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Rivoluzionari
e romanzieri attingono alla stessa fonte, in fondo: la mente
umana, i sogni, le ossessioni, le perversioni, l’impatto
sociale della lotta quotidiana per la sopravvivenza, le frustrazioni,
le nevrosi, le situazioni estreme, le paure più segrete,
le speranze, le illusioni, le attese, gli incubi, le degenerazioni.
Lei è credente?
No.
Nemmeno io, ma credo nel dio degli atei. E credo che la magia
abbia un influsso su quelli che ci credono.
“Dash, credi in Dio?”.
“Fino a quando non aboliranno il divieto di fumare in
chiesa continuerò a considerarmi ateo”.
“Sente il peso della figura di suo
padre?”
“Dipende se me lo carico bene in spalla”.
Un autore classico è un morto che
ha scritto libri.
***
frammenti
Scriviamo con la sensazione scostante che nulla
di quanto stiamo imprimendo sulla carta avrà mai il potere
di cambiare la storia, nemmeno quella di un destino individuale,
eppure allo stesso tempo, con la netta impressione che nell’intricata
giungla cittadina di antenne televisive qualcuno ci stia ascoltando
e tutto quanto un giorno potrà cambiare.
Scriviamo tronfi della passione logorata, ma non per questo
meno ardente, di chi sa di dominare il linguaggio in un paese
dominato dalle mode e dall’analfabetismo dell’efficienza;
alle fiere del libro ci divertiamo a spargere la voce che sessanta
nostri autografi, il libro compreso, si possono battere con
uno di Maradona e due di Ronaldo.
Scriviamo spinti dalla vocazione per la volontà, la leggenda,
l’utopia, l’umorismo nero, la satira, il melodramma
involontario, il realismo accidentale. Scriviamo perché
ci sembrerebbe di morire se non potessimo raccontare storie
di fate e folletti, gli incubi dell’ultimo dittatore o
la descrizione el campo di pallacanestro dopo la partita, e
moriremmo davvero se smettessimo di farlo.
Scriviamo con tutta l’anima, con la disperazione di un
disgraziato che rischia la vita sull’ultimo tram se non
troviamo il tono giusto, se non riusciamo a costruire bene un
personaggio secondario o a trovare la parola perfetta per descrivere
lo smog della notte quando non ci è possibile vederlo.
Scriviamo perché crediamo nel potere della parola, nella
suadente capacità trasformatrice; sappiamo che la letteratura
è la più efficace arma di distruzione di neuroni
avariati, simile a una grande navicella aliena in orbita nei
nostri cervelli; sappiamo che nessuno può rimanere la
stessa persona dopo avere letto il Diario di Anna Frank e che
un uomo di quarant’anni non può essere razzista
se da adolescente è stato un fanatico di Sandokan e di
Salgari; sappiamo che laddove Lenin falliva, Robin Hood era
sempre invincibile; sappiamo che si rimorchia molto più
facilmente con le poesie di Neruda e che il conte di Montecristo
è la personificazione del sacrosanto diritto alla vendetta,
che da queste parti è diventata lo strumento politico
più diffuso.
Scriviamo qui, nel luogo che ci ha scelto e che abbiamo fatto
nostro, in questa America Latina ultima riserva di passioni
in un pianeta decaffeinato e light. Nemmeno allo stadio terminale
di un’infermità mentale scambieremmo la nostra
condizione di narratori latinoamericani con il lauto conto in
banca di qualche scrittore americano di best seller o di uno
stilista modaiolo europeo.
Non abbiamo bisogno di dosi extra di esotismo per essere amati
dai nostri lettori, condividiamo già con loro l’amore
per soggetti reali o inventati come il Rìo de la Plata
al tramonto, la pioggia di Managua, il colore rosso vivo, il
pennacchio di Montezuma, le corse dei ragazzini per le strade,
i personaggi che si tagliano le vne per amore, le bancarelle
di pasti caldi lungo i marciapiedi davanti all’Hospital
General, i cortei di protesta che invadono le strade di Caracas,
la sensazione che un libro è tanto utile quanto un’amaca
nella foresta amazzonica del Perù, l’idea che il
sesso è una meravigliosa festa piena di insidie.
Non corriamo il rischio di diventare provinciali. Non c’è
ragione per cui, dal nostro sperduto angolo di mondo, dobbiamo
rinunciare alla curiosità per l’astrofisica, agli
ultimissimi giochino per computer, alle novità del teatro
off di Brodway, alle campagne di solidarietà per le popolazioni
che muoiono di fame nel Corno d’Oro africano o alle notizie
dell’ultima impresa sull’Everest nelle catene dell’Himalaia.
Non chiediamo niente più di quello che già possediamo:
la facoltà di scrivere ed essere letti. E così
raccontiamo con la stessa rabbia feroce e divertita di chi,
solo dopo avere perso tante volte l’aereo, comincia a
capire veramente il senso del viaggio.
***
Il DF ( il Distretto Federale) è l’unico
protagonista possibile del romanzo neopoliziesco messicano (mi
immagino Trujillo che fa da incursore a Tijuana e Hernandez
Luna che la spunta a Puebla). Città del Messico è
un concentrato di follia, è il cimitero di eleganti della
nostra generazione di romanzieri e l’ossessione di tutti
gli scrittori neorealisti. Produce più storie in un giorno
questa metropoli di quante ne avrebbe potute raccontare Balzac
se avesse avuto diverse vite. Dentro la città c’è
un condensato di follia e orrore conditi da un’infinità
di leggende. E’ una città instabile, pregna di
vibrazioni maligne e di spinte solidali. E’ assediata
dalla catastrofe e alimentata dalle proteste quotidiane. Ultimamente
mi fa penare perché mi sfugge, non riesco a sentirla
mia, ad abbracciarla tutta come mi è riuscito altre volte.
***
“Il governo non vacilla e la rivoluzione
non è dietro l’angolo, anzi, a dire la verità,
non c’è in vista neanche l’ombra di una sommossina,
maledizione. Credo di poter affermare che in questo paese, fatta
salva qualche rimarchevole eccezione, le masse si sono fatte
turlupinare, la classe media se la fa sotto dalla paura e le
classi menomate si sono lasciate istupidire dalla propaganda.
