Paco Ignacio Taibo II

 

Te li do io i Tropici
2000 - Marco Troppa Editore pag.448


 

Rivoluzionari e romanzieri attingono alla stessa fonte, in fondo: la mente umana, i sogni, le ossessioni, le perversioni, l’impatto sociale della lotta quotidiana per la sopravvivenza, le frustrazioni, le nevrosi, le situazioni estreme, le paure più segrete, le speranze, le illusioni, le attese, gli incubi, le degenerazioni.

Lei è credente?
No.
Nemmeno io, ma credo nel dio degli atei. E credo che la magia abbia un influsso su quelli che ci credono.


“Dash, credi in Dio?”.
“Fino a quando non aboliranno il divieto di fumare in chiesa continuerò a considerarmi ateo”.

“Sente il peso della figura di suo padre?”
“Dipende se me lo carico bene in spalla”.

Un autore classico è un morto che ha scritto libri.

***

frammenti

Scriviamo con la sensazione scostante che nulla di quanto stiamo imprimendo sulla carta avrà mai il potere di cambiare la storia, nemmeno quella di un destino individuale, eppure allo stesso tempo, con la netta impressione che nell’intricata giungla cittadina di antenne televisive qualcuno ci stia ascoltando e tutto quanto un giorno potrà cambiare.
Scriviamo tronfi della passione logorata, ma non per questo meno ardente, di chi sa di dominare il linguaggio in un paese dominato dalle mode e dall’analfabetismo dell’efficienza; alle fiere del libro ci divertiamo a spargere la voce che sessanta nostri autografi, il libro compreso, si possono battere con uno di Maradona e due di Ronaldo.
Scriviamo spinti dalla vocazione per la volontà, la leggenda, l’utopia, l’umorismo nero, la satira, il melodramma involontario, il realismo accidentale. Scriviamo perché ci sembrerebbe di morire se non potessimo raccontare storie di fate e folletti, gli incubi dell’ultimo dittatore o la descrizione el campo di pallacanestro dopo la partita, e moriremmo davvero se smettessimo di farlo.
Scriviamo con tutta l’anima, con la disperazione di un disgraziato che rischia la vita sull’ultimo tram se non troviamo il tono giusto, se non riusciamo a costruire bene un personaggio secondario o a trovare la parola perfetta per descrivere lo smog della notte quando non ci è possibile vederlo.
Scriviamo perché crediamo nel potere della parola, nella suadente capacità trasformatrice; sappiamo che la letteratura è la più efficace arma di distruzione di neuroni avariati, simile a una grande navicella aliena in orbita nei nostri cervelli; sappiamo che nessuno può rimanere la stessa persona dopo avere letto il Diario di Anna Frank e che un uomo di quarant’anni non può essere razzista se da adolescente è stato un fanatico di Sandokan e di Salgari; sappiamo che laddove Lenin falliva, Robin Hood era sempre invincibile; sappiamo che si rimorchia molto più facilmente con le poesie di Neruda e che il conte di Montecristo è la personificazione del sacrosanto diritto alla vendetta, che da queste parti è diventata lo strumento politico più diffuso.
Scriviamo qui, nel luogo che ci ha scelto e che abbiamo fatto nostro, in questa America Latina ultima riserva di passioni in un pianeta decaffeinato e light. Nemmeno allo stadio terminale di un’infermità mentale scambieremmo la nostra condizione di narratori latinoamericani con il lauto conto in banca di qualche scrittore americano di best seller o di uno stilista modaiolo europeo.
Non abbiamo bisogno di dosi extra di esotismo per essere amati dai nostri lettori, condividiamo già con loro l’amore per soggetti reali o inventati come il Rìo de la Plata al tramonto, la pioggia di Managua, il colore rosso vivo, il pennacchio di Montezuma, le corse dei ragazzini per le strade, i personaggi che si tagliano le vne per amore, le bancarelle di pasti caldi lungo i marciapiedi davanti all’Hospital General, i cortei di protesta che invadono le strade di Caracas, la sensazione che un libro è tanto utile quanto un’amaca nella foresta amazzonica del Perù, l’idea che il sesso è una meravigliosa festa piena di insidie.
Non corriamo il rischio di diventare provinciali. Non c’è ragione per cui, dal nostro sperduto angolo di mondo, dobbiamo rinunciare alla curiosità per l’astrofisica, agli ultimissimi giochino per computer, alle novità del teatro off di Brodway, alle campagne di solidarietà per le popolazioni che muoiono di fame nel Corno d’Oro africano o alle notizie dell’ultima impresa sull’Everest nelle catene dell’Himalaia.
Non chiediamo niente più di quello che già possediamo: la facoltà di scrivere ed essere letti. E così raccontiamo con la stessa rabbia feroce e divertita di chi, solo dopo avere perso tante volte l’aereo, comincia a capire veramente il senso del viaggio.

***

Il DF ( il Distretto Federale) è l’unico protagonista possibile del romanzo neopoliziesco messicano (mi immagino Trujillo che fa da incursore a Tijuana e Hernandez Luna che la spunta a Puebla). Città del Messico è un concentrato di follia, è il cimitero di eleganti della nostra generazione di romanzieri e l’ossessione di tutti gli scrittori neorealisti. Produce più storie in un giorno questa metropoli di quante ne avrebbe potute raccontare Balzac se avesse avuto diverse vite. Dentro la città c’è un condensato di follia e orrore conditi da un’infinità di leggende. E’ una città instabile, pregna di vibrazioni maligne e di spinte solidali. E’ assediata dalla catastrofe e alimentata dalle proteste quotidiane. Ultimamente mi fa penare perché mi sfugge, non riesco a sentirla mia, ad abbracciarla tutta come mi è riuscito altre volte.

