Fallimento terapeutico


In una fredda epoca di giorni tutti uguali fui passato al turno di notte.
Offrivo la mia forza lavoro nella catena di montaggio di un’azienda che produceva serramenti. Il lavoro non era una pacchia. Stare dietro a quelle dannate macchine non era semplice come poteva sembrare. Il turno di notte era quello con la maggiore incidenza d’infortuni. E’ difficile mantenere la concentrazione ripetendo sempre le stesse azioni per otto ore di filato durante il giorno, figuriamoci di notte. Le macchine erano sicure, a prova di legge, purtroppo ciò non impediva di farsi molto male senza la necessaria attenzione. Se non erano le macchine era la sfiga che rincorreva noi sonnambuli. Solo una settimana fa, un operaio da poco assunto, scivolando ha sbattuto la testa contro la fresatrice. E’ ancora in coma. I parenti gli portano fiori che lui non può vedere. Gli servano a poco nella situazione in cui si trova.
A parte questo, era un lavoro brutto come altri…

…Ero uscito dalla scuola con il massimo dei voti e un fido diploma di ragioniere solo cinque anni prima. Pensavo che quel successo sarebbe stato solo il primo di una lunga serie. Decisi di non andare all’università e per non perdere tempo cercai subito lavoro. Il lavoro non si fece attendere, bussò presto alla mia porta. Fui assunto da una ditta che commerciava calzature per sostituire un impiegato appena licenziatosi. Le prospettive erano ottime e le mie referenze mi mettevano nell’invidiabile condizione di poter crescere sia professionalmente sia socialmente. Così mi dissero. Ne fui molto felice. Nulla nei primi mesi di lavoro mi tolse questa sensazione. I colleghi erano gentili con me, io ero gentile con loro. Il datore di lavoro era gentile con me, io ero gentile con lui.
Non ci volle molto però prima che quella fresca brezza mutasse in aria stantia. Non so dire se fu il mio atteggiamento a cambiare, ma iniziai ad isolarmi sempre più dalla gente che mi circondava. Nell’ufficio c’erano tre donne ed un altro uomo. Le donne erano stupide al limite del ridicolo quando parlavano delle “loro cose”: i regali ricevuti dai mariti, il mestruo, il finto pietismo. L’insulsa mediocrità della quale erano affette le rendeva immeritevoli d’ogni mia minima attenzione. L’altro uomo mi era assolutamente indifferente, poteva non esserci ed io non avrei notato la differenza. Il datore di lavoro da gentile che era divenne invadente e assumeva sempre più tendenze dittatoriali.
Decisi allora che era giunto il tempo di cavarmi dal pantano in cui ero finito. Fondamentalmente il problema era che non riuscivo a far credere agli altri e a me stesso che spostare carta da un posto all’altro, perché poi era quello che facevamo, fosse una sorta d’irrinunciabile missione sulla terra, cosa di cui erano fermamente convinti i miei colleghi.
Erano passati solo sei mesi dalla mia prima assunzione e senza motivi plausibili, a detta di molti, mi licenziai. Era solo l’inizio. A breve distanza rifiutai altre quattro o cinque ottime proposte di lavoro. Gli altri non capivano, mi chiedevano che cazzo avevo nel cervello o meno bruscamente mi dicevano che stavo sprecando la mia vita, che ad una certa età è dura svegliarsi sentendosi un fallito. Erano tutti amorevoli consigli, di gente che aveva esperienza, che certe delusioni magari le aveva anche provate sulla propria pelle, come mio padre. Ma non capivano che a me non fregava niente della filosofia del “cogli l’attimo” che animava le loro buone intenzioni. Finalmente mi rendevo conto di avere sempre fatto scelte sbagliate al solo scopo di gratificare qualcun altro. Ero stato un bravo figlio e uno studente modello, pronto per essere un brillante lavoratore, un amorevole marito, un premuroso padre, un onorevole morto.
Stranamente invece, mi sentivo sempre più attratto dal ruolo del fallito, non ero nato per esserlo, e forse proprio per questo mi dava la sensazione di qualcosa di eversivo, spiazzante.
Seguirono mesi difficili. Ebbi forti dissidi con i miei genitori. M’incalzavano ogni giorno con le solite questioni riguardanti il mio avvenire. Fu questa situazione più che l’ansia per il mio futuro che mi spinse a trovarmi un’occupazione. L’idea di trovarmi al più presto possibile una sistemazione lontano da tutti e da tutto fece, in seguito, il suo naturale capolinea nella mia mente.
Cercai un impiego come operaio e dopo circa un paio di mesi fui accontentato. Entrai a far parte dell’azienda in cui ancora oggi lavoro. Aspettai un altro paio di mesi prima di andare a vivere in uno squallido monolocale in una zona suburbana. L’affitto portava via gran parte del mio ridicolo stipendio. La zona era un cesso ed i miei iniziarono ad ignorarmi…

