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A tredici anni, impara a fumare sigari e a sedurre fanciulle
sotto la guida del nonno bestemmiatore. Qualche tempo dopo,
fa il fattorino d'albergo,e arrotonda lo stipendio spacciando
alcolici. Poi congela per il freddo e trema di paura come guardiano
di un oleodotto. Fa imbestialire gli insegnanti, frega gli uomini
della mafia, e per poco non si fa ammazzare da un vice sceriffo.
Infine, a un dato punto della sue vita, diventa uno dei più
grandi autori di genere che l'America abbia mai conosciuto...
Andando a rimestare fra i suoi ricordi, Jim Thompson scrive
un'autobiografia che è una rilettura cinica dell'epopea
americana, nonché una sorta di Huckleberry Finn del romanzo
noir. Un testo appassionante come un romanzo, reso con un’ironia
tagliente, senza sentimentalismi, senza pietà, con quella
giusta dose di cinismo che raggela e diverte il lettore, come
nelle sue opere più conosciute.
***
l’inizio…
1.
I miei primi ricordi sono i pizzicotti che
ho ricevuto. Non in senso metaforico, ma letterale. Ero un bambino
goffo, con la testa grossa, incline alla balbuzie e a farmi
lo sgambetto da solo. Mia sorella Maxine, anche se più
piccola di me, era svelta, nei movimenti come nel pensiero,
disinvolta ed estremamente agile. Quando le mie azioni o il
mio aspetto la irritavano - cosa che sembrava accadere quasi
di continuo - mi dava un pizzicotto. Quando non riuscivo a rispondere
abbastanza rapidamente ai suoi ordini, mi dava un pizzicotto.
La metafora “morbida come la pelle di un bambino”
per me è sempre stata priva di significato. La mia pelle
da infante sembrava sempre che fosse stata martoriata con le
pinze per il carbone.
Un giorno, ci eravamo da poco trasferiti in una zona particolarmente
esecrabile di Oklahoma City in seguito a un tracollo delle fortune
della famiglia Thompson, Maxine vide due bambini neri che tornavano
a casa dal negozio di alimentari. Avevano un bottiglione di
latte. Facendomi scendere dai gradini con un rapido pizzicotto,
Maxine mi trascinò sul marciapiede e accostò i
due.
Non avrebbero voluto essere bianchi? Chiese. Be', in cambio
del loro latte, lei era pronta ad attuare la trasfigurazione.
Lo aveva già fatto con me; e io ero stato più
nero di quanto lo fossero loro. Molto, molto più nero...
e adesso, che mi guardassero.
I bambini erano un po' dubbiosi ma, avendo ricevuto un pizzicotto,
giurai che Maxine stava dicendo la pura verità. E, dopo
aver ricevuto un altro pizzicotto, corsi in cucina per recuperare
gli attrezzi - una saponetta e uno spazzolone - con cui doveva
essere effettuata la trasfigurazione. Su istigazione di Maxine,
guidai i pazienti verso l'idrante sul retro del giardino e iniziai
a strofinarli. Maxine si portò il latte nel cesso (era
quel tipo di quartiere), ne bevve quanto più poté
e fece cadere il bottiglione nel buco.
Poi entrò in casa e si mise a urlare appena varcata la
soglia. Mamma uscì di corsa, con Maxine che la precedeva.
Fingendo di volermi allontanare dai due neri stupiti, mi diede
diversi energici pizzicotti, facendo si che, quando mamma raggiunse
il luogo del misfatto, io stessi gridando cose senza senso.
Mamma diede ai due bambini i soldi per un quarto di latte fresco,
li asciugò e mi trascinò in casa, urlando di non
sapere cosa mi avrebbe fatto. Con un risolino odioso, Maxine
rimase in giardino, libera di perseguire i suoi disegni diabolici.
Essendo molto giovane, non fui in grado di spiegare l'accaduto
nel breve lasso di tempo in cui una spiegazione avrebbe potuto
avere una qualche utilità. Ne ricavai comunque un'impressione,
molto nebulosa al tempo, ma che in seguito si espanse e prese
una forma più definita.
Mi sarei preso la colpa qualsiasi cosa avessi fatto. Tanto valeva
cercare anche di divertirsi.
2.
Sono sempre stato una frana in fatto di amicizia.