***

“Il governo non vacilla e la rivoluzione non è dietro l’angolo, anzi, a dire la verità, non c’è in vista neanche l’ombra di una sommossina, maledizione. Credo di poter affermare che in questo paese, fatta salva qualche rimarchevole eccezione, le masse si sono fatte turlupinare, la classe media se la fa sotto dalla paura e le classi menomate si sono lasciate istupidire dalla propaganda. Morale, rimangono le seguenti tre classi sociali: i figli di buona donna, che hanno cavalcato la situazione e hanno fatto fortuna, quelli che stanno sempre a guardare, che sono la maggioranza, e noi, che siamo una dozzina di poveri stronzi. Noto che la Chiesa guadagna sempre più potere e che dal punto di vista culturale va di moda la tendenza “ spagnoleggiante”. Poi vedo che molti messicani si stanno rincoglionendo rispetto a qualche tempo fa, che la polizia sta migliorando i suoi servizi dal punto di vista tecnologico e che i governi stanno affinando le loro pratiche di tortura. Nella più rosea delle ipotesi, la Resistenza dovrà ingoiare badilate di merda almeno per altri vent’anni. Insomma signori, se ci rivedremo nell’arco dei prossimi tre mesi, sarà per puro caso. che ve ne pare?”.

***


Guidato da questo personaggio e da questa foto, ero così arrivato a Saint-Malo.
Sapevo, ammesso che si possa sapere qualcosa di certo nel mondo misterioso dei riti, che se ci si fa scattare una foto nello stesso posto dove è stata ritratta la persona che più abbiamo amato nella vita, una parte del suo spirito rimane indelebilmente legata a noi. E qui si sbagliavano gli indiani cheyenne nel credere che l'antenato del signor Kodak fosse un ladro di anime.
Il vento ormai spadroneggiava lungo la passeggiata ed era rimasto solo qualche curioso, in lontananza.
La ragazza magra imboccò la rampa indossando uno di quei maglioni di lana bianca che si vedono nei film norvegesi. Le chiesi in spagnolo se poteva scattarmi una foto, aiutandomi con il linguaggio universale dei gesti. A sorpresa mi rispose nella mia stessa lingua.
- Perché vuole una foto proprio lì? E mezz'ora che la vedo girare da queste parti. -
Io mi misi in posizione davanti al muretto di pietre.
- Voglio una foto identica a quella che si fece fare qui un mio zio. -
La ragazza magra sorrise e si allontanò per mettermi a fuoco. Stette un po' a riflettere, poi mi chiese la foto che immaginava avessi con me. La osservò, cercò la posizione giusta e scattò, due volte. Quindi mi restituì la macchina fotografica.
- E tu perché hai voluto nuotare in questo mare di ghiaccio? -
- Durante la guerra, in inverno, mia madre veniva qui a nuotare per dimenticare - disse la ragazza e poi si allontanò, immersa nel suo rito personale.

***

Ilàn, immagino che tu abbia una copia delle domande che hai preparato per l'intervista, quindi qui mi risparmio la fatica di riscriverle.

1. Ho cominciato a scrivere non appena sono riuscito a unire la gambetta della A con la C. Da quando sono entrato in possesso del cosìddetto uso della ragione, ho sentito che la scrittura, anzi l'instancabile esercizio della scrittura, con tanto di foglio bianco e tavolozza delle lettere dell'alfabeto in testa, era il mio destino, la mia gioia e la mia condanna. A undici anni scrivevo le didascalie delle illustrazioni per una rivista e a tredici ho scritto il mio primo racconto. Sono giornalista da quando avevo quindici anni. Lettore maniacale dai cinque in avanti, ho finito il mio primo romanzo, che non è mai stato pubblicato, a venti. Credo che questa passione viscerale sia retaggio della tradizione familiare alimentata dal fratello di mio zio e da mio padre, in base alla quale il mestiere migliore del mondo non è essere trapezista o pompiere (che si piazzano al secondo posto a pari merito), bensì scrittore.

2. Scrivo da mane a sera, a qualsiasi ora, generalmente ascoltando musica; e più è ritmata, meglio è, tipo Santana o Wagner, per intenderci. Il mio unico rituale portafortuna è passare in continuazione da un progetto all'altro. Capita così (come in questo periodo) che mi trovi a lavorare a tre romanzi nello stesso momento in cui ne sto ideando altrettanti e comincio a buttare giù qualche appunto e intanto mi dedico anche a un paio di romanzi brevi, a un saggio storico sugli anarchici messicani degli anni venti, a due o tre inchieste e a una sceneggiatura per un fumetto. Passo continuamente da uno scritto all'altro, quando sento che non so più che cosa dire, cambio argomento. Mi capitano raramente momenti di black out ma quando succede non mi preoccupo, piuttosto prendo tempo, mi metto in viaggio, gioco a Civilisation sul computer o vado a dare una mano a qualche gruppo impegnato in campagne di solidarietà.
3. e 4. Belascoaran è nato per eliminazione. E’ il frutto di una selezione di tratti caratteriali. Dagli scarti è emerso il personaggio: sradicato, esule del ceto medio, curioso fino alla follia, patologicamente caparbio, dotato in abbondanza di un umorismo in salsa messicana, un po' noir, vagamente malinconico. Il suo aspetto deriva dal ricordo di un mio amico antropologo, Sergio Perello, che indossava vestiti di moda quindici anni prima. Belascoaran è così: sempre in ritardo di quindici anni. Poi il suo aspetto fisico si è andato forgiando nei vari romanzi a forza di batoste e ferite: ha perso un occhio, è diventato leggermente zoppo, teme il tempo umido che gli fa cigolare le giunture.

5. Vegliamo reciprocamente l'uno sull'altro. Non l'ho ucciso io, è stata la logica della narrazione, l'ingranaggio degli avvenimenti di un romanzo. Poi, però, i lettori cominciarono a protestare e anch'io, da lettore, sentil che la saga non era conclusa e così è resuscitato. Magia bianca di Città del Messico. Ho dato retta a mia madre che mi aveva detto: “Figliolo, sei proprio scimunito, non avresti mai dovuto ucciderlo” . Ma quando scrivi un romanzo è quest'ultimo che detta legge: il romanzo fa e disfa. E qualche volta ammazza. Non ci sono santi.