…Fuori era già buio, in uno stato di dormiveglia mi resi conto che a breve sarebbe iniziato lo show. Io ero il fottuto protagonista. Tra meno di tre ore sarei entrato in quel cazzo di stabilimento, per uscirne solo l’indomani, quando sarei tornato a casa ridotto ad un ammasso di carne molle e fiacca.
Il nostro lavoro era trasformare un pezzo di metallo senza forma in qualcosa che l’aveva, ma il processo, ne ero sicuro, funzionava anche in senso opposto, su di noi. Erano ormai diversi giorni che sentivo le forze mancarmi e desideravo con disperazione di poter tornare subito a casa. Poi pensavo che non ci sarebbe stato nessuno ad accogliermi, non un abbraccio, non un bentornato, non una schifosissima colazione già pronta. Allora tiravo dritto fino a mattina senza più lagnarmi. La solitudine si stava facendo largo dentro di me. Potevo sentirla nello stomaco, nella spina dorsale, nel sangue. Feci anche degli esami ma tutto sembrava andare bene. Non capivo cosa cazzo li facessero a fare quegli esami se non capivano neanche ciò che per me era chiaro.
Non ero sempre solo, qualche amicizia nello stabilimento l’avevo stretta. Scoprii come, quando si soffre e si vive di poco, i rapporti con gli altri si fanno più veri e profondi. C’era stata anche qualche donna ma con loro purtroppo funzionava in modo diverso, non ero mai stato particolarmente fortunato, tutte storie brevi e burrascose, finivano tutte per sentirsi a disagio con me.
La maggior parte erano donnacce che sfruttavano qualche malcapitato per divertirsi un po’ senza impegnarsi, lo trattavano come un ignorante, lo prendevano in giro e si divertivano a pavoneggiarsi, piene di se.
Queste erano quelle con cui mi divertivo di più. Facevo il loro gioco dimostrandomi un completo imbecille, le scopavo, poi, lentamente, lasciavo trasparire che non ero l’idiota che avevano pensato.
Arrivava sempre un tempo in cui la mia dialettica le disarmava a tal punto che, rosse dalla rabbia, scappavano a gambe levate. Era come estirpare l’erbaccia dal raccolto. Rimanevo straordinariamente di buon umore per qualche giorno.
C’erano state anche donne per le quali spremere il cuore non era un delitto, ma io, incapace bastardo, finivo sempre per dover far i conti con l’orgoglio e mi ritrovavo a raccogliere i cocci di me stesso.

…Il tragitto dallo stabilimento a casa mia era breve e quando fui messo al turno di notte, per un po’ mi rese felice l’idea che quando tornavo a casa alle 6.00 di mattina gli altri dovevano ancora andare a lavorare. Ci misi poco però a capire che era solo una stupida consolazione, non era una sfida tra me e qualche altro poveraccio, era tutto ciò che avevamo intorno che non aveva senso. Tutta la dura scuola di vita che avevo voluto provare sulle mie spalle per arrivare ad una così squallida verità?
Poi, un giorno, lungo il tragitto di ritorno dallo stabilimento, notai in lontananza un personaggio che pian piano acquistava nitidezza. Come in quei giochi di enigmistica c’era qualcosa di fuori posto nella scena che mi si presentava dinnanzi. L’uomo era anziano, magro e rugoso. Mi veniva incontro correndo sul marciapiede. La corsa era secca e regolare. L’età dall’uomo era incompatibile con il ritmo della sua corsa.
La macchina che guidavo e l’uomo s’incrociarono e proseguirono per la loro strada in direzioni opposte. Istintivamente seguì l’uomo con lo sguardo finché non fu più visibile.
Da quel giorno in poi tutti i giorni alla stessa ora si ripresentava la stessa scena. Questo vecchio, in barba all’età, aveva ancora voglia di darsi da fare e dimostrare qualcosa al fottuto mondo. Il tutto aveva qualcosa di surreale, forse un po’ per l’orario che richiamava facilmente un’atmosfera onirica, forse perché, non so come, ma sembrava che quell’uomo avesse iniziato a vivere proprio il giorno in cui lo avevo incontrato la prima volta. Perché le mattine precedenti non lo avevo mai visto?
Iniziai a domandarmi se anche lui aveva la stessa sensazione nei miei confronti. In fin dei conti a quell’orario non è che circolasse molta gente ed era presumibile che anche lui mi avesse in qualche modo notato.
Passò l’inverno, arrivò la primavera che mutò in estate per distendersi poi in un tranquillo autunno.
Il vecchio non ne aveva saltata una. Io d’altro canto trasformai quell’uomo, come mia abitudine, in un’altra delle mie ossessioni. Il vecchio mi affascinava, mi stimolava e mi dava nuova forza per sopportare l’inferno che io stesso mi ero creato. Avevo trovato una distrazione al mio deprecabile incedere verso una morte per troppo “niente”. Se lui alla sua età trovava la forza di fare ciò che faceva anche io dovevo trovarla, e convincermi che quello che facevo avesse un maledetto senso. Avevo bisogno di sentirlo dire, frustato da questi anni di dolente mediocrità dovevo ritrovare fiducia nelle mie scelte. Per anni, nei momenti difficili, mi dicevo che quello che mi ero lasciato alle spalle era solo merda. Un ragionamento che nessuno era riuscito a smontare. Ma mi ripetevo spesso anche che il fallimento ormai conseguito a pieni voti, forse non era una condizione in cui volevo soffermarmi per tutta la vita. Ci doveva essere qualcos’altro che mi era sfuggito.