Morale, rimangono le seguenti tre classi sociali: i figli di
buona donna, che hanno cavalcato la situazione e hanno fatto
fortuna, quelli che stanno sempre a guardare, che sono la maggioranza,
e noi, che siamo una dozzina di poveri stronzi. Noto che la
Chiesa guadagna sempre più potere e che dal punto di
vista culturale va di moda la tendenza “ spagnoleggiante”.
Poi vedo che molti messicani si stanno rincoglionendo rispetto
a qualche tempo fa, che la polizia sta migliorando i suoi servizi
dal punto di vista tecnologico e che i governi stanno affinando
le loro pratiche di tortura. Nella più rosea delle ipotesi,
la Resistenza dovrà ingoiare badilate di merda almeno
per altri vent’anni. Insomma signori, se ci rivedremo
nell’arco dei prossimi tre mesi, sarà per puro
caso. che ve ne pare?”.
***
Guidato da questo personaggio e da questa foto, ero così
arrivato a Saint-Malo.
Sapevo, ammesso che si possa sapere qualcosa di certo nel mondo
misterioso dei riti, che se ci si fa scattare una foto nello
stesso posto dove è stata ritratta la persona che più
abbiamo amato nella vita, una parte del suo spirito rimane indelebilmente
legata a noi. E qui si sbagliavano gli indiani cheyenne nel
credere che l'antenato del signor Kodak fosse un ladro di anime.
Il vento ormai spadroneggiava lungo la passeggiata ed era rimasto
solo qualche curioso, in lontananza.
La ragazza magra imboccò la rampa indossando uno di quei
maglioni di lana bianca che si vedono nei film norvegesi. Le
chiesi in spagnolo se poteva scattarmi una foto, aiutandomi
con il linguaggio universale dei gesti. A sorpresa mi rispose
nella mia stessa lingua.
- Perché vuole una foto proprio lì? E mezz'ora
che la vedo girare da queste parti. -
Io mi misi in posizione davanti al muretto di pietre.
- Voglio una foto identica a quella che si fece fare qui un
mio zio. -
La ragazza magra sorrise e si allontanò per mettermi
a fuoco. Stette un po' a riflettere, poi mi chiese la foto che
immaginava avessi con me. La osservò, cercò la
posizione giusta e scattò, due volte. Quindi mi restituì
la macchina fotografica.
- E tu perché hai voluto nuotare in questo mare di ghiaccio?
-
- Durante la guerra, in inverno, mia madre veniva qui a nuotare
per dimenticare - disse la ragazza e poi si allontanò,
immersa nel suo rito personale.
***
Ilàn, immagino che tu abbia una copia
delle domande che hai preparato per l'intervista, quindi qui
mi risparmio la fatica di riscriverle.
1. Ho cominciato a scrivere non appena sono
riuscito a unire la gambetta della A con la C. Da quando sono
entrato in possesso del cosìddetto uso della ragione,
ho sentito che la scrittura, anzi l'instancabile esercizio della
scrittura, con tanto di foglio bianco e tavolozza delle lettere
dell'alfabeto in testa, era il mio destino, la mia gioia e la
mia condanna. A undici anni scrivevo le didascalie delle illustrazioni
per una rivista e a tredici ho scritto il mio primo racconto.
Sono giornalista da quando avevo quindici anni. Lettore maniacale
dai cinque in avanti, ho finito il mio primo romanzo, che non
è mai stato pubblicato, a venti. Credo che questa passione
viscerale sia retaggio della tradizione familiare alimentata
dal fratello di mio zio e da mio padre, in base alla quale il
mestiere migliore del mondo non è essere trapezista o
pompiere (che si piazzano al secondo posto a pari merito), bensì
scrittore.
2. Scrivo da mane a sera, a qualsiasi ora,
generalmente ascoltando musica; e più è ritmata,
meglio è, tipo Santana o Wagner, per intenderci. Il mio
unico rituale portafortuna è passare in continuazione
da un progetto all'altro. Capita così (come in questo
periodo) che mi trovi a lavorare a tre romanzi nello stesso
momento in cui ne sto ideando altrettanti e comincio a buttare
giù qualche appunto e intanto mi dedico anche a un paio
di romanzi brevi, a un saggio storico sugli anarchici messicani
degli anni venti, a due o tre inchieste e a una sceneggiatura
per un fumetto. Passo continuamente da uno scritto all'altro,
quando sento che non so più che cosa dire, cambio argomento.
Mi capitano raramente momenti di black out ma quando succede
non mi preoccupo, piuttosto prendo tempo, mi metto in viaggio,
gioco a Civilisation sul computer o vado a dare una mano a qualche
gruppo impegnato in campagne di solidarietà.
3. e 4. Belascoaran è nato per eliminazione. E’
il frutto di una selezione di tratti caratteriali. Dagli scarti
è emerso il personaggio: sradicato, esule del ceto medio,
curioso fino alla follia, patologicamente caparbio, dotato in
abbondanza di un umorismo in salsa messicana, un po' noir, vagamente
malinconico. Il suo aspetto deriva dal ricordo di un mio amico
antropologo, Sergio Perello, che indossava vestiti di moda quindici
anni prima. Belascoaran è così: sempre in ritardo
di quindici anni. Poi il suo aspetto fisico si è andato
forgiando nei vari romanzi a forza di batoste e ferite: ha perso
un occhio, è diventato leggermente zoppo, teme il tempo
umido che gli fa cigolare le giunture.
5. Vegliamo reciprocamente l'uno sull'altro.
Non l'ho ucciso io, è stata la logica della narrazione,
l'ingranaggio degli avvenimenti di un romanzo. Poi, però,
i lettori cominciarono a protestare e anch'io, da lettore, sentil
che la saga non era conclusa e così è resuscitato.