6. Le affinità consistono nel carattere solitario dell'eroe, che è una sorta di out sider. E’ votato alla solitudine, fedele agli amici (nel caso di Marlowe), alle sue fisime (nel caso di Hector). Marlowe si ritrova sempre in mezzo a storie razionali, Hector vaga nel caos kafkiano-corrotto di Città del Messico. Una coincidenza: nessuno dei due è sposato.

7. All'esotismo... Non so, credo che i lettori messicani percepiscano i miei romanzi come uno specchio crepato in cui riescono a riconoscersi, uno specchio con un paesaggio noto, decodificabile, come un invito a non arrendersi. Un progetto morale. La luce in fondo a un tunnel. Qualcosa del genere. I lettori stranieri vedranno tutto questo più una città impazzita. La più grande del mondo. Perché non lo chiedi a loro? Quest'anno Belascoaran fa il suo debutto in Bulgaria e in giàppone.

8. Non nasconde, mette in mostra. Il romanzo poliziesco riunisce alcuni aspetti del romanzo d'avventura: il fascino dell'enigma, la possibilità di descrivere città, situazioni estreme o personaggi in situazioni estreme. Un buon romanzo è un buon romanzo e basta, ma se è poliziesco, tanto di guadagnato.

9. Non sono un seguace del dirty realism ma dell'ugly-dirtyfucking-realism di Chester Himes e Jim Thompson all'interno della peggiore tradizione degli story tellers, ma con l'aggiunta (e questo è un dato fondamentale) del contributo messicano del realismo kafkiano, dell'umorismo nero naturalista, con qualche eco della sindrome di re Mida al contrario (tutto quello che tocca la polizia messicana si trasforma in merda).
Mi identifico con la generazione di autori che hanno scritto i loro romanzi negli stessi anni in cui l'ho fatto io e che hanno coltivato il genere del poliziesco per rielaborarlo (che è poi l'unico modo per confrontarsi con un genere letterario), come Vazquez Montalban, Jerome Charyn, J.P. Manchette, Jean-Francois Vilar, Juan Carlos Martelli, Alberto Sperati, Per Wahloo, Robert Littell (Anonimi a bordo), Martin Cruz Smith (l'autore di La porta dei corsieri e di La rosa nera), Roger Simon, Laura Grimaldi, Daniel Chavarria, Thomas Ross (non puoi perderti Gli ipnotisti) e con una corrente di scrittori che ha coltivato il romanzo non di invenzione, come Rodolfo Walsh, Miguel Bonasso, Joseph Wambaugh, Guillermo Thorndyke.
Oltre alla corrente letteraria c’è poi il cinema, con Ridley Scott e il suo Blade Runner o Melville con Frank Costello faccia d'angelo, e i fumetti di Alack Sinner firmati Munoz y Sampayo, che hanno la stessa filosofia di base.

10. Non so.

11. I romanzi che considero precursori del genere neopoliziesco in Messico appartengono ad autori che non si sono mai identificati con questa classificazione, dei "neo" loro malgrado, in sostanza. Mi riferisco a tre romanzi superlativi: Los albaniles (I muratori) di Vicente Lenero, Las muertas (Le morte) e Dos crimenes (Due delitti) di Jorge Ibarguengoitia.

12. e 19. Carlos Fuentes è un punto di riferimento obbligato, sono un suo debitore confesso; non amo particolarmente La cabeza de Hidra (La testa di Idra) che mi sembra un divertissement mal riuscito, ma sono un fanatico del suo L'ombelico della luna. La dimensione della città che Fuentes riesce a rendere mi ha ossessionato prima come lettore, poi come scrittore. Il DF (il Distretto Federale) è l'unico protagonista possibile del romanzo neopoliziesco messicano (mi immagino Trujillo che fa un'incursione a Tijuana e Hernandez Luna che la spunta a Puebla). Città del Messico è un concentrato di follia, è il cimitero di elefanti della nostra generazione di romanzieri è l'ossessione di tutti gli scrittori neorealisti. Produce più storie in un giorno questa metropoli di quante ne avrebbe potute raccontare Balzac se avesse avuto diverse vite. Dentro la città c’è un condensato di follia e orrore conditi da un'infinità di leggende. E’ una città instabile, pregna di vibrazioni maligne e di spinte solidali. E’ assediata dalla catastrofe e alimentata dalle proteste quotidiane. Ultimamente mi fa penare perché mi sfugge, non riesco a sentirla mia, ad abbracciarla tutta come mi è riuscito altre volte.

13. e 18. No. Non devo niente e non voglio avere niente a che fare con quella generazione di parodisti e imitatori. Le loro storie non mi incuriosiscono, per non parlare del loro blando abbordaggio al genere poliziesco o della loro scarsa qualità letteraria. Di tutta la precedente produzione messicana nell'ambito di questo genere letterario l'unica opera che mi interessa è un romanzo, El complot Mongol (Il complotto mongolo) di Bernal che, guarda caso, è stato considerato solo quando la nostra leva di scrittori gli ha dato risalto.

14. Quello è il punto di partenza di qualsiasi trama poliziesca in Messico. L'azione criminale è parte integrante del sistema, è insita nella sua stessa logica. La soluzione del caso, anche quando si tratta di un affare "privato", come può essere una storia di passione tra comuni cittadini, rientra anch'essa in questo ingranaggio. Vivo in una città dove la polizia provoca più crimini di tutta la malavita organizzata e gli emarginati messi assieme; e già questi ultimi basterebbero da soli a formare un esercito.
Luis Gonzalez de Alba, uno dei leader del movimento studentesco del Sessantotto, è rimasto in carcere quattro anni per aver incendiato un tram all'incrocio tra due strade che in realtà non si incontrano, in un punto dove non ci sono mai state nemmeno le rotaie e all'ora esatta in cui stava tenendo un comizio davanti a un migliaio di testimoni all'altro capo della città. Dev'essere sua la frase rimasta famosa: “La polizia e sempre colpevole”.