In cambio di una parola amichevole ero pronto a rinunciare alla
casacca Buster Brown che indossavo di solito. Durante i miei
primi anni di vita, mio padre viaggiava molto per l'Oklahoma
e noi di rado rimanevamo nella stessa città per più
di un mese, non abbastanza perché io mi potessi abituare
a una scuola estranea, e però troppo perché potessi
rimanerne fuori del tutto.
Proprio quando stavo per ambientarmi, facevamo i bagagli e ce
ne andavamo.
Così bramavo l'amicizia sopra ogni cosa, e malgrado tutte
le fregature che mi sono preso non ho mai smesso di abboccare
all'amo che mi veniva messo davanti agli occhi. A quei tempi
c'era un gioco chiamato push-over. Un ragazzo veniva da te,
ti metteva un braccio sulle spalle e iniziava a parlare. Poi,
proprio quando tu magari cominciavi a dargli un po' di confidenza,
un altro ragazzo ti si inginocchiava di nascosto alle spalle
mentre il primo ti cacciava una spinta che ti faceva cadere
a gambe all'aria.
Non so quante volte sono caduto per questo gioco, e altri del
genere, prima di capire che quella che all'inizio aveva la parvenza
di un'amicizia poteva rivelarsi qualcosa di completamente diverso.
Non mi è mai piaciuta l'idea e l'ho combattuta con tutte
le mie forze. E più avanti, nel corso della mia vita,
quasi come fosse un dovere, mi sono sempre sottratto alle profferte
di gentilezza chiedendone freddamente la ragione.
Con il tempo, mio padre si stabili più o meno in modo
permanente a Oklahoma City, dove divenne il socio avvocato di
Logan Billingsley, fratello di Sherman, proprietario dello Stork
Club. Nei priori giorni in Oklahoma, Papà era stato un
poliziotto e aveva salvato Logan dal linciaggio. Non so nulla
in merito alla questione, ma so per certo che diventarono buoni
amici e, in seguito, soci.
Logan aveva un figlio di nome Glenn, il monello più malefico
che sia mai esistito. So che adesso gestisce un pretenzioso
ristorante a Hollywood, ma questo non c'entra con la nostra
storia.
La vita di Glenn sembrava governata da un incantesimo. Un sabato
pomeriggio, mentre si stava sporgendo dalla finestra dell'ufficio,
cadde e fece un volo di quattro piani cavandosela con appena
un graffio. Atterrò sulla tenda da sole della drogheria
a piano terra, la strappò e finì sulla carrozzina
di un bambino, facendola a pezzi. Fortunatamente, il veicolo
in quel momento non ospitava il suo naturale occupante. E lui,
come dicevo, non si fece nulla.
Vivevamo nella parte occidentale della città, nelle vicinanze
della Willard School, che a quei tempi era una zona molto difficile.
Rientravo a casa la notte sprovvisto di ampi pezzi della mia
persona e del mio abbigliamento. Glenn tornava sempre integro
e sorridente, e in genere portava con sé una quantità
di oggetti di valore che il mattino erano appartenuti ad altri
proprietari.
Un giorno, alcuni ragazzi più grandi lo fecero cadere
in un tombino e richiusero il buco. La maggior parte dei suoi
coetanei sarebbe morta di paura, ma non Glenn. Lui si mise a
vagare per le arterie della fogna, raccogliendo dalla melma
lungo il percorso una ragguardevole quantità di monetine.
Dopo qualche ora particolarmente redditizia, uscì passando
attraverso un altro tombino. Telefonò alla polizia, riferendo
che un suo amico era stato buttato nelle fogne da un certo gruppo
di ragazzi, fece i loro nomi. Poi, senza dare il proprio, riattaccò
e si avviò in città.
I poliziotti fermarono i ragazzi a scuola e strapparono immediatamente
la confessione. La vittima fu identificata come Glenn. Si diede
il via alla ricerca del suo corpo per tutta la rete fognaria
e i giovani criminali furono portati alla stazione di polizia,
prima di scontare un bel periodo in riformatorio.