Magia bianca di Città del Messico. Ho dato retta a mia
madre che mi aveva detto: “Figliolo, sei proprio scimunito,
non avresti mai dovuto ucciderlo” . Ma quando scrivi un
romanzo è quest'ultimo che detta legge: il romanzo fa
e disfa. E qualche volta ammazza. Non ci sono santi.
6. Le affinità consistono nel carattere
solitario dell'eroe, che è una sorta di out sider. E’
votato alla solitudine, fedele agli amici (nel caso di Marlowe),
alle sue fisime (nel caso di Hector). Marlowe si ritrova sempre
in mezzo a storie razionali, Hector vaga nel caos kafkiano-corrotto
di Città del Messico. Una coincidenza: nessuno dei due
è sposato.
7. All'esotismo... Non so, credo che i lettori
messicani percepiscano i miei romanzi come uno specchio crepato
in cui riescono a riconoscersi, uno specchio con un paesaggio
noto, decodificabile, come un invito a non arrendersi. Un progetto
morale. La luce in fondo a un tunnel. Qualcosa del genere. I
lettori stranieri vedranno tutto questo più una città
impazzita. La più grande del mondo. Perché non
lo chiedi a loro? Quest'anno Belascoaran fa il suo debutto in
Bulgaria e in giàppone.
8. Non nasconde, mette in mostra. Il romanzo
poliziesco riunisce alcuni aspetti del romanzo d'avventura:
il fascino dell'enigma, la possibilità di descrivere
città, situazioni estreme o personaggi in situazioni
estreme. Un buon romanzo è un buon romanzo e basta, ma
se è poliziesco, tanto di guadagnato.
9. Non sono un seguace del dirty realism ma
dell'ugly-dirtyfucking-realism di Chester Himes e Jim Thompson
all'interno della peggiore tradizione degli story tellers, ma
con l'aggiunta (e questo è un dato fondamentale) del
contributo messicano del realismo kafkiano, dell'umorismo nero
naturalista, con qualche eco della sindrome di re Mida al contrario
(tutto quello che tocca la polizia messicana si trasforma in
merda).
Mi identifico con la generazione di autori che hanno scritto
i loro romanzi negli stessi anni in cui l'ho fatto io e che
hanno coltivato il genere del poliziesco per rielaborarlo (che
è poi l'unico modo per confrontarsi con un genere letterario),
come Vazquez Montalban, Jerome Charyn, J.P. Manchette, Jean-Francois
Vilar, Juan Carlos Martelli, Alberto Sperati, Per Wahloo, Robert
Littell (Anonimi a bordo), Martin Cruz Smith (l'autore di La
porta dei corsieri e di La rosa nera), Roger Simon, Laura Grimaldi,
Daniel Chavarria, Thomas Ross (non puoi perderti Gli ipnotisti)
e con una corrente di scrittori che ha coltivato il romanzo
non di invenzione, come Rodolfo Walsh, Miguel Bonasso, Joseph
Wambaugh, Guillermo Thorndyke.
Oltre alla corrente letteraria c’è poi il cinema,
con Ridley Scott e il suo Blade Runner o Melville con Frank
Costello faccia d'angelo, e i fumetti di Alack Sinner firmati
Munoz y Sampayo, che hanno la stessa filosofia di base.
10. Non so.
11. I romanzi che considero precursori del
genere neopoliziesco in Messico appartengono ad autori che non
si sono mai identificati con questa classificazione, dei "neo"
loro malgrado, in sostanza. Mi riferisco a tre romanzi superlativi:
Los albaniles (I muratori) di Vicente Lenero, Las muertas (Le
morte) e Dos crimenes (Due delitti) di Jorge Ibarguengoitia.
12. e 19. Carlos Fuentes è un punto
di riferimento obbligato, sono un suo debitore confesso; non
amo particolarmente La cabeza de Hidra (La testa di Idra) che
mi sembra un divertissement mal riuscito, ma sono un fanatico
del suo L'ombelico della luna. La dimensione della città
che Fuentes riesce a rendere mi ha ossessionato prima come lettore,
poi come scrittore. Il DF (il Distretto Federale) è l'unico
protagonista possibile del romanzo neopoliziesco messicano (mi
immagino Trujillo che fa un'incursione a Tijuana e Hernandez
Luna che la spunta a Puebla). Città del Messico è
un concentrato di follia, è il cimitero di elefanti della
nostra generazione di romanzieri è l'ossessione di tutti
gli scrittori neorealisti. Produce più storie in un giorno
questa metropoli di quante ne avrebbe potute raccontare Balzac
se avesse avuto diverse vite. Dentro la città c’è
un condensato di follia e orrore conditi da un'infinità
di leggende. E’ una città instabile, pregna di
vibrazioni maligne e di spinte solidali. E’ assediata
dalla catastrofe e alimentata dalle proteste quotidiane. Ultimamente
mi fa penare perché mi sfugge, non riesco a sentirla
mia, ad abbracciarla tutta come mi è riuscito altre volte.
13. e 18. No. Non devo niente e non voglio
avere niente a che fare con quella generazione di parodisti
e imitatori. Le loro storie non mi incuriosiscono, per non parlare
del loro blando abbordaggio al genere poliziesco o della loro
scarsa qualità letteraria. Di tutta la precedente produzione
messicana nell'ambito di questo genere letterario l'unica opera
che mi interessa è un romanzo, El complot Mongol (Il
complotto mongolo) di Bernal che, guarda caso, è stato
considerato solo quando la nostra leva di scrittori gli ha dato
risalto.
14. Quello è il punto di partenza di
qualsiasi trama poliziesca in Messico. L'azione criminale è
parte integrante del sistema, è insita nella sua stessa
logica. La soluzione del caso, anche quando si tratta di un
affare "privato", come può essere una storia
di passione tra comuni cittadini, rientra anch'essa in questo
ingranaggio. Vivo in una città dove la polizia provoca
più crimini di tutta la malavita organizzata e gli emarginati
messi assieme; e già questi ultimi basterebbero da soli
a formare un esercito.