15. Sono stato contemporaneamente insegnante e romanziere, ma per puro caso. Poi sono stato romanziere e sindacalista, che mi sembra un'accoppiata molto più coerente; ho fatto per un po' il pulitore di tricicli nel reparto giocattoli dei magazzini Gigante. Ho fatto lo storico e il romanziere, ho fatto il mio dovere di cittadino, il giornalista e lo scrittore. Adesso credo di essere un po' tutte queste cose insieme.

16. e 17. La presenza di Cortazar: non saprei (anche se mi hanno fatto impazzire i suoi romanzi brevi). Gli altri scrittori del boom del romanzo sudamericano? Mi hanno influenzato poco. Mi ha appassionato il primo Vargas Llosa, i suoi primi cinque romanzi. Mi sento più contagiato dalla seconda generazione, quella del postboom, quella dei miei contemporanei: Skarmeta, Soriano, Scorza, Galeano, Jesus Diaz. Nei loro romanzi emerge con forza il gusto voluttuoso per la narrazione. Fuentes dice che la sola terra per uno scrittore, la sua sola patria è la parola; io credo che la sola patria per uno scrittore sia la storia, che abbia o meno l'iniziale maiuscola.

20. Un autore classico è un morto che ha scritto libri. Oggi come oggi, anche io ho dovuto rassegnarmi a essere considerato uno dei fondatori del genere neopoliziesco latinoamericano. Ma è un'etichetta che mi staccherei volentieri di dosso e butterei dritta dritta nel cesso. Il museo dei grandi uomini di lettere del Messico è pieno di autori ancora viventi che hanno già scritto la loro opera omnia e, sinceramente, non mi trovo a mio agio in loro compagnia.

***

«E se ci inventassimo una religione?» bisbigliò Maschera Azteca al Dottor Nebbia durante la settantatreesima seduta del Comando unico di resistenza, ovvero in occasione di una bevuta di ginger ale davanti alla porta di uno dei bagni dell'agenzia di pompe funebri Tangassi, sede non abituale, ma abbastanza sfruttata, dei loro incontri.
«Badate a moltiplicarvi, ecco dove sta la chiave di tutto. »
«Una religione con Benito Juarez nei panni dell'arcangelo, qualche atleta di lotta libera stile Blue Demon e la Vergine di Guadalupe come genitori, la Malinche, Hernan Cones e la cavalla di Pancho Villa sullo sfondo. Sincretismo puro di origine controllata.»
«Intende per caso scaricare su di me la responsabilità di inventare una nuova religione, caro collega? E un affare rischioso, uno fa per inventare una religione e si ritrova papa della sua Chiesa. Francamente spiacevole. Perché non ci pensa lei da solo? Tra le molteplici qualità che la caratterizzano, se non vado errato c’è anche una laurea in antropologia. Corre voce che lei da piccolo fosse un bambino prodigio.»
Maschera Azteca si accese una sigaretta e rigettò l'idea sbuffando in direzione del cielo. Gli prudeva una mano e se la grattò distrattamente. Dentro l'agenzia stavano vegliando una donna morta di ipoglicemia. Il Dottor Nebbia salutò con un cenno del capo un folio gruppo di parenti che in quella stavano entrando nella camera ardente. Per l'anonimato, questo è il momento migliore. Nessuno si sogna di chiederti quando hai conosciuto il morto. Nessuno ti viene a chiedere se sei legato a lui da legami di parentela o di usura, ammesso che di legami tu ne abbia.
«Insisto, la nostra forza risiede nella molteplicità. Siccome non siamo in tanti, occorre sdoppiarci, moltiplicarci» disse il Dottor Nebbia, che aveva inquadrato la questione da un punto di vista prettamente teorico.
Non e più così, doc, la mia schizofrenia non scalpita più come una volta. Negli ultimi tempi, sempre più spesso, mi viene voglia di essere una persona normale. Lei si esalta perché ha una forte componente schizofrenica nella sua natura.
«Dal momento che siamo solo in due, dobbiamo fare in modo di essere tanti, collega» esagerò il Dottore, forte della sua esperienza e indifferente alle moine del suo compagno. Si grattò ancora la mano.
«Io sto impersonando una dozzina di personalità diverse, lei che ha una passione speciale per Maschera Azteca per lo meno dovrebbe moltiplicare le sue imprese. Non ha provato a essere in due posti nello stesso tempo? »
Maschera Azteca sbuffò. Era un incarico molto gravoso rappresentare metà della direzione della Resistenza con un socio rompiballe come il suo. Il Dottor Nebbia non disse nulla, anche per lui era una gran rottura essere l'altra metà. Si consolavano al pensiero di non essere la totalità del movimento. Il paese era troppo grande per una persona sola, e per giunta si trattava di un paese con una media elevatissima di figli di buona donna per metro quadrato.

 

***

I fantastici odori della vita


1) Che cosa succede, Marcial?