Il pomeriggio tardi Glenn si presentò in commissariato
e fu salutato dai poliziotti, al colmo del sollievo e dell'ammirazione,
come un vero e proprio eroe. Lo portarono a casa dove fu messo
a letto, apparentemente troppo scioccato dall'esperienza per
mangiare. In realtà, non c'era nulla che non andasse
in lui eccetto un lieve mal di stomaco e, forse, un po' di stanchezza
agli occhi. Era infatti stato in quattro cinema e si era mangiato
svariati dollari di caramelle, gelati e altre prelibatezze.
Dopo quell'esperienza anche i peggiori bulli della scuola si
tennero alla larga da Glenn. Era veleno allo stato puro.
L'ho sempre ammirato.
frammenti
Mi conoscono tutti. Nessuno conosce te. E siamo
soli soletti. Cosa ne pensi di questo fatto, furbone? Ti sei
fatto vedere in giro. Pieno di piscio e di alcool. Cosa pensi
che potrebbe fare uno stupido ragazzotto di campagna in un caso
del genere?
Mi fissava, immobile, il sorriso scopriva i denti. Rimasi paralizzato
e senza parole, con un nodo alla bocca dello stomaco. Il vento
sibilava e gemeva attraverso il pozzo. Parlò di nuovo,
come per rispondere a una questione che io stesso avevo sollevato.
- Non ne ho bisogno, - disse. - Non c’è niente
che si possa fare con una pistola che non possa essere fatto
in un modo migliore. Non vedo nulla in giro per cui debba avere
bisogno di una pistola.
Mosse leggermente i piedi. I muscoli delle spalle si gonfiarono.
Prese un paio di guanti di pelle nera dalla tasca e se li infilò
lentamente. Si colpì il palmo di una mano con il pugno
dell'altra.
- Ti dirò una cosa, - disse. - Anzi, un paio. Non c’è
modo di capire cos'è un uomo guardandolo. Non c’è
modo di sapere cosa può fare se ne ha la possibilità.
Pensi che riuscirai a ricordartelo ?
Non ero in grado di parlare, ma mi sforzai di annuire. Il sorriso
e gli occhi tornarono normali.
- Sembri un po' provato, - disse. - Perché non mangi
e bevi qualcosa prima che ce ne andiamo ?
Pagai la multa. Pagai anche il mandato di cattura, la paga del
vice di due giorni e i chilometri che aveva percorso. E potete
star certi che non sollevai obiezioni.
Non ho mai rivisto quel vice, ma non riuscivo a togliermelo
dalla mente. E più ci rimaneva, più grande diventava
l'enigma che presentava. Stava bluffando? Aveva solo intenzione
di spaventare a morte un ragazzino impudente? O era vera l'altra
cosa, quella di cui ero sicuro all'epoca? La mia umiltà
mi aveva salvato dalla morte di cui ero stato minacciato?
E se l'avessi colpito con quel pezzo di legno ? E se lo avessi
sfottuto di più? E se mi fossi spaventato e avessi cercato
di afferrare l'accetta?
Provai a metterlo su carta, di inserirlo in una storia, ma anche
se per me lo era, non riuscivo a farlo sembrare reale. O meglio,
era troppo comune e innocuo, niente di più di un vice
di una piccola cittadina. Messo sulla carta, era solo seriamente
irritato, non un assassino.
L'enigma, naturalmente, non stava tanto in lui quanto in me.
Avevo la tendenza a vedere le cose in bianco e nero, senza sfumature
intermedie. Ero troppo pronto a categorizzare, naturalmente
usando me stesso come punto di riferimento. Il vice si era comportato
prima in un modo, poi in un altro, poi di nuovo nel primo. E
nella mia ignoranza vidi questo come un segno di complessità
invece che di semplicità.
Aveva fatto tutto ciò che la sua razza e il suo background
gli permettevano per essere amabile. Io, non avevo reagito nel
modo giusto, così aveva scelto un'altra tattica. Era
semplice una volta che riuscii a vedere le cose dal suo punto
di vista e non dal mio.
Non sapevo se mi avrebbe ucciso, perché non lo sapeva
nemmeno lui.
Alla fine, quando maturai, riuscii a ricrearlo sulla carta,
l'omicida sardonico del mio quarto romanzo, L'assassino che
e in me. Ma ci misi molto tempo per farlo, quasi trent' anni.
E ancora non me lo sono tolto dalla testa.