Luis Gonzalez de Alba, uno dei leader del movimento studentesco
del Sessantotto, è rimasto in carcere quattro anni per
aver incendiato un tram all'incrocio tra due strade che in realtà
non si incontrano, in un punto dove non ci sono mai state nemmeno
le rotaie e all'ora esatta in cui stava tenendo un comizio davanti
a un migliaio di testimoni all'altro capo della città.
Dev'essere sua la frase rimasta famosa: “La polizia e
sempre colpevole”.
15. Sono stato contemporaneamente insegnante
e romanziere, ma per puro caso. Poi sono stato romanziere e
sindacalista, che mi sembra un'accoppiata molto più coerente;
ho fatto per un po' il pulitore di tricicli nel reparto giocattoli
dei magazzini Gigante. Ho fatto lo storico e il romanziere,
ho fatto il mio dovere di cittadino, il giornalista e lo scrittore.
Adesso credo di essere un po' tutte queste cose insieme.
16. e 17. La presenza di Cortazar: non saprei
(anche se mi hanno fatto impazzire i suoi romanzi brevi). Gli
altri scrittori del boom del romanzo sudamericano? Mi hanno
influenzato poco. Mi ha appassionato il primo Vargas Llosa,
i suoi primi cinque romanzi. Mi sento più contagiato
dalla seconda generazione, quella del postboom, quella dei miei
contemporanei: Skarmeta, Soriano, Scorza, Galeano, Jesus Diaz.
Nei loro romanzi emerge con forza il gusto voluttuoso per la
narrazione. Fuentes dice che la sola terra per uno scrittore,
la sua sola patria è la parola; io credo che la sola
patria per uno scrittore sia la storia, che abbia o meno l'iniziale
maiuscola.
20. Un autore classico è un morto che
ha scritto libri. Oggi come oggi, anche io ho dovuto rassegnarmi
a essere considerato uno dei fondatori del genere neopoliziesco
latinoamericano. Ma è un'etichetta che mi staccherei
volentieri di dosso e butterei dritta dritta nel cesso. Il museo
dei grandi uomini di lettere del Messico è pieno di autori
ancora viventi che hanno già scritto la loro opera omnia
e, sinceramente, non mi trovo a mio agio in loro compagnia.
***
«E se ci inventassimo una religione?» bisbigliò
Maschera Azteca al Dottor Nebbia durante la settantatreesima
seduta del Comando unico di resistenza, ovvero in occasione
di una bevuta di ginger ale davanti alla porta di uno dei bagni
dell'agenzia di pompe funebri Tangassi, sede non abituale, ma
abbastanza sfruttata, dei loro incontri.
«Badate a moltiplicarvi, ecco dove sta la chiave di tutto.
»
«Una religione con Benito Juarez nei panni dell'arcangelo,
qualche atleta di lotta libera stile Blue Demon e la Vergine
di Guadalupe come genitori, la Malinche, Hernan Cones e la cavalla
di Pancho Villa sullo sfondo. Sincretismo puro di origine controllata.»
«Intende per caso scaricare su di me la responsabilità
di inventare una nuova religione, caro collega? E un affare
rischioso, uno fa per inventare una religione e si ritrova papa
della sua Chiesa. Francamente spiacevole. Perché non
ci pensa lei da solo? Tra le molteplici qualità che la
caratterizzano, se non vado errato c’è anche una
laurea in antropologia. Corre voce che lei da piccolo fosse
un bambino prodigio.»
Maschera Azteca si accese una sigaretta e rigettò l'idea
sbuffando in direzione del cielo. Gli prudeva una mano e se
la grattò distrattamente. Dentro l'agenzia stavano vegliando
una donna morta di ipoglicemia. Il Dottor Nebbia salutò
con un cenno del capo un folio gruppo di parenti che in quella
stavano entrando nella camera ardente. Per l'anonimato, questo
è il momento migliore. Nessuno si sogna di chiederti
quando hai conosciuto il morto. Nessuno ti viene a chiedere
se sei legato a lui da legami di parentela o di usura, ammesso
che di legami tu ne abbia.
«Insisto, la nostra forza risiede nella molteplicità.
Siccome non siamo in tanti, occorre sdoppiarci, moltiplicarci»
disse il Dottor Nebbia, che aveva inquadrato la questione da
un punto di vista prettamente teorico.
Non e più così, doc, la mia schizofrenia non scalpita
più come una volta. Negli ultimi tempi, sempre più
spesso, mi viene voglia di essere una persona normale. Lei si
esalta perché ha una forte componente schizofrenica nella
sua natura.
«Dal momento che siamo solo in due, dobbiamo fare in modo
di essere tanti, collega» esagerò il Dottore, forte
della sua esperienza e indifferente alle moine del suo compagno.
Si grattò ancora la mano.
«Io sto impersonando una dozzina di personalità
diverse, lei che ha una passione speciale per Maschera Azteca
per lo meno dovrebbe moltiplicare le sue imprese. Non ha provato
a essere in due posti nello stesso tempo? »
Maschera Azteca sbuffò. Era un incarico molto gravoso
rappresentare metà della direzione della Resistenza con
un socio rompiballe come il suo. Il Dottor Nebbia non disse
nulla, anche per lui era una gran rottura essere l'altra metà.
Si consolavano al pensiero di non essere la totalità
del movimento. Il paese era troppo grande per una persona sola,
e per giunta si trattava di un paese con una media elevatissima
di figli di buona donna per metro quadrato.
***
I fantastici odori della vita
1) Che cosa succede, Marcial?
Da Chihuahua a Ciudad Juarez, per tutta la
fottutissima strada, le mani gli presero un odore di cadavere,
puzzavano di morte. Con i coglioni giratissimi, se le cosparse
di colonia ai fiori d'arancio comprata da Sanborn's, se le lavò
con tequila La Herradura e, colto dalla disperazione, ci pisciò
sopra, nei paraggi della città più brutta del
Nord del Messico: Villa Ahumada.
La cosa peggiore, però, era che di morti non c’era
neanche l'ombra. Sentendosi a disagio, pur essendo consapevole
che fossero le mani, si fermò a un distributore in mezzo
al deserto, cercò nel portaoggetti un ipotetico gatto
morto, sollevò i sedili anteriori e arrivò ad
aprire il portabagagli della Datsun, solo per scoprire quello
che era ovvio: era completamente vuoto.