Da Chihuahua a Ciudad Juarez, per tutta la fottutissima strada, le mani gli presero un odore di cadavere, puzzavano di morte. Con i coglioni giratissimi, se le cosparse di colonia ai fiori d'arancio comprata da Sanborn's, se le lavò con tequila La Herradura e, colto dalla disperazione, ci pisciò sopra, nei paraggi della città più brutta del Nord del Messico: Villa Ahumada.
La cosa peggiore, però, era che di morti non c’era neanche l'ombra. Sentendosi a disagio, pur essendo consapevole che fossero le mani, si fermò a un distributore in mezzo al deserto, cercò nel portaoggetti un ipotetico gatto morto, sollevò i sedili anteriori e arrivò ad aprire il portabagagli della Datsun, solo per scoprire quello che era ovvio: era completamente vuoto.
Fece rapporto al suo caposquadra guardandosi bene dal dirgli la verità. In particolare evitò la faccenda delle mani appestate, perché avrebbe pensato che si fosse trasformato in un povero finocchio, che viveva nel terrore e che pertanto, come poliziotto della judicial, doveva essere assolutamente rimpiazzato.
Il capo lo squadrò dalla testa alla punta dei piedi: il berretto dei Dodgers e il ciuffo arruffato, scendendo via via sul gilet trapuntato, la cintura dalla grossa fibbia e giù fino ai Camperos, e poi lo spedì da un proprietario di campi coltivati a foraggio, per controllare i numeri di serie delle trebbiatrici, perché quasi certamente le aveva comprate da un trafficante nuovo, fuori dal giro.
Marcial non dormiva da più di due giorni a causa di un lavoro che non aveva dato buoni risultati, era ossessionato dallo strano odore che emanavano le sue mani e pertanto in quella storia partì con il piede sbagliato. Anziché controllare i numeri di serie, accusò immediatamente il fattore di utilizzare le trebbiatrici per raccogliere marijuana, seguendo la diffusa pratica di incolpare e poi controllare. Si mise a sbraitare, spaccò una brocca di agua de jamaica, scaraventò in terra una padella di tacos dorati, con il calcio della pistola ruppe la mandibola alla moglie del fattore perché protestava e minacciò di ammazzare i due ragazzi se il padre non gli diceva dove si trovava la marijuana. Uno dei ragazzi si cagò addosso, il padre tentò di infilzare Martial con un coltello da cucina e questi gli fece partire la testa con un colpo di pistola... Insomma, un fottuto disastro.
Sulla via del ritorno le mani continuavano a puzzare di cadavere. Fece un salto negli uffici della polizia federale ma il capo non c’era, e dovettero notare la sua faccia da zombie, perché lo mandarono a dormire. Nell'Hotel Sarita, nella zona rossa di Chihuahua dove viveva da una settimana, passò la prima metà della notte a fregarsi i palmi delle mani con Più Lindo, Pulito al limone e Lavamatic, ma non ci fu modo. Gli effluvi dei detergenti lo impregnarono peggio di una bottiglia di brandy. Era da molto che non si sentiva tanto ubriaco e il letto ondeggiava da un lato e dall'altro. Un Cristo con il manto rosa lo fissava dalla parete. Si agitava tanto che in breve lo classificò come il Cristo trapezista. Alle quattro di mattina, mentre vomitava, gli parve di udire che alla tele parlassero di lui, lo chiamavano per nome ("imperatore romano pederasta che..."), in un programma gringo di concorsi per insonni. La cosa lo terrorizzò ancora di più.
Fece colazione con il capo a Las Cazuelas, uova alla ranchera per il capo e tre caffè neri per lui, mentre faceva rapporto sulla puttanata che aveva combinato nella casa del fattore, presunto proprietario di trebbiatrici dei marijuaneros, che tale non era, ma lo aveva lasciato comunque stecchito in quel di Ojinaga.
Il capo gli spiegò pazientemente che a volte le cose funzionano bene, altre volte no. Proprio così, a volte la va, a volte la spacca. E nel bel mezzo della conversazione gli domandò: -Che hai, cagasotto, da annusarti tanto le mani? Ti puzzano di merda o cosa? - .
Per cambiare argomento, Marcial si offrì di fare un lavoretto in un quartiere residenziale appena in periferia, dove ti gelavano anche i peli del culo per il cazzutissimo freddo, e di farci alcune ronde notturne, qualche turno di guardia per poter incontrare un certo Demetrio, di cui si vociferava che fosse un fratellastro del Ronas, sulle cui spalle pendeva un ordine di cattura per l'omicidio di un poliziotto a Nogales. Un lavoro notturno che nessuno voleva fare. Il capo lo guardò di sbieco, sospettoso.
Disperato, Marcial Cirules Marulan, agente della polizia federale, trentacinque anni, figlio di Elvira e di Gaston, nativo di Tepic, Nayarit, divorziato, si fermò a un distributore all'inizio di avenida Revolucion e si frizionò le mani con la benzina della pompa. Lanciò un'occhiata tale al benzinaio da farlo cagare sotto e non fu costretto nemmeno a proferire parola. Si strofinò le mani e poi se le pulì ben bene con uno straccio che gli porse un ragazzetto.
Diede mille pesos al marmocchio per lo straccio, ma l'odore era sempre lì, così fece scattare l'accendino d'oro che aveva sottratto al cadavere di un uomo morto durante una rapina e, anziché fumarsi una Marlboro, si appicco il fuoco alla mano sinistra. La fiammata non fu granché. Lo straccio aveva assorbito buona parte della benzina.
Un'ambulanza della Croce rossa lo raccolse dal pavimento del distributore, mezz'ora più tardi. Non solo aveva la mano ustionata, ma anche la clavicola sinistra e due costole fratturate, perché mentre era steso in terra a ululare per il dolore alla mano gli si era accostato uno stronzo, che non era riuscito a riconoscere, ma che di sicuro aveva un conto in sospeso con lui, e che gli aveva rifilato un bel mucchio di pedate nella schiena.
Al Seguro Social gli diedero venticinque giorni di infortunio sul lavoro e il suo capo non voleva nemmeno parlargli quando si presento a fare rapporto. Gli disse solo: - Levati dalle palle, stronzo. Non guardarmi nemmeno, coglione -.
Da lì tutta una serie di nomignoli che gli affibbiò la vox populi: il Mano santa, il Mano negra, la Manina morta, e lo prendevano per il culo insinuando che avesse cercato di spegnere la fiammata dalla bocca di un mangiafuoco. Per il resto non cambiò nulla. Era piuttosto risentito per il fatto che adesso le mani gli puzzavano di cadavere, di merda e di marcio contemporaneamente. Se ne andava sempre in giro con un inalatore appeso alle narici, raccontando di avere l'asma.


