Ti rieleggerei per ore


Ti rieleggerei per ore. Così mi ha scritto. Non mi ha scritto che passerebbe delle ore con me, non mi ha scritto che vuole fare di nuovo l'amore con me o che vuole rivedermi o che qualsiasi cosa non vale il mio malessere, non mi ha scritto niente. Non a me.
Ha scritto che mi rileggerebbe per ore.
Mentre io magari mi faccio saltare le cervella ascoltando Mozart alla radio.

Ogni giorno passato così ha finito per uccidermi ed intanto che metto un piede dopo l'altro e vado in qualche posto in cui non vorrei andare io sono già morto mentre lo stronzo del piano di sopra prende appunti per qualche cazzo di verso immortale.
Mica io scrivo le mie poesie immortali di merda che non me ne faccio niente sveglio alle tre del mattino mentre lucido la pistola ed accarezzo la lama del rasoio. Mai scritto un cazzo di rigo di mia mano, io. Non ne so niente della faccenda in versi che mi dà inspiegabilmente da mangiare.
Mi mandano gli assegni. Donne, quasi tutte. Qualcuna assorbenti usati.
Preferisco gli assegni, niente contro gli assorbenti però.
A momenti la gente con la vagina che mi legge mi dà più soldi degli editori. Nemmeno mi dispiace essere la loro puttana. A modo loro mi infilano tutte i soldi dentro l'elastico delle mutande.
Mutande. Io non me le cambio mai.

A letto con Tania me la sono cavata bene. Prima e dopo, un disastro. Come sempre. Il sesso tanto lei crede di usarlo come denaro per la marchetta o il biglietto d'ingresso nella mia testa, che poi è lo stesso.
Eccola che prende in bocca un ossimoro, lei così crede. Mica è la prima volta. Ma non sono sceme, non così tanto. Dopo un po' se ne accorgono tutte quante che hanno sbagliato sportello per inoltrare la loro richiesta. Ne so un cazzo io, di poesia. Io sono il cazzo del tassista del poeta, non glielo dico, altrimenti non me le scopo. Altrimenti glielo direi. Giurin giuretta!
Io mi porto in testa un tipo che prende appunti e poi butta quasi tutto e non potrei fermarlo neanche se volessi, né lui potrebbe fermarsi neanche se volesse e comunque non vuole. Questo stronzo suda ed urla e bestemmia ed il lavoro che s'è messo in testa di fare, sto cazzo di posto fisso che ha, è più o meno paragonabile al ricavare uno stuzzicadenti da una quercia secolare.
Le cose che non contano, le cose che contano, la differenza io mica l'ho mai vista, quello invece sì e coglie l'attimo, amiche mie, e ve lo regala ed in cambio io schizzo di felicità e per cinque secondi mentre me ne vengo solo e triste io non sono più. La transazione dico io è equa cazzosanto. È da che sono nato che mi tengo dentro il bastardo che cresce come un tumore: esperienza vuole e gliela do e voi la date a me ed io è a lui che la restituisco. Ne so niente se è un circolo virtuoso, vizioso o solo una discesa nella fogna della morte un tantino diversa dalle altre. O magari è esattamente lo stesso. Niente di più che montare parafanghi sulle automobiline da collezione o darla via quando i bambini non possano vedere. Niente di meglio, magari. O sì. A volte è un incanto..a volte sono di cattivo umore come se avessi le scarpe sei numeri più stretti ma fossi lo stesso riuscito ad infilarmele. Chissà poi perché.

Consapevole di tutte queste cose e di altre ancora io continuo a ricascarci. Ci ricasco ogni volta che posso. Ogni volta credo che sia qualcosa di più che un imbroglio a buon mercato e cerco nella donna che si scopa me credendo di scoparsi un poeta qualcosa che non si trovi tra le sue gambe. Prima prendo quello che si trova tra le gambe, ad ogni buon conto.
Starsene nel mondo per me è come essere affondati in una bolla di muco prendendo aria da un respiratore. Incontro una, tendo una mano e cerco di venirne fuori. Non funziona. Non funziona mai ed io sono stanco di allungare l'avambraccio in un vacuo sforzo di umanità che porta a niente, zero al cubo tutte le cazzo di volte e Tania credo sia venuta due volte o ha finto molto bene. Poi la notte è andata avanti come ha sempre fatto. Di solito i maschi della nostra specie si mettono a dormire, dopo. S'è addormentata lei invece perché ne aveva piene le palle delle mie dita tese nella sua direzione e niente scintille, non le facevo l'effetto che le facevano i miei cazzi di righi mozzati dal dolore di stare al mondo. Non decollava mica ad essere in mia compagnia come quando se ne stava tutta la notte e tutto il giorno da mane a sera con i miei versi in giro per la testa, il cuore e gli orifizi vari dell'anima e del corpo. Valgo mica le mie poesie, io. Solo uno stronzo disteso al suo fianco che le dice che ha freddo e da solo non ci vuole stare più e scaldami e stai con me, questo qua è il sottoscritto dopo il coito con te, Tania, amore mio che non sarai mai.
Poeta è il suo nome ed imbroglio a se stesso significa, sta cazzo di vita che ho io. Non imbroglio gli altri. Sono io che non sono alla mia altezza. Loro trovano il dolore che implica la sensibilità e la sofferenza e decidono per la definizione di uomo speciale attaccata alle chiappe dell'anima del tipo che i versi li scrive. La mia mano in prestito al tipo che mi vive in testa. E loro chissà che cazzo pensano di trovare oltre alle ossa, i tessuti, il sangue e l'altra merda che mi porto dentro come tutti gli altri. Ma l'imbroglio riguarda me, io resto. Loro tolgono le tende.
E magari vengono pure un paio di volte, prima.
O fingono molto bene.