Fece rapporto al suo caposquadra guardandosi bene dal dirgli
la verità. In particolare evitò la faccenda delle
mani appestate, perché avrebbe pensato che si fosse trasformato
in un povero finocchio, che viveva nel terrore e che pertanto,
come poliziotto della judicial, doveva essere assolutamente
rimpiazzato.
Il capo lo squadrò dalla testa alla punta dei piedi:
il berretto dei Dodgers e il ciuffo arruffato, scendendo via
via sul gilet trapuntato, la cintura dalla grossa fibbia e giù
fino ai Camperos, e poi lo spedì da un proprietario di
campi coltivati a foraggio, per controllare i numeri di serie
delle trebbiatrici, perché quasi certamente le aveva
comprate da un trafficante nuovo, fuori dal giro.
Marcial non dormiva da più di due giorni a causa di un
lavoro che non aveva dato buoni risultati, era ossessionato
dallo strano odore che emanavano le sue mani e pertanto in quella
storia partì con il piede sbagliato. Anziché controllare
i numeri di serie, accusò immediatamente il fattore di
utilizzare le trebbiatrici per raccogliere marijuana, seguendo
la diffusa pratica di incolpare e poi controllare. Si mise a
sbraitare, spaccò una brocca di agua de jamaica, scaraventò
in terra una padella di tacos dorati, con il calcio della pistola
ruppe la mandibola alla moglie del fattore perché protestava
e minacciò di ammazzare i due ragazzi se il padre non
gli diceva dove si trovava la marijuana. Uno dei ragazzi si
cagò addosso, il padre tentò di infilzare Martial
con un coltello da cucina e questi gli fece partire la testa
con un colpo di pistola... Insomma, un fottuto disastro.
Sulla via del ritorno le mani continuavano a puzzare di cadavere.
Fece un salto negli uffici della polizia federale ma il capo
non c’era, e dovettero notare la sua faccia da zombie,
perché lo mandarono a dormire. Nell'Hotel Sarita, nella
zona rossa di Chihuahua dove viveva da una settimana, passò
la prima metà della notte a fregarsi i palmi delle mani
con Più Lindo, Pulito al limone e Lavamatic, ma non ci
fu modo. Gli effluvi dei detergenti lo impregnarono peggio di
una bottiglia di brandy. Era da molto che non si sentiva tanto
ubriaco e il letto ondeggiava da un lato e dall'altro. Un Cristo
con il manto rosa lo fissava dalla parete. Si agitava tanto
che in breve lo classificò come il Cristo trapezista.
Alle quattro di mattina, mentre vomitava, gli parve di udire
che alla tele parlassero di lui, lo chiamavano per nome ("imperatore
romano pederasta che..."), in un programma gringo di concorsi
per insonni. La cosa lo terrorizzò ancora di più.
Fece colazione con il capo a Las Cazuelas, uova alla ranchera
per il capo e tre caffè neri per lui, mentre faceva rapporto
sulla puttanata che aveva combinato nella casa del fattore,
presunto proprietario di trebbiatrici dei marijuaneros, che
tale non era, ma lo aveva lasciato comunque stecchito in quel
di Ojinaga.
Il capo gli spiegò pazientemente che a volte le cose
funzionano bene, altre volte no. Proprio così, a volte
la va, a volte la spacca. E nel bel mezzo della conversazione
gli domandò: -Che hai, cagasotto, da annusarti tanto
le mani? Ti puzzano di merda o cosa? - .
Per cambiare argomento, Marcial si offrì di fare un lavoretto
in un quartiere residenziale appena in periferia, dove ti gelavano
anche i peli del culo per il cazzutissimo freddo, e di farci
alcune ronde notturne, qualche turno di guardia per poter incontrare
un certo Demetrio, di cui si vociferava che fosse un fratellastro
del Ronas, sulle cui spalle pendeva un ordine di cattura per
l'omicidio di un poliziotto a Nogales. Un lavoro notturno che
nessuno voleva fare. Il capo lo guardò di sbieco, sospettoso.
Disperato, Marcial Cirules Marulan, agente della polizia federale,
trentacinque anni, figlio di Elvira e di Gaston, nativo di Tepic,
Nayarit, divorziato, si fermò a un distributore all'inizio
di avenida Revolucion e si frizionò le mani con la benzina
della pompa. Lanciò un'occhiata tale al benzinaio da
farlo cagare sotto e non fu costretto nemmeno a proferire parola.
Si strofinò le mani e poi se le pulì ben bene
con uno straccio che gli porse un ragazzetto.
Diede mille pesos al marmocchio per lo straccio, ma l'odore
era sempre lì, così fece scattare l'accendino
d'oro che aveva sottratto al cadavere di un uomo morto durante
una rapina e, anziché fumarsi una Marlboro, si appicco
il fuoco alla mano sinistra. La fiammata non fu granché.
Lo straccio aveva assorbito buona parte della benzina.
Un'ambulanza della Croce rossa lo raccolse dal pavimento del
distributore, mezz'ora più tardi. Non solo aveva la mano
ustionata, ma anche la clavicola sinistra e due costole fratturate,
perché mentre era steso in terra a ululare per il dolore
alla mano gli si era accostato uno stronzo, che non era riuscito
a riconoscere, ma che di sicuro aveva un conto in sospeso con
lui, e che gli aveva rifilato un bel mucchio di pedate nella
schiena.
Al Seguro Social gli diedero venticinque giorni di infortunio
sul lavoro e il suo capo non voleva nemmeno parlargli quando
si presento a fare rapporto. Gli disse solo: - Levati dalle
palle, stronzo. Non guardarmi nemmeno, coglione -.
Da lì tutta una serie di nomignoli che gli affibbiò
la vox populi: il Mano santa, il Mano negra, la Manina morta,
e lo prendevano per il culo insinuando che avesse cercato di
spegnere la fiammata dalla bocca di un mangiafuoco. Per il resto
non cambiò nulla. Era piuttosto risentito per il fatto
che adesso le mani gli puzzavano di cadavere, di merda e di
marcio contemporaneamente. Se ne andava sempre in giro con un
inalatore appeso alle narici, raccontando di avere l'asma.
