Mi soffermo un attimo per cogliere a pieni polmoni la gioia di questo istante, nonostante l’odore consigli la fuga a gambe levate.

Quando scendo, ritrovo mio padre che è appena arrivato con il resto della compagnia. Sono costretto ad ascoltare le sue rimostranze sul mio modo di guidare. Poco male, mi giustifico distrattamente, senza dare una grande importanza a ciò che mi dice. Mi sono già impossessato del divano, la televisione è dinnanzi a me in tutto il suo splendore. L’unico canale che si vede, continua a vedersi. Immagini di gioco arioso, dribbling, cross, tiri al volo si insinuano in me. Sto già fantasticando su giocate al limite dell’impossibilità fisica nonché concettuale.

Ero riuscito ad arrivare in tempo, mi resta ben metà del secondo tempo da gustare senza nulla in mente che non abbia una forma tonda a spicchi bianco-neri.

La sequenza bianco-nero ripetuta nel mio cervello, non so per quale motivo, mi procura però una forte sensazione di sonno.

La partita finisce lasciandomi addosso una piacevole voglia di correre su una fila di prati verdi delimitati da strisce bianche di gesso. Sento l’odore dell’erba appena tagliata, una serie di porte, diligentemente allineate una dietro l’altra, si delineano all’orizzonte attendendo la mia venuta. Dietro la prima delle porte c’è S. Pietro che, non ci crederete mai, stende le reti da pesca sui pali. Sulle reti c’è ancora avvinghiato qualche pesciolino sgambettante. Mi sto avvicinando alla porta e S. Pietro proferisce le seguenti parole: “ Caccia la boccia nel sacco ed io moltiplicherò le reti ”. Rimango un po’ scosso da queste parole. Appaiono delle tribune. Sulle tribune, gente. Gente con aureole in testa. La gente mi incita a gran voce. Dice cose come: “Kyrie eleison, cristi eleison, buttala dentro, gloria in excelsis gloria”. Non mi accorgo della presenza in campo di un uomo con una lunga barba bianca con addosso tunica nera e fischietto in bocca, sopraggiunge correndo da destra, fischiando come un dannato, si toglie il fischietto di bocca e mi dice: “ Chi non ha mai peccato, scagli la prima palla”. A quelle parole non riesco a trattenermi, alzo la gamba destra, miro lo specchio della porta e faccio schioccare una terrificante frustata. Non sono mai stato un gran tiratore ma quello era il tiro che ogni buon calciatore insegue per tutta la vita.

Veloce, preciso, ululante. Una bordata che spacca il culo ai passeri. Ah… che gioia indescrivibile. La palla si insacca proprio sotto la traversa, facendo volare lontano un paio di poveri pesciolini.

Allora si accende una luce accecante. Quando la luce si affievolisce leggermente, riesco a distinguere una donna che raccoglie la palla che ho scagliato e con fare epico si avvicina a me. Indossa scarpe a 13 tacchetti fissi. Man mano che si avvicina, riconosco in lei la donna indiana della processione. Quando mi è dinnanzi mi porge il pallone e dice: “ Questo è il mio frutto, rispettalo”. In un lampo di luce tutto sparisce. Ero solo con il mio pallone. Un bel pallone a spicchi bianco-neri.

I miei occhi, che con difficoltà cercano di aprirsi, si accorgono che ero ripiombato sul mio divano, dinnanzi al televisore con un unico canale. Cazzo, proprio un sogno con i controcoglioni.

Mi stropiccio un po’, mi stiro, sbadiglio un paio di volte, mi alzo, spengo il televisore e vado a dormire al piano di sopra.

La processione migliore a cui abbia mai assistito.

 


berto

 

 


Racconti

Esplora L'ARCHIVIO