Ed ho un bigliettino sul frigorifero ma sono più solo di ieri sera, anche qualche milionata di spermatozoi mi ha abbandonato. Mica mi tiene compagnia il bigliettino sopra lo sportello del frigo. Mica stai con me, Tania del cazzo, e lo sai, sai che ho freddo e sono da solo e, dottor Freud, voglio la mamma. Il bigliettino e le parole e le dita che le hanno scritte ed il cervello che ha elettrificato qualcosa per creare le parole o come cazzo sia successo è comunque la stessa merda, tutto di te lo sa benissimo quello che stai facendo. Stai facendo pulizia del corpo perché il corpo non ti serve, ti stai sbarazzando del mio cadavere ambulante perché niente a che fare, questo ammasso di carne calda e tiepida e pure fredda troppo spesso, con quello che volevi tu. Non sono proprio la marchetta cha hai pagato, vero, amore mio?
E così mi rileggeresti per ore mentre io magari mi faccio saltare le cervella ascoltando Mozart alla radio.
Amore mio.


Mi rileggeresti per ore ed intanto qua è di nuovo notte, mi rileggeresti per ore e sono intento alla mia autodistruzione, per niente lirica. Qualcuno spegne il giorno dentro e fuori senza chiedere permesso. Il giorno è andato. Un'altra volta.
Non è il caso di impazzire questa notte, non è il caso di ammazzarmi questa notte. Non è il caso neanche di essere vivo e di stare pericolosamente da solo, ancora, questa notte. Guardo il muro bianco e mi immagino come ci starebbero sopra le mie cervella. Un dipinto post moderno: il poeta ha freddo. Pure la luna piena, ma io non guardo troppo fuori. Guardo dentro alla ricerca di un paesaggio che non riesco a scovare. Dentro di me so che si nasconde qualcuno, qualcosa, uno spiritello assertivo che vaglia milioni di combinazioni di parole per tirare fuori qualcosa che ha senso e non ne ha. Che esiste e che non c'è. Qualcosa che dice e tace e parole in croce per salvarmi dalla croce. È stato Bukowski, e chi sennò, a dire che non è piacevole morire sulla croce. È più piacevole sentire il tuo nome sussurrato al buio. Ma tu no. Tania. Tu mi rileggeresti per ore, ma il corpo e quello che c'è dentro meglio che siano in questa stanza a giocare con la morte senza fare sul serio, per quello che ti riguarda. Meglio che ti stia lontano mentre marcisco. Meglio che io muoia sulla croce. Se vivo, e vivo, cazzo, vivo, morto ma in piedi e passi per andare dove non voglio, tutti i giorni, se vivo morto in piedi cammino senza andare in nessun luogo, se vivo, qualcuno prenderà appunti per regalarteli ed io non potrò urlare che mi non mi strappino il cuore mentre ancora respiro perché tu e gli altri ed il tempo e la parete bianca possiate dare ognuno il suo morso. Meglio se è caldo, ancora. Meglio se freme come in un battito abituale senza scopo. Adesso. Tanto è notte e luna piena e qualcuno mi legge, so sempre che qualcuno mi legge anche nelle ore assurde, è notte e mi rileggeresti per ore mentre dispongo le mani a ricevere ognuna il suo chiodo, sia fatta la tua volontà, ma martire non lo volevo mica diventare, non ce l'ho di mio una vocazione. Di mio, nessuna vocazione del cazzo, grazie tante. Io, per quello che ne so, sto qua ad aspettare che mi passi dentro un po' di corrente elettrica e non decido né come né quando né quanta né un cazzo di niente. Ho incanto e tortura nella persona del pazzo visionario che mi abita in testa. Ma tu mi rileggeresti per ore. Dovevi proprio scrivermelo sul frigorifero? Crepo mentre mi rileggi per ore. Hai idea di questa cosa? Te la immagini, cazzosanto? Vuoi che ti racconti com'è? Vieni qui piccola mia, siedi sulle mie ginocchia. Papà vuole raccontarti una storia.