2) La strega
Se la televisione a casa sua era perennemente
accesa, era solo per sconfiggere la solitudine, non per scongiurare
le paure. Lei non credeva a cose del genere. Non sprecava molta
elettricità. Come le avevano raccontato alla banca, consumavano
più energia un fornello elettrico, un frigorifero che
non fosse ben chiuso, una stufetta elettrica.
Non le interessava il canale. Dopo alcuni mesi, stufa delle
facce dei conduttori dei telegiornali, delle serie a puntate
già trasmesse, delle comiche, delle telenovelas, non
faceva altro che sintonizzarsi sul canale successivo. Non le
importava nemmeno di cosa parlassero. Teneva il televisore acceso
con il volume basso per non disturbare i vicini, soprattutto
la notte.
E allora, si domandava: "Se la voglio per riempire la solitudine,
perché la lascio accesa anche quando sono fuori? Ecco
perché: per sconfiggere la solitudine quando non ci sono,
così ce n'è di meno quando rientro" si rispondeva.
Ma non era per gli scongiuri che il televisore era perennemente
acceso. Per fare fatture servivano immagini immobili: disegni,
pitture, fotografie, ritagli di giornale, atti di nascita, diplomi
scolastici. O almeno, a lei servivano cose del genere, non poteva
operare con oggetti in movimento.
Helena era cassiera in una banca e il sabato e la domenica lavorava
in un albergo come baby-sitter dei figli dei gringos, così
i genitori potevano uscire a far baldoria. Questo la trascinava
in mezzo a crisi e disamori. La stregoneria era, come dire,
un passatempo, una distrazione.
E non poteva fare più di tante fatture in una sola volta,
doveva concentrarsi, impadronirsene, assorbirle. Ultimainente,
benché ne avesse in corso solo quattro, una non le stava
riuscendo bene. C’era la fattura per far perdere la voce
a un cane, quella per sedurre il fratello del direttore, quella
del poliziotto a cui dovevano puzzare le mani di cadavere e
quella per far vincere molti soldi a dona Elisa, del negozio
all'angolo.
Probabilmente l'ultima non le riusciva perché era astratta,
ambigua, come si fa, infatti, a vincere molti soldi? Stava pensando
di trasformarla in un'altra, per esempio una per cui tutti quelli
che entrassero nel negozio pagassero la vecchia con biglietti
da diecimila, pensando che fossero da cinquemila, ma c’era
sempre il rischio che dona Elisa glielo facesse notare e restituisse
il resto giusto.
C’era anche il problema della precisione. Il cane era
rimasto muto per un po', ma poi aveva cominciato a belare come
un agnellino, e il fratello del direttore una volta si era aperto
la patta davanti a lei, e ci era voluto un casino di tempo per
convincerlo che non si poteva scopare la cassiera di un istituto
bancario serio alle undici di mattina, nella succursale Reforma
del Banco Internacional de Chihuahua, con cinquanta possibili
spettatori a far da pubblico. La faccenda del poliziotto sembrava
andare per il verso giusto, perché il tizio si presentava
in banca con i guanti e a ogni
pie sospinto si copriva una mano con l'altra e si grattava.
Se funzionava, perché il nano voleva cambiare?
3) I progetti del nano
- Puo fare in modo che gli altri sentano l'odore
che sente lui? Che gli altri lo annusino e si sentano male?
Anche da lontano - 'domando il Nano.
Non saprei, aspetta... Credo di no. No, non posso rispose Helena.
- Lo può sentire solo lui... meglio così, no?
Come può eliminare qualcosa che sente solo lui? Che cosa
può farci? Andare dal medico e dirgli: "Senta come
mi puzzano di cadavere le mani, senta". L'altro annusa,
e niente...-
Helena si stava pettinando la lunga chioma nera. Quando non
portava gli occhiali spessi un dito era stupenda, una bellezza.
"Perché non si cura la miopia? A Cuba la operano.
Oppure si faccia una magia" si disse il nano osservando
il pettine che saliva e scendeva, scivolando sino alle spalle.
- Sei una strega di seconda scelta - , disse il nano.
Helena intuì dove volesse andare a parare e rispose ancora,
come aveva già fatto mille altre volte, alla domanda
sottintesa: - No, non posso farti crescere. Posso far si che
gli altri ti vedano più alto... Non so, dieci centimetri,
dodici al massimo - .
- Non serve.-
Helena si guardò allo specchio e sorrise.
4) Calma, Marcial
Nel cuore della notte l'odore sembrava sprigionarsi
dalle sue mani e diffondersi per la stanza, impregnando le pareti,
la biancheria del letto, lo schermo del televisore. All'alba
l'odore diminuiva un tantino e Marcial poteva dormire per un
po'.
Chi, tra le sue vittime, gli aveva lasciato il proprio odore
addosso? Si domandava di mattina, disperato. Aveva ucciso una
dozzina di esseri umani, al massimo, contando quelli morti senza
lasciare resti, quelli morti una settimana dopo, lontano da
lui, per una pallottola in una gamba, dissanguati in mezzo alla
sierra di Chihuahua. Aveva ammazzato tre donne giovani e una
vecchia, aveva ucciso un indio tarahumara e il direttore di
un caseificio. Non aveva ucciso per il gusto di farlo, perché
solo un bastardo ammazza di tanto in tanto per dimostrare di
poterlo fare, solo per conservare la fama che si è fatto.
Aveva ucciso in risse di ubriachi e in lavori più o meno
sporchi della polizia. Aveva ucciso dietro incarico la banda
rivale di un narcotrafficante e aveva ucciso accidentalmente.
Era il suo lavoro, no? Allora perché cazzo uno dei morti
gli stava dietro con quell'odore di merda, per mettergliela
in culo? Era stato un caso, come giocare alla roulette. La vittima
avrebbe potuto essere lui, no?