2) La strega

Se la televisione a casa sua era perennemente accesa, era solo per sconfiggere la solitudine, non per scongiurare le paure. Lei non credeva a cose del genere. Non sprecava molta elettricità. Come le avevano raccontato alla banca, consumavano più energia un fornello elettrico, un frigorifero che non fosse ben chiuso, una stufetta elettrica.
Non le interessava il canale. Dopo alcuni mesi, stufa delle facce dei conduttori dei telegiornali, delle serie a puntate già trasmesse, delle comiche, delle telenovelas, non faceva altro che sintonizzarsi sul canale successivo. Non le importava nemmeno di cosa parlassero. Teneva il televisore acceso con il volume basso per non disturbare i vicini, soprattutto la notte.
E allora, si domandava: "Se la voglio per riempire la solitudine, perché la lascio accesa anche quando sono fuori? Ecco perché: per sconfiggere la solitudine quando non ci sono, così ce n'è di meno quando rientro" si rispondeva.
Ma non era per gli scongiuri che il televisore era perennemente acceso. Per fare fatture servivano immagini immobili: disegni, pitture, fotografie, ritagli di giornale, atti di nascita, diplomi scolastici. O almeno, a lei servivano cose del genere, non poteva operare con oggetti in movimento.
Helena era cassiera in una banca e il sabato e la domenica lavorava in un albergo come baby-sitter dei figli dei gringos, così i genitori potevano uscire a far baldoria. Questo la trascinava in mezzo a crisi e disamori. La stregoneria era, come dire, un passatempo, una distrazione.
E non poteva fare più di tante fatture in una sola volta, doveva concentrarsi, impadronirsene, assorbirle. Ultimainente, benché ne avesse in corso solo quattro, una non le stava riuscendo bene. C’era la fattura per far perdere la voce a un cane, quella per sedurre il fratello del direttore, quella del poliziotto a cui dovevano puzzare le mani di cadavere e quella per far vincere molti soldi a dona Elisa, del negozio all'angolo.
Probabilmente l'ultima non le riusciva perché era astratta, ambigua, come si fa, infatti, a vincere molti soldi? Stava pensando di trasformarla in un'altra, per esempio una per cui tutti quelli che entrassero nel negozio pagassero la vecchia con biglietti da diecimila, pensando che fossero da cinquemila, ma c’era sempre il rischio che dona Elisa glielo facesse notare e restituisse il resto giusto.
C’era anche il problema della precisione. Il cane era rimasto muto per un po', ma poi aveva cominciato a belare come un agnellino, e il fratello del direttore una volta si era aperto la patta davanti a lei, e ci era voluto un casino di tempo per convincerlo che non si poteva scopare la cassiera di un istituto bancario serio alle undici di mattina, nella succursale Reforma del Banco Internacional de Chihuahua, con cinquanta possibili spettatori a far da pubblico. La faccenda del poliziotto sembrava andare per il verso giusto, perché il tizio si presentava in banca con i guanti e a ogni
pie sospinto si copriva una mano con l'altra e si grattava.
Se funzionava, perché il nano voleva cambiare?

3) I progetti del nano

- Puo fare in modo che gli altri sentano l'odore che sente lui? Che gli altri lo annusino e si sentano male? Anche da lontano - 'domando il Nano.
Non saprei, aspetta... Credo di no. No, non posso rispose Helena.
- Lo può sentire solo lui... meglio così, no? Come può eliminare qualcosa che sente solo lui? Che cosa può farci? Andare dal medico e dirgli: "Senta come mi puzzano di cadavere le mani, senta". L'altro annusa, e niente...-
Helena si stava pettinando la lunga chioma nera. Quando non portava gli occhiali spessi un dito era stupenda, una bellezza. "Perché non si cura la miopia? A Cuba la operano. Oppure si faccia una magia" si disse il nano osservando il pettine che saliva e scendeva, scivolando sino alle spalle.
- Sei una strega di seconda scelta - , disse il nano.
Helena intuì dove volesse andare a parare e rispose ancora, come aveva già fatto mille altre volte, alla domanda sottintesa: - No, non posso farti crescere. Posso far si che gli altri ti vedano più alto... Non so, dieci centimetri, dodici al massimo - .
- Non serve.-
Helena si guardò allo specchio e sorrise.


4) Calma, Marcial

Nel cuore della notte l'odore sembrava sprigionarsi dalle sue mani e diffondersi per la stanza, impregnando le pareti, la biancheria del letto, lo schermo del televisore. All'alba l'odore diminuiva un tantino e Marcial poteva dormire per un po'.
Chi, tra le sue vittime, gli aveva lasciato il proprio odore addosso? Si domandava di mattina, disperato. Aveva ucciso una dozzina di esseri umani, al massimo, contando quelli morti senza lasciare resti, quelli morti una settimana dopo, lontano da lui, per una pallottola in una gamba, dissanguati in mezzo alla sierra di Chihuahua. Aveva ammazzato tre donne giovani e una vecchia, aveva ucciso un indio tarahumara e il direttore di un caseificio. Non aveva ucciso per il gusto di farlo, perché solo un bastardo ammazza di tanto in tanto per dimostrare di poterlo fare, solo per conservare la fama che si è fatto. Aveva ucciso in risse di ubriachi e in lavori più o meno sporchi della polizia. Aveva ucciso dietro incarico la banda rivale di un narcotrafficante e aveva ucciso accidentalmente. Era il suo lavoro, no? Allora perché cazzo uno dei morti gli stava dietro con quell'odore di merda, per mettergliela in culo? Era stato un caso, come giocare alla roulette. La vittima avrebbe potuto essere lui, no?
Quando il venerdì si presentò dal suo capo, dopo un fine settimana di paure vissute in solitudine, aveva gli occhi gonfi, un forte tremito alle mani e uno sguardo sfuggente.
«Che cazzo ti succede, Marcial? » domandò il capo osservandolo con attenzione.
Marcial si domandò se l'altro non avesse lo stesso problema e se ci avesse già fatto l'abitudine, perché quel figlio di puttana aveva più omicidi di lui sul groppone, aveva commesso puttanate di ogni genere, molte più di lui, era una vita che faceva porcate, molte più di quante ne avesse fatte lui. Sta a vedere che anche il capo puzzava di cadavere, ma ci si era già abituato.
Fiutò con cautela.
«Che cazzo hai da annusarmi, coglione? Non ti bucherai mica, eh stronzo? Ti sei fatto di qualche merdata? »
Marcial scosse la testa.
Ho solo un po' di catarro, ho preso un'influenza di merda, che bastona per bene.
«Se continui a comportarti da fuori di testa, ti caccio, ragazzo» disse il capo. Poi lo fissò attentamente, per decidere se si fidava ancora di lui.
- Adesso fili a sorvegliarmi Motel Luna e se vedi questo tizio, lo arresti - disse buttando una foto sul tavolo.
- Non denunciarlo, limitati a portarlo qui. E’ un tizio che deve dei soldi a un amico di un amico... -