…Un martedì come tanti, mi svegliai alla solita ora, mi recai al lavoro, feci quello che c’era da fare, tornai a casa. Qualcosa stonava maledettamente, ci misi poco a capire cosa non andava: il vecchio. Non c’era. Fui subito certo che qualcosa doveva essere successo. I miei sospetti ebbero conferma il giorno seguente quando un triste manifesto gemeva su un muro all’angolo di una strada. Diceva pressappoco che un tale veniva ricordato con profondo affetto e riconoscenza da tutta la famiglia unita a commemorarlo ecc. ecc.
Il vuoto si impadronì del mio stomaco. Tornai a casa senza dirigermi al lavoro, mi scaraventai sul letto ed un sonno profondo senza sogni s’impadronì di me.
Mi svegliai nel cuore della notte. Pioveva. Mi diedi tre o quattro schiaffoni per rianimarmi, calzai una tuta da ginnastica, un paio di scarpe da tennis e mi fiondai all’aperto. La pioggia scrosciava incessante a lavar via strade e palazzi ed io lì sotto bisognoso dello stesso trattamento. Mi misi a correre. Corsi. Corsi più forte. Quella spiacevole sensazione mi rimaneva appiccicata addosso come pece. Ero stato preso in giro. Quell’uomo era apparso dal nulla, aveva fatto breccia nella mia vita ed io mi ero fidato di lui, avevo creduto nella sua forza d’animo, il suo coraggio, vederlo vivere con tale forza un esistenza che volgeva al termine mi aveva fatto stare bene. Ora, che maledetto senso poteva avere la sua morte? A me cosa rimaneva?
Esausto mi accasciai al suolo, sconfitto. Ancora una volta.
La pioggia lentamente si ritirò ed io, come al risveglio da un sogno, mi chiesi cosa facevo lì disteso, per terra, in mezzo alla strada. Quell’eccesso di melodrammaticità non mi apparteneva.
Quando i primi bagliori dell’alba stavano per fare capolinea, tornai a casa tirai fuori tutto ciò che avevo di alcolico in casa e ne abusai fino al mattino seguente.
La sbornia ebbe successo. Quando mi svegliai, nel tardo pomeriggio, avevo sì mal di testa e gola infuocata, ma in compenso mi ero schiarito le idee sul da farsi. Non andai a lavorare. Scesi in strada e vagai alla ricerca di informazioni sul vecchio, sulla data e il luogo del suo funerale. Ottenni quello che cercavo. La funzione sarebbe stata celebrata l’indomani nella parrocchia del quartiere poi, a seguire, la processione verso il vicino cimitero.
Il giorno seguente feci le cose con calma. Prima mi recai al lavoro dove consegnai, con infinito sollievo, ad uno dei direttori la mia lettera di licenziamento. Dopo passai a casa e infilai l’unico vestito lontanamente adatto a certe tristi ricorrenze.
Fui il primo ad arrivare alla parrocchia, mi sistemai in una delle ultime panche della navata centrale e, in silenzio, rimasi lì per tutto il tempo della funzione. Solo questo avevo da donare a quell’uomo che non conoscevo nemmeno. Con tristezza mi resi conto della vacuità delle persone presenti, più che altro vogliose di concludere la faccenda il più in fretta possibile.
Quando tutto fu finito tornai a casa e telefonai ai miei. Era trascorso molto tempo da quando lo avevo fatto l’ultima volta, rimasi a lungo a parlare con loro. Fu bello sapere che mi amavano ancora.
Era ormai sera, preparai il letto per la notte e spogliandomi mi soffermai un poco davanti allo specchio.

…Avevo solo 25 anni.

 

 

berto

 

 

 

Racconti - HOME