Quando il venerdì si presentò dal suo capo, dopo
un fine settimana di paure vissute in solitudine, aveva gli
occhi gonfi, un forte tremito alle mani e uno sguardo sfuggente.
«Che cazzo ti succede, Marcial? » domandò
il capo osservandolo con attenzione.
Marcial si domandò se l'altro non avesse lo stesso problema
e se ci avesse già fatto l'abitudine, perché quel
figlio di puttana aveva più omicidi di lui sul groppone,
aveva commesso puttanate di ogni genere, molte più di
lui, era una vita che faceva porcate, molte più di quante
ne avesse fatte lui. Sta a vedere che anche il capo puzzava
di cadavere, ma ci si era già abituato.
Fiutò con cautela.
«Che cazzo hai da annusarmi, coglione? Non ti bucherai
mica, eh stronzo? Ti sei fatto di qualche merdata? »
Marcial scosse la testa.
Ho solo un po' di catarro, ho preso un'influenza di merda, che
bastona per bene.
«Se continui a comportarti da fuori di testa, ti caccio,
ragazzo» disse il capo. Poi lo fissò attentamente,
per decidere se si fidava ancora di lui.
- Adesso fili a sorvegliarmi Motel Luna e se vedi questo tizio,
lo arresti - disse buttando una foto sul tavolo.
- Non denunciarlo, limitati a portarlo qui. E’ un tizio
che deve dei soldi a un amico di un amico... -
Il nano era fermo sulla porta dell'ufficio
a fare quello che faceva di solito, lucidare stivali e scarpe,
quando Marcial gli passò accanto e gli rifilò
una pedata nella schiena. Il nano gli sorrise.
Marcial ronzò nei paraggi dell'Hotel Luna in attesa del
tipo, un uomo alto, con i capelli bianchi, elegante. Dopo avere
gironzolato per il parcheggio, entrò e finalmente lo
scoprì al ristorante, a fare colazione con uova e carne
tritata. Andò dritto verso di lui.
- Permette, dottore, che le faccia compagnia?- disse mostrando
il distintivo.
L'altro lo guardò fisso.
- Dì al tuo capo che farò un salto da lui quando
lo decido io. Che non mi rompa i coglioni.-
Dalle mani che Marcial teneva prudentemente affondate nelle
tasche emanava un odore fortissimo. Forse fu per questo che,
anziché discuterne, tolse di tasca la mano destra e mollò
un terribile sberlone all'elemento. La testa ciondolò
e il tizio sputò un dente insieme alle uova che stava
mangiando. Poi infilò la mano nella fondina sottoascellare
e, quando aveva estratto a metà una 45, Marcial gli piantò
due proiettili in testa.
Gli avventori abituali del ristorante dell'Hotel Luna si erano
buttati sotto i tavoli e si sentivano gemiti un po' dovunque.
Marcial osservò il disastro: il sangue che sgorgava a
fiotti dalla testa maciullata del tizio, il tavolo rovesciato.
Vagabondò senza meta e capitò nella cucina dell'hotel.
Adesso c’era puzzo di cadavere dappertutto, pensò
Marcial, cercando di andarsene da quel posto. Magari l'odore
sarebbe rimasto lì dentro, non lo avrebbe più
perseguitato. Nel patio uno dei clienti stava dando di stomaco.
Marcial si annusò le mani. Il fetore di cadavere era
ancora più pestilenziale. Raggiunse un giardinetto di
fronte all'ingresso principale, prese un falcetto che era piantato
in terra accanto a un roseto, poggiò la mano sinistra
sul cofano di una Ford e se la tranciò di netto.
5) La strega
La strega si infilò una minigonna verde
e una blusa turchina e salì i quaranta gradini all'ombra,
intenzionata a resistere al caldo.
Il nano la stava aspettando all'ingresso della banca. - Quel
figlio di puttana è morto.-
- Che farci - disse lei. - Era destino. -
- E adesso che cosa succede? -
6) Tanfo di cadavere
Quando il capo della judicial dello stato del
Chihuahua, un uomo alto, elegante e con le tempie brizzolate,
che negli ultimi tre anni aveva assassinato sei innocenti e
intascato mezzo milione di dollari esentasse lavorando per una
banda di narcotrafficanti di Houston, uscì dall'ufficio
del governatore, sentì puzzo di cadavere nell'aria. C’erano
voluti quindici minuti buoni per spiegare perché un imbecille
di agente della sua squadra avesse ucciso il capo della polizia
dello stato confinante. Di nuovo l'odore gli investì
le narici come un'ondata fetida. Si guardò intorno prima
di salire in macchina senza notare niente di strano, ma il fetore
si faceva più acuto, a mano a mano che si avvicinava
alla camionetta. Accese l'aria condizionata. Era no le mani.
Erano le mani. Tornò indietro con il pensiero di qualche
istante e si ricordò di avere stretto la mano a due sole
persone, il governatore e l'addetto stampa. Quei rotti in culo
gli avevano mica trasmesso qualcosa? Staccò
le mani dal volante e dopo averle avvicinate a conca le portò
al naso. Puzzava di cadavere, cazzo!
***
Il mélo di sinistra
Non dire di quell'acqua non berrò, diceva mio zio, parafrasando
un detto castigliano, o arabo, o rivisitando Eraclito e il fiume
nelle cui acque non ci si bagna mai due volte.
Chi ha detto che la telenovela è un genere di destra?
Che solo una borghesia scialba, squallidamente viziosa, detiene
il monopolio del melodramma del cavolo? Una borghesia scissa
tra la propria moralità di facciata e la propria realtà
corrotta, tra il mito della stabilità familiare e il
gioco di tradimenti quotidiano.
E’ con un certo turbamento che scopro un insolito mélo
di sinistra. In un sommario conciso, da Televisa, ecco a voi
le dramatis personae.