Il nano era fermo sulla porta dell'ufficio a fare quello che faceva di solito, lucidare stivali e scarpe, quando Marcial gli passò accanto e gli rifilò una pedata nella schiena. Il nano gli sorrise.
Marcial ronzò nei paraggi dell'Hotel Luna in attesa del tipo, un uomo alto, con i capelli bianchi, elegante. Dopo avere gironzolato per il parcheggio, entrò e finalmente lo scoprì al ristorante, a fare colazione con uova e carne tritata. Andò dritto verso di lui.
- Permette, dottore, che le faccia compagnia?- disse mostrando il distintivo.
L'altro lo guardò fisso.
- Dì al tuo capo che farò un salto da lui quando lo decido io. Che non mi rompa i coglioni.-
Dalle mani che Marcial teneva prudentemente affondate nelle tasche emanava un odore fortissimo. Forse fu per questo che, anziché discuterne, tolse di tasca la mano destra e mollò un terribile sberlone all'elemento. La testa ciondolò e il tizio sputò un dente insieme alle uova che stava mangiando. Poi infilò la mano nella fondina sottoascellare e, quando aveva estratto a metà una 45, Marcial gli piantò due proiettili in testa.
Gli avventori abituali del ristorante dell'Hotel Luna si erano buttati sotto i tavoli e si sentivano gemiti un po' dovunque. Marcial osservò il disastro: il sangue che sgorgava a fiotti dalla testa maciullata del tizio, il tavolo rovesciato. Vagabondò senza meta e capitò nella cucina dell'hotel. Adesso c’era puzzo di cadavere dappertutto, pensò Marcial, cercando di andarsene da quel posto. Magari l'odore sarebbe rimasto lì dentro, non lo avrebbe più perseguitato. Nel patio uno dei clienti stava dando di stomaco. Marcial si annusò le mani. Il fetore di cadavere era ancora più pestilenziale. Raggiunse un giardinetto di fronte all'ingresso principale, prese un falcetto che era piantato in terra accanto a un roseto, poggiò la mano sinistra sul cofano di una Ford e se la tranciò di netto.


5) La strega

La strega si infilò una minigonna verde e una blusa turchina e salì i quaranta gradini all'ombra, intenzionata a resistere al caldo.
Il nano la stava aspettando all'ingresso della banca. - Quel figlio di puttana è morto.-
- Che farci - disse lei. - Era destino. -
- E adesso che cosa succede? -


6) Tanfo di cadavere

Quando il capo della judicial dello stato del Chihuahua, un uomo alto, elegante e con le tempie brizzolate, che negli ultimi tre anni aveva assassinato sei innocenti e intascato mezzo milione di dollari esentasse lavorando per una banda di narcotrafficanti di Houston, uscì dall'ufficio del governatore, sentì puzzo di cadavere nell'aria. C’erano voluti quindici minuti buoni per spiegare perché un imbecille di agente della sua squadra avesse ucciso il capo della polizia dello stato confinante. Di nuovo l'odore gli investì le narici come un'ondata fetida. Si guardò intorno prima di salire in macchina senza notare niente di strano, ma il fetore si faceva più acuto, a mano a mano che si avvicinava alla camionetta. Accese l'aria condizionata. Era no le mani. Erano le mani. Tornò indietro con il pensiero di qualche istante e si ricordò di avere stretto la mano a due sole persone, il governatore e l'addetto stampa. Quei rotti in culo gli avevano mica trasmesso qualcosa? Staccò
le mani dal volante e dopo averle avvicinate a conca le portò al naso. Puzzava di cadavere, cazzo!