A quattordici anni volevo crepare ed invece ho scritto un sonetto. L'ho bruciato anche, dopo, ma nel frattempo ero ancora vivo. E morto, ero morto comunque. A quindici anni volevo crepare, ma a quell'epoca mica le contavo più le sillabe. Scritto l'ho scritto quello che spingeva per uscire è uscito e tanti saluti e nel frattempo ero ancora vivo, ma, come avrai intuito, ero morto di nuovo. E continuo a morire da quindici cazzi di anni tutte le volte e non smette, cazzo, non smette neanche per un momento. Sai che cosa può significare non avere mai un momento? Niente. Neanche un istante senza uragano, senza tigre sulle spalle, senza una qualche parte di me che immagina come ci starebbe un taglio verticale di quindici centimetri sopra la mia guancia. Tutto il tempo che ho è tutto tempo che il tipo che mi sta in testa prende per fare i suoi giochini e sgranare rosari e mettere in fila le perline per le sue cazzo di collane colorate. So questo e so quello e lui succhia via il ritmo dalle tue dita che ti passano tra i capelli e dai movimenti delle pupille del mio primo amore e non smette. Non smette mai. Ti entra in testa il senso del mai? Hai idea? Non puoi, cazzo, non puoi, ma tu mi rileggeresti per ore.
Amore mio.
Ho una cosa da dire a tutti quelli che affermano di invidiarmi perché scrivo poesie, dicono,così bene. Amici, non mi invidiereste, se solo aveste idea della parte della cosa in cui ti viene voglia di piantarti uno stuzzicadenti dritto nell'iride? Riuscite ad immaginare come può essere trovarsi in una stanza al buio con la voglia costante di farsi fuori da soli? Immaginate anche solo per un momento
come ci si può sentire a dover reprimere l'istinto di dare fuoco alle proprie dita e poi guardarle bruciare fino all'osso, essendo cosciente che se lasciassi fare queste cose a te stesso, sul serio poi non spegneresti le fiamme, storceresti un tantino il naso, quello sì, per la puzza, come un maiale che va a fuoco. Un maiale da cui nessuno abbia cavato fuori il sangue e le interiora, ma per il resto
resteresti a guardare. La pelle che si fa nera sotto le fiamme brillanti. Uno spasso. E sul volto avresti appiccicato il sorriso dell'idiota, quel sorriso che conosci così bene, pur non avendolo mai visto,
quel sorriso che tanto affascinava Rimbaud prima che le parole gli giocassero il tiro di lasciarlo nel mondo dopo che loro erano andate via, prima che fosse sul suo volto che appariva sempre più spesso quello stesso sorriso, di certo prima che gli segassero via una gamba.
Ti squarci con le tue stesse mani l'addome e dici a tutti che dovrebbero venire a vederti. Mentre con le tue viscere fai figurine divertenti, come un clown ad una festa di compleanno per bambini. Scordi che il mondo esiste, scordi che il sole sorge ogni mattina e ridi in faccia a tutto quello che ritieni sia reale. Scegli il tuo cavallo, sai che arriverà ultimo al traguardo. Fai la tua puntata (il riso dell'idiota). Ma tu mi rileggeresti per ore, me lo ha detto il mio frigorifero.
Una spiegazione vuota e priva di praticità. Il senso pratico mi è sempre stato sconosciuto, perdo tempo. Muto urlo nella tua direzione come se potesse servire a qualcosa mentre la notte mi risale lungo la pelle scoperta delle gambe ed attacca le anche, questa notte di merda fatta di lingue di fuoco nero e puzzolente. So di sperma rancido e di mutande di tre giorni, tenute in onore del dio della poesia e del mio amore che adocchia la sua prossima scopata al bar sotto casa. So di niente messo in riga e le righe sono spezzate. So del mio odore che non vuoi nelle tue narici. Poco intimo, vuoi l'odore della mia anima e quello sai dove prenderlo e su ogni verso che ti passa negli occhi operi un taglio selettivo in automatico. Neanche te ne accorgi che togli quello che voglio dire io per tenere bello chiaro in testa quello che vuoi sentire tu. So di sperma rancido e pupille che mi hanno evitato nella mia adolescenza del cazzo, so della masturbazione cui mi sono forzato in bagno e di quella continua dentro la testa. So della masturbazione che ho scelto e di quella che mi è stata imposta dalla mia natura guardona. So della tua assenza e della stupidissima luna piena. 'Sta luna di merda fatta di formaggio andato a male. Il mio cervello è escoriato e bollito e percorso da correnti di vento gelido angolari. L'inclinazione della luce che mi entra negli occhi è quella migliore per ferirli.
Ho paura.
Ho freddo.
Voglio la mamma, dottor Freud.


Lukowski

 

 

Racconti - HOME