***
Stese lungo l'ampio percorso dell'oleodotto,
sempre più sperduto in territori selvatici man mano che
il lavoro procedeva, c'erano svariate centinaia di migliaia
di dollari in equipaggiamento e materiale. C'erano due fossati,
venti generatori elettrici, un escavatore, camion e trattori.
C'erano scorte di petrolio e benzina, pile di gomme, tubi, candele
d'accensione e centinaia di altri accessori.
Il mio lavoro era vigilare su questa roba.
Per tutta la notte camminavo su e giù per le tubature,
attraversando a un certo punto il Pecos. Avevo una lampada a
gasolio a prova di pioggia e un fucile a ripetizione. Le mie
istruzioni alla lettera erano di - sparare a qualsiasi figlio-di-puttana
si facesse vedere e poi magari fargli qualche domanda -.
All'inizio il lavoro mi piaceva abbastanza. Le giornate erano
lunghe e a mezzanotte c'era ancora una sorta di crepuscolo sulla
prateria. In piedi su una macchina scavatrice, potevo vedere
tutto il mio raggio di azione. Dovevo camminare pochissimo e
quando lo facevo potevo sentirmi relativamente sicuro. Riuscivo
a vedere ed evitare i serpenti a sonagli, le tarantole e i centopiedi
di una quarantina di centimetri che consideravano questa area
il loro dominio privato.
***
Tornai a Fort Worth nell'inverno del 1928.
Eccetto per il fatto che Maxine si era sposata, tutto era rimasto
più o meno uguale. Papà non guadagnava praticamente
nulla. La famiglia se la cavava a stento.
Feci richiesta di un lavoro all'hotel e fui seccamente respinto.
I vicedirettori e i capisquadra dei fattorini che conoscevo
se ne erano andati. Il vicedirettore a cui feci domanda non
gradiva ne il mio aspetto né il mio curriculum.
- Non c’è niente per te, - disse bruscamente. -
Hai avuto troppi guai qua in giro. A ogni modo, sei troppo grosso
per fare il fattorino. Uno alto come te dovrebbe lavorare in
miniera.
- Non devo fare per forza il fattorino, - dissi, arrossendo
in volto. - Posso fare qualsiasi lavoro nell'hotel.
- Spiacente.
- Le dico una cosa, - dissi. - Penso che lei sia troppo basso
per fare il vicedirettore.
Sorrise, freddamente, e se ne andò.
Pensavo che si fosse comportato in modo piuttosto cocciuto,
ma non potevo che essere almeno in parte d'accordo con lui sulla
mia altezza. Quando avevo iniziato a lavorare all'hotel ero
abbondantemente sotto il metro e ottanta. Adesso superavo il
metro e novanta. Anche se ero ancora sottopeso, le spalle più
ampie mi davano l'aspetto di un tipo massiccio.
Ero molto consapevole della mia taglia. C'erano pochi altri
lavori che valesse la pena fare nell'hotel, ma non volevo davvero
fare il fattorino. Ero troppo alto. Essere un servo contrastava
spiacevolmente con l'indipendenza indisciplinata degli ultimi
anni.
Ma dovevo rimediare un impiego, e in fretta. Così, incapace
di trovare qualcos' altro, andai a lavorare in una catena di
drogherie.
In teoria la settimana lavorativa era di sole settantaquattro
ore. Dalle sette alle sette nei giorni feriali e dalle sette
alle nove il sabato. La realtà però, era ben altra.
Durante la settimana bisognava arrivare alle sei per preparare
il negozio per l'apertura delle sette e la sera bisognava fermarsi
almeno un'altra ora per pulire e mettere in ordine. Di sabato,
il giorno più affollato, bisognava presentarsi alle cinque
e si era fortunati se si riusciva ad andarsene alle prime ore
di domenica mattina. La domenica, o meglio quello che ne rimaneva,
veniva in genere trascorsa tra riunioni di venditori, rifornimenti
di prodotti e inventari.
La mia paga era di diciotto dollari la settimana. Appresi una
lezione molto importante da questa organizzazione malavitosa,
ovvero che più lungo è lo spazio a disposizione
sul modulo di richiesta, peggiore è il datore di lavoro.
Questa compagnia insisteva per sapere tutto, anche le questioni
più remote che potevano riguardare un potenziale impiegato,
qualsiasi cosa, dal numero di scarpe alle preferenze politiche
e religiose dei parenti.
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