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Il
Mio Collega
Lavoro come sorvegliante notturno nella facoltà
di informatica dell’università statale. Turni di
otto ore a giorni alterni. Non è certamente un lavoro
faticoso. Devo solo controllare che nessuno entri o esca dall’edificio
senza un regolare permesso, dalle dieci di sera fino alle sei
del mattino. Un po’ noioso, certo, ma una volta abituato
corpo e mente a questi ritmi notturni è addirittura rilassante.
E poi, visto che soffro d’insonnia e tachicardia, mi considero
perfino fortunato.
Siamo in due. Io e il mio collega. Lui ha la passione per i
computer e i giochi d’azzardo. Io non capisco un cazzo
di informatica e odio scommettere, non ho mai giocato nemmeno
una schedina, ma ascolto ogni sera i suoi discorsi fingendo
di crederli interessanti. Avere un cattivo rapporto con il compagno
di lavoro non rientra nelle mie abitudini.
Il mio collega è un hacker-maniaco.
Un giorno si trovava a casa mia e cominciò una discussione
coi miei genitori. Spiegò loro che un domani, il nuovo
analfabetismo avrebbe toccato quelli che non fossero stati in
grado di usare un mouse e una tastiera e quelli che non fossero
stati capaci di navigare in internet. Spiegò loro che
senza la conoscenza del pc saremmo rimasti dei semplici metronotte,
invece, con la dovuta preparazione informatica avremmo potuto
trovare un impiego migliore.
Facilmente convinti dalle sue opinioni i miei genitori, che
cercavano in tutti i modi di tenermi al passo coi tempi, mi
acquistarono il miglior computer in circolazione all’epoca.
Era un Pentium con processore 266 mhz e software rigorosamente
originale e manuale d’istruzione in lingua inglese. Ma
a me non interessava minimamente l’universo informatico,
e poi non conoscevo nemmeno una parola d’inglese.
Qualche tempo dopo il mio collega mi convinse a partecipare
ad un corso serale di informatica. L’idea era quella di
migliorare la nostra condizione professionale e trovare un lavoro
più adeguato alle nostre nuove capacità.
Capii solo più tardi che tutto questo rientrava in un
suo preciso piano d’azione.
Il mio collega oltre ad essere un hacker-maniaco era anche un’abile
abbindolatore.
“Un computer su ogni banco”, aveva
consigliato come slogan al presidente di facoltà, in
piena campagna elettorale. Un modo sicuro per assicurarsi una
scontata rielezione.
Spigliato, loquace, una vera faccia di bronzo, il mio collega
riuscì così ad entrare nelle grazie del presidente
ottenendo il permesso di avere accesso ai dipartimenti informatici.
Mi descrisse il suo piano proprio una sera,
durante il nostro turno di lavoro.
Dovevamo impossessarci dei programmi di cattura e modifica dati
in preparazione presso il dipartimento e, dal nostro pc, sferrare
un attacco ai più grossi casinò virtuali del mondo.
Avremmo fatto man bassa di vincite e arricchito il nostro conto
corrente con cifre a nove zeri!
Io ero contrario, ma lui riuscì a convincermi a partecipare.
Nella stanza il calore generato dai computer
si sommava agli oltre trenta gradi, era una giornata d’estate
tremendamente calda. Davanti ad uno dei monitor uno dei programmatori
stava digitando sulla tastiera. Sullo schermo si materializzavano
complicate chiavi di accesso e sofisticati algoritmi di cifratura.
Qualche convenevole, poche battute e facemmo subito amicizia.
Fu un gioco da ragazzi riuscire ad ottenere una copia del software
necessario. Lo installammo sul mio pc e facemmo numerose simulazioni
prima di tentare l’impresa.
Il mio collega non era solo un’hacker-maniaco, era anche
un diligente manico organizzativo.
Decidemmo di effettuare il colpo l’ultima
domenica del mese, dopo cena, a casa mia.
Preparammo il mio pc per l’occasione. Lui si occupò
di installare un modem dalle prestazioni veloci, una scheda
video ad alta risoluzione, di potenziare il processore e sostituirne
la scheda madre. Ma si era lasciato prendere la mano. Aveva
acquistato anche tastiera e mouse senza fili, tappetini verdi
come tavoli da gioco e persino un manichino con le sembianze
di un croupier!
Tutto era pronto. Doveva essere una serata memorabile.
Quella sera non era ancora giunto il momento
del caffè che, impaziente, volle subito mettere in pratica
il suo progetto. Ci mettemmo in postazione. Tutti i collegamenti
erano effettuati.
Ci connettemmo ad uno dei tanti casinò virtuali in rete,
lasciammo i nostri dati, il numero della carta di credito e
fummo registrati. Potevamo giocare.
Le puntate e le vincite si calcolavano in franchi svizzeri.
Non c’era nemmeno necessario saper giocare a black jack
o poker, sul monitor la fortuna aveva l’aspetto di un
gratta e vinci.
Provammo con un biglietto da 10 franchi. Subito comparve il
biglietto a tutto schermo, con tanto di vernice argentata che
copriva i simboli. Un clic sull’apposito pulsante e nella
schermata seguente il biglietto apparve “grattato”.
Facilissimo. Come prima volta non era andata male, 10 franchi
vinti, 10 spesi, saldo a 0.
Ci assicurammo che il programma di elaborazione dati stesse
lavorando in sordina e iniziammo a puntare somme sempre più
spregiudicate! Ma proprio come nei veri casinò, dopo
le prime tornate vittoriose, si cominciò a perdere inesorabilmente.
Un occhio all’estratto conto: ben 500 franchi spesi in
pochi minuti.
Consigliai al mio collega di abbandonare ma lui volle assolutamente
continuare.
Bastarono venti minuti per perdere circa ottomiladuecentocinquanta
euro. Il tutto senza muoverci da casa, senza nemmeno chiamare
l’allibratore al telefono come si vede nei film americani.
Per quel giorno avevamo perso anche troppo.
Il programma non ci servì a nulla. Forse avevamo sbagliato
qualcosa o forse anche i computer barano. O forse mi ero solo
fidato troppo delle capacità del mio collega.
Il gioco era virtuale, ma i soldi, quelli erano veri, e la carta
di credito al proposito parlava chiaro.
Il mio collega sarà anche un hacker-maniaco,
e un giocatore d’azzardo inaffidabile, ma io sono stato
proprio un gran coglione a starlo a sentire!
Ora, quando mi parla dei suoi progetti durante il lavoro, faccio
finta di ascoltarlo. Continuo sempre a dargli ragione, ma a
casa mia, dopo quel che è successo, non gli ho più
fatto rimettere piede.
roberto
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