Fede, trentuno anni, bella presenza, simpatico, gran bevitore
di birra, elegante. Vuole fare il sociologo e il politologo,
ma sotto le pressioni del padre è costretto a lavorare
come impiegato commerciale, lavoro che detesta. Convive, senza
essere sposato, con Maria, un'operaia tessile che lavorava in
una dellea fabbriche della sua famiglia. Con i soldi che guadagna
praticamente mantiene il suo amico Carlos, attivista e pensatore
politico. Gli fa da mecenate. Che almeno Carlos possa fare ciò
che lui non può fare.
Jenny, trentasette anni. Figlia dell'aristocrazia terriera,
porfiriana la potremmo definire, la quale sposando Carlos, più
giovane di lei di quattro anni, ha accettato di condividere
per amore una vita di povertà e di stenti.
Elena, ventotto anni. Umile ragazza figlia di un fornaio, che
lavora come domestica dall'età di otto anni, a servizio
fin da quando era ragazzina a casa della mami di Jenny, la quale
alla fine la "cede" a Jenny perché l'aiuti
nei momenti difficili. Elena si assume il compito di mandare
avanti la casa di Carlos e Jenny, che all'epoca hanno due figlie,
rispettivamente di uno e due anni.
Carlos, trentatre anni, simpatico, tracagnotto, fissato, tenace,
esiliato politico; impegnato in una ricerca sociale che un giorno
gli permetterà di scoprire le leve con cui sovvertire
il mondo.
In due parole la sinossi.
La storia prende il via all'inizio degli anni cinquanta, quando
nell'inverno nasce il primo figlio maschio di Carlos e Jenny,
Guido, che risulta di salute cagionevole. Contemporaneamente,
anche Elena rimane incinta, misteriosamente, senza avere avuto
negli ultimi mesi alcun fidanzamento o relazione ufficiale con
uomini al di fuori della famiglia o dei visitatori.
La casa di Carlos e Jenny è misera, in due piccole stanze
sono ammassati i bambini e quattro adulti, poiché si
è unita al gruppo un'amica di Jenny. Carlos prende l'abitudine
di lavorare ai suoi articoli e saggi nella biblioteca pubblica
e a volte, tra una cospirazione e l'altra, insieme a diversi
gruppi di esiliati, tiene conferenze in alcuni circoli operai.
La situazione economica è patetica, a volte sono costretti
a portare al Monte di pietà il corredo di famiglia per
poter mangiare, gli abitanti della casa soffrono di stenti.
Fede fa loro visita molto spesso, collabora ai lavori di Carlos
e il suo arrivo rappresenta l'unico momento di gioia (e le uniche
risorse economiche) della famiglia.
Nell'aprile del 1951 nasce il figlio di Elena, a cui verrà
imposto il nome di Enrique Federico (!) e sarà affidato
per lo svezzamento a una famiglia operaia.
Le voci e le maldicenze attribuiscono la paternità del
figlio della domestica a Fede che, pur senza confermarlo, non
lo nega, ammettendo di fatto che le voci contengono un fondo
di verità. La situazione particolare è tesa tuttavia
non sembra turbare le abitudini quotidiane della famiglia.
Il figlio maschio di Carlos muore. Enrique Federico cresce al
di fuori della famiglia. Sarà operaio e più tardi
tecnico, avrà un figlio, manterrà rapporti di
amicizia con le figlie di Carlos, vedrà con una certa
frequenza la madre.
Con il trascorrere degli anni, più di quaranta, e dopo
la morte del suo grande amico Carlos e di Jenny, Fede si ammala
gravemente. Negli ultimi giorni di vita convoca l'amico Samuel
e gli fa la seguente confessione: “Enrique Federico, il
figlio di Elena, era figlio di Carlos, non mio. Ti autorizzo
a renderlo pubblico solo in caso mi si accusi ingiustamente
di non essermi preso cura di quel bambino”.
II
E allora, la telenovela e si un genere di destra,
ma ogni tanto, e senza esagerare nel campionario di pretesti
sociali che dovranno fare da sfondo alla storia precedentemente
narrata, sembra possibile che lo sia con personaggi di sinistra.
A questo punto, il lettore, presumibilmente di sinistra, ha
deciso che a lui non piacciono le telenovelas, che questa storia
è sciocca, letterariamente non vale un accidente, non
avrà molta simpatia per Carlos e ammirerà sotto
sotto la generosità di Fede, che gli copre le spalle.
Però se Carlos di cognome fa Marx e Fede(rico) è
Engels e Jenny è una Westphalen ed Elena è Helen
Demuth, la celeberrima Lenchen, che fu il vero sostegno della
famiglia Marx, e la casa è il piccolo appartamento al
28 di Dean Street, ed effettivamente siamo alla metà
del secolo, però del secolo XIX, e i Marx si trovano
a Londra esiliati in seguito alla sconfitta dei moti del 1848
nell'Europa continentale, la storia di Frederick Demuth, l'unico
figlio maschio e non riconosciuto di Marx, acquista un certo
interesse.
Non ci sono più dubbi su chi fosse il padre di F. Demuth.
Eleonor Marx, venuta a conoscenza della versione del socialista
inglese Sam Moore, andò a far visita a Engels pochi giorni
prima della sua morte per ottenere una confessione di prima
mano su chi fosse il padre di quello che sarebbe risultato essere
il suo fratellastro. Engels non si trovava nelle condizioni
di parlare, dato lo stadio avanzato del cancro all'esofago,
ma confermò per iscritto ciò che Eleonor domandava,
la quale Eleonor a sua volta lasciò di suo pugno una
testimonianza di questa storia in una lettera ad August Bebel
(che è a disposizione dei lettori presso l'Istituto internazionale
di studi sociali di Amsterdam). Altre versioni confermano il
racconto.
F. Demuth visse una vita priva di nota, anche se con qualche
piccolo mistero, fu operaio e meccanico e morì nel 1929
a settantotto anni per arresto cardiaco.
Stranamente non ci sono accenni della vicenda nei dieci tomi
della corrispondenza fra Marx ed Engels. Le biografie più
documentate sui due personaggi, quella di Mehring e quella di
Gustav Mayer, non fanno cenno a questa storia. E non lo fa nemmeno
Hans Magnus Enzensberger
nei suoi Colloqui con Marx ed Engels, ne Isaiah Berlin.
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