***

Il mélo di sinistra


Non dire di quell'acqua non berrò, diceva mio zio, parafrasando un detto castigliano, o arabo, o rivisitando Eraclito e il fiume nelle cui acque non ci si bagna mai due volte.
Chi ha detto che la telenovela è un genere di destra? Che solo una borghesia scialba, squallidamente viziosa, detiene il monopolio del melodramma del cavolo? Una borghesia scissa tra la propria moralità di facciata e la propria realtà corrotta, tra il mito della stabilità familiare e il gioco di tradimenti quotidiano.
E’ con un certo turbamento che scopro un insolito mélo di sinistra. In un sommario conciso, da Televisa, ecco a voi le dramatis personae.
Fede, trentuno anni, bella presenza, simpatico, gran bevitore di birra, elegante. Vuole fare il sociologo e il politologo, ma sotto le pressioni del padre è costretto a lavorare come impiegato commerciale, lavoro che detesta. Convive, senza essere sposato, con Maria, un'operaia tessile che lavorava in una dellea fabbriche della sua famiglia. Con i soldi che guadagna praticamente mantiene il suo amico Carlos, attivista e pensatore politico. Gli fa da mecenate. Che almeno Carlos possa fare ciò che lui non può fare.
Jenny, trentasette anni. Figlia dell'aristocrazia terriera, porfiriana la potremmo definire, la quale sposando Carlos, più giovane di lei di quattro anni, ha accettato di condividere per amore una vita di povertà e di stenti.
Elena, ventotto anni. Umile ragazza figlia di un fornaio, che lavora come domestica dall'età di otto anni, a servizio fin da quando era ragazzina a casa della mami di Jenny, la quale alla fine la "cede" a Jenny perché l'aiuti nei momenti difficili. Elena si assume il compito di mandare avanti la casa di Carlos e Jenny, che all'epoca hanno due figlie, rispettivamente di uno e due anni.
Carlos, trentatre anni, simpatico, tracagnotto, fissato, tenace, esiliato politico; impegnato in una ricerca sociale che un giorno gli permetterà di scoprire le leve con cui sovvertire il mondo.
In due parole la sinossi.
La storia prende il via all'inizio degli anni cinquanta, quando nell'inverno nasce il primo figlio maschio di Carlos e Jenny, Guido, che risulta di salute cagionevole. Contemporaneamente, anche Elena rimane incinta, misteriosamente, senza avere avuto negli ultimi mesi alcun fidanzamento o relazione ufficiale con uomini al di fuori della famiglia o dei visitatori.
La casa di Carlos e Jenny è misera, in due piccole stanze sono ammassati i bambini e quattro adulti, poiché si è unita al gruppo un'amica di Jenny. Carlos prende l'abitudine di lavorare ai suoi articoli e saggi nella biblioteca pubblica e a volte, tra una cospirazione e l'altra, insieme a diversi gruppi di esiliati, tiene conferenze in alcuni circoli operai.
La situazione economica è patetica, a volte sono costretti a portare al Monte di pietà il corredo di famiglia per poter mangiare, gli abitanti della casa soffrono di stenti.
Fede fa loro visita molto spesso, collabora ai lavori di Carlos e il suo arrivo rappresenta l'unico momento di gioia (e le uniche risorse economiche) della famiglia.
Nell'aprile del 1951 nasce il figlio di Elena, a cui verrà imposto il nome di Enrique Federico (!) e sarà affidato per lo svezzamento a una famiglia operaia.
Le voci e le maldicenze attribuiscono la paternità del figlio della domestica a Fede che, pur senza confermarlo, non lo nega, ammettendo di fatto che le voci contengono un fondo di verità. La situazione particolare è tesa tuttavia non sembra turbare le abitudini quotidiane della famiglia.
Il figlio maschio di Carlos muore. Enrique Federico cresce al di fuori della famiglia. Sarà operaio e più tardi tecnico, avrà un figlio, manterrà rapporti di amicizia con le figlie di Carlos, vedrà con una certa frequenza la madre.
Con il trascorrere degli anni, più di quaranta, e dopo la morte del suo grande amico Carlos e di Jenny, Fede si ammala gravemente. Negli ultimi giorni di vita convoca l'amico Samuel e gli fa la seguente confessione: “Enrique Federico, il figlio di Elena, era figlio di Carlos, non mio. Ti autorizzo a renderlo pubblico solo in caso mi si accusi ingiustamente di non essermi preso cura di quel bambino”.


II

E allora, la telenovela e si un genere di destra, ma ogni tanto, e senza esagerare nel campionario di pretesti sociali che dovranno fare da sfondo alla storia precedentemente narrata, sembra possibile che lo sia con personaggi di sinistra.
A questo punto, il lettore, presumibilmente di sinistra, ha deciso che a lui non piacciono le telenovelas, che questa storia è sciocca, letterariamente non vale un accidente, non avrà molta simpatia per Carlos e ammirerà sotto sotto la generosità di Fede, che gli copre le spalle.
Però se Carlos di cognome fa Marx e Fede(rico) è Engels e Jenny è una Westphalen ed Elena è Helen Demuth, la celeberrima Lenchen, che fu il vero sostegno della famiglia Marx, e la casa è il piccolo appartamento al 28 di Dean Street, ed effettivamente siamo alla metà del secolo, però del secolo XIX, e i Marx si trovano a Londra esiliati in seguito alla sconfitta dei moti del 1848 nell'Europa continentale, la storia di Frederick Demuth, l'unico figlio maschio e non riconosciuto di Marx, acquista un certo interesse.
Non ci sono più dubbi su chi fosse il padre di F. Demuth. Eleonor Marx, venuta a conoscenza della versione del socialista inglese Sam Moore, andò a far visita a Engels pochi giorni prima della sua morte per ottenere una confessione di prima mano su chi fosse il padre di quello che sarebbe risultato essere il suo fratellastro. Engels non si trovava nelle condizioni di parlare, dato lo stadio avanzato del cancro all'esofago, ma confermò per iscritto ciò che Eleonor domandava, la quale Eleonor a sua volta lasciò di suo pugno una testimonianza di questa storia in una lettera ad August Bebel (che è a disposizione dei lettori presso l'Istituto internazionale di studi sociali di Amsterdam). Altre versioni confermano il racconto.
F. Demuth visse una vita priva di nota, anche se con qualche piccolo mistero, fu operaio e meccanico e morì nel 1929 a settantotto anni per arresto cardiaco.
Stranamente non ci sono accenni della vicenda nei dieci tomi della corrispondenza fra Marx ed Engels. Le biografie più documentate sui due personaggi, quella di Mehring e quella di Gustav Mayer, non fanno cenno a questa storia. E non lo fa nemmeno Hans Magnus Enzensberger
nei suoi Colloqui con Marx ed Engels, ne Isaiah Berlin.


 

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