Il Dittatore

Fare il dittatore non è così semplice come sembra alla Tv. Bisogna compilare un sacco di moduli, e la cosa non finisce lì. Non crediate che rispondere in modo affermativo alla domanda “ti alzi presto la mattina?” sia un punto a vostro favore. Ci vuole ben altro per andare avanti. In fila con me c’erano anche delle donne. Erano truccate in modo pesante e avevano dei seni fuori misura. Non facevano che parlare con tono preoccupato dei loro mariti rimasti soli a casa, erano troppo legate alla famiglia, sarebbero state scartate senza che qualcuno avesse letto i loro moduli. Quando arrivò il mio turno, lasciai il modulo alla segretaria e me ne tornai a casa. Anch’io ho una famiglia. Siamo in quattro. Io, mia moglie e due figli. Un giorno o l’altro dovrò dirgli tutto.
E’ sempre stato un mio sogno quello del dittatore. Passavo ore alla Tv a vedere documentari storici sui dittatori del Novecento. Il mio preferito era “Storia dei piccoli tiranni”. Fu davvero un peccato quando lo tagliarono, alla centesima puntata.
Se non guardavo la Tv giocavo con soldatini. Quando finivo coi soldatini passavo ai dirottamenti dei trenini. Era un vero spasso, poi un giorno, mio padre mi ordinò di trovarmi un lavoro. Fui contento di eseguire gli ordini.
Facevo vari lavoretti e nel tempo libero mi davo alla lettura. Se inizi col libro sbagliato, o smetti di leggere o inizi a farti delle cattive idee. Io presi la seconda strada.
A tre mesi da quella fila, ricevetti una telefonata. Ero stato scelto per una prova. La mia famiglia era ancora all’oscuro di tutto e ci rimase. Dissi loro che mi avevano affidato un incarico di lavoro e dovevo partire immediatamente. Nessuno ebbe niente da obbiettare.
La mia destinazione era Marajò, in Brasile. La più vasta delle isole deltizie allo sbocco del Rio delle Amazzoni nell’ Oceano Atlantico. Bassa, acquitrinosa e ricoperta dalla foresta pluviale. Legname, caucciù. Allevamento. Questo era tutto quello che dovevo sapere.
Misi piede in quel posto dopo sei giorni di viaggio, nel pieno della salute.
Perché proprio Marajò? Perché no, fu la risposta dei responsabili del programma “Vediamo se ce la può fare come dittatore”.
Un vero dittatore non sa che farsene di una sveglia, non sa che farsene di un giradischi, non sa che farsene di un paio di scarpe da tennis. Un vero dittatore è in orario quando lo decide lui, non ha tempo per la musica e soprattutto indossa degli stivali. Trovai la cosa divertente, quindi mi assoggettai ai loro ordini.
Passai mesi indimenticabili. Imparai molto e presi anche diverse malattie. La mia pagella non era niente male. Buona condotta. Buon autoritarismo. Buona predisposizione ai rastrellamenti. Congeniale al totalitarismo. Su questo punto c’era una nota che diceva “Il soggetto è predisposto alle ingerenze nella vita pubblica e anche in alcuni aspetti della vita privata dei cittadini”. Mi venne da sorridere.
La sera ero l’unico che giocava a biliardino con quelli del luogo, il resto del gruppo preferiva non mischiarsi con loro. Questo difetto non era sfuggito nemmeno ai miei addestratori.
Ero poco incline ai discorsi pubblici. Non sono mai stato un oratore. Su questo dovevo lavorare seriamente. Ero terrorizzato dalla folla e questo, un vero dittatore, non poteva permetterselo.
Marajò non dava quel tipo di folla che un dittatore che si rispetti debba richiamare, vista l’esiguità delle persone. Nelle sere di festa si arrivava al massimo a una cinquantina di persone, abbastanza per spaventarmi.
Un altro mio limite che non era saltato fuori, era quello di non amare le riforme. Io lo sapevo che un vero tiranno deve fare il gioco delle tre carte con le riforme. Eppure non me la sentivo di riformare nessuno. Io non ci vedevo niente da cambiare nell’ordinamento politico e sociale esistente. Non avevo nemmeno problemi per il posto macchina. Se proprio non volevo riformare avrei dovuto almeno seguire il primo comandamento del vero Dittatore:“La volontà e il capriccio del despota sono legge per tutti”.
Non mi veniva nulla in mente in proposito. Possibile che non avessi dei capricci? Incominciavo a capire che quella non era più la mia strada, ma continuai a prestarmi al gioco.
Passarono due mesi e avevo la sensazione che volessero estromettermi dal programma. Ero troppo molle e continuavo a balbettare in pubblico. Più che un despota, stavo diventando un turista rispettoso dell’ambiente. Non mi riusciva di trattare i sottoposti con durezza. Per rimediare dovevo trovarmi un giubbotto, una divisa, qualunque cosa, e presentarmi sempre con quella addosso. “Se non ti riconoscono per quello che dici ti riconosceranno per come sei vestito”. Eseguii gli ordini e non mi cambiai mai d’abito.
Ma non mi salvai lo stesso. Mi rispedirono a casa non prima di avermi consegnato il patentino come “Tiranno da ufficio”. Equivaleva a una sconfitta, così rifiutai il riconoscimento. Il mio trainer si limitò a dirmi che come minimo avrei dovuto crearmi un esercito personale. Io non solo non avevo un esercito, ma non trovai nessuno a salutarmi alla partenza.
Qualcuno però mi stava spiando. Mi fermarono giusto in tempo. Erano rimasti colpiti dalla mia aria vittimista, faceva tanto “dittatore in declino”. Se mi fossi suicidato sarei stato nominato “Dittatore a vita”. Lo presi come un complimento e scelsi di rientrare nel gruppo. Disfeci la valigia e riabbracciai i miei inferiori.
Mi fecero vedere delle videocassette della C.I.A.. Ne rimasi impressionato, non tanto per il contenuto quanto per la regia.
Nel giro di una settimana avvenne il miracoloso cambiamento. Ero insolitamente energico, avevo smesso di farfugliare in pubblico e non riuscivo a trattenermi dall’umiliare i miei sottoposti. Nulla poteva fermarmi ad eccezione della dissenteria. Mi inventai un nome. Feci circolare nell’opinione pubblica un soprannome, come il regolamento prevedeva. Iniziai a impartire ordini scriteriati e mi accaparrai il benestare della stampa locale grazie a una partita di caucciù. Marajò conobbe un terrore che non aveva mai conosciuto. L’odore della corruzione sostituì quello della foresta. E ce ne volle per coprire un simile olezzo. Bandii l’alcool, il gioco e la canna da zucchero. Imposi un regime forzato di ginnastica mattutina, corsa sul posto pomeridiana e visione serale della Tv austriaca.
Non ero mai stato così malvagio. Ero pronto per l’ultimo passo. Seguire un vero dittatore sul campo. Di posti al mondo ce ne erano molti. Mi sudavano le mani dall’emozione.
Se non mi avessero fatto saltare in aria sul mio aereo personale, manco fossi stato un tiranno vero, ora, di sicuro, il mio sogno si sarebbe potuto avverare.
Il biglietto che avevo scritto arrivò a casa due giorni dopo la mia morte.
“Non so se per voi la mia partenza sia stata un male o un bene, ma il giorno che tornerò da voi come dittatore vi garantisco sarete orgogliosi di vostro padre. Saluti dal vostro capo”.

 

paolo

 

 

 

Racconti - HOME