Paco Ignacio Taibo II

 

Rivoluzionari di passaggio
1986 - Marco Troppa Editore pag.144


 

Due

«In Messico?» domandai a Sebastian San Vicente sessantacinque anni dopo.
«E perché no, cazzo?»
Lì non ce la troverà la rivoluzione, San Vicente; nel 1920 il paese era esausto per troppa lotta armata, per troppi morti, per troppe promesse non mantenute. Non c'era nemmeno un'organizzazione-sindacale anarchica, anche se la CGT sarebbe nata qualche mese dopo.
«Non ho bisogno di nessuna rivoluzione che mi aspetti. Uno la rivoluzione ce l'ha dentro e se la porta di qua e di là. Come i bagagli.»
«Sembrano le parole di una canzone.»
«Proprio così, ne più ne meno» disse con un sorriso. E scomparve lungo il ponte del Sea wolf coperto dalla fine rugiada d'acqua prodotta dalla mareggiata che s'infrangeva contro coperta, dando inizio a questa storia. Io me ne stavo nella mia casa a Città del Messico sessantacinque anni dopo, osservando la notte che brillava attraverso la finestra. L'unica cosa che mi seccava era che nel 1920 mancavano ancora ventinove anni alla mia nascita.

Tre

Mi ero detto che quel giorno compivo sedici anni, che ormai avevo l'età di un uomo. Non mi diedi retta. Me ne andai lo stesso al molo per vedere la gente che sbarcava. Lungo tutta la strada sapevo bene che stavo andando al porto e non importava se chiudevo gli occhi, perché non mi sarei mai potuto perdere, perché mi bastava il naso per arrivarci seguendo l'odore di grasso rancido, di rifiuti, di sudore, di fritto. E se non potevo annusare, potevo ascoltare, perché quel vento portava anche rumori: i motori delle gru, gli ingranaggi che cigolavano, la musica un po' triste del Tropical, un bar di puttane. Il vento portava molte cose, quel giorno, perché non capita spesso di compiere sedici anni, di diventare grande, incontenibile dentro la tuta da lavoro grigia e sotto il cappello di paglia che un vecchio mi aveva regalato, perché un altro vecchio glielo aveva regalato quando era giovane. Il vento aveva profumo di dollari, di banconote dall'inchiostro verde e fresco, banconote lucenti, di quelle che io non possedevo, e il vento aveva odore di petrolio, perché tutta Tampico odora di petrolio, e il vento suonava come un bolero romantico.
Da quei suoni, da quegli odori che ricordo, penso che allora sapessi che stavo andando al porto per vedere navi su cui non sarei partito. Quegli odori mi fanno pensare che Tampico è cambiata, che non odora più di dollari. Ma allora non la pensavo così, non potevo neppure immaginare che quei cappelli di paglia fossero migliori di quelli che fanno adesso.
Quel giorno l'odore era lì, e io stavo con lui, e l'odore di vento di mare, di grasso rancido, di petrolio e di dollari veniva giù dalle palme, scendeva dai muri delle case bianche e sembrava quasi macchiato di sole.
Sbarcavano dal Morro Castle, un grazioso vaporetto della Ward Line, e dal Seawoif, che faceva rotta da New York a Tampico prima di proseguire per Veracruz e poi fino a Panama, per tornare via L'Avana e New Orleans. La passerella era stata calata e, di sotto, su un tavolino pieghevole, gli agenti di polizia timbravano passaporti e prendevano con abilità (maghi, prestigiatori) le mazzette, tributo al dio che governa qui. I sacerdoti della chiesa del signore delle mazzette mi guardarono storto perché non fanno piacere gli intrusi durante il rituale di sfilar via soldi agli stranieri; era un rapporto privato tra loro e gli stranieri, come tra la puttana e il cliente, senza curiosi. Feci una risata con la faccia da «ce n'e per tutti», che viene capita, e in fretta, tra la gente del mestiere, e spiegai a gesti che venivo a caricare valige grasse in cambio di mance magre, con l'aiuto di Dio; e anche senza, perché con Dio, allora, avevo poco a che fare, e adesso niente.


Quattro

Non esistono fotografie di San Vicente. Neppure una. Ho l’impressione (da dove mi arriva?) che fosse un po' contratto, teso. C'è un disegno che lo ritrae, pubblicato in El Denzocrata (febbraio 1921, Città del Messico), l'ho qui tra le mani. Sopracciglia vicine, naso adunco, vestito un po' frusto e gilet; i capelli pettinati all'indietro. Dimostra una quarantina d'anni. Sbagliato, non ne ha più di trenta. L'impressione è che... Non so che cazzo d'impressione sia. Probabilmente perché il disegno non coincide con l'immagine che mi sono formato in testa. Quello che mi da fastidio in questo ritaglio di giornale è che qui San Vicente non sembra un uomo allegro, ha quella sorta di rigidità esteriore, che viene da una rigidità interiore. La soluzione potrebbe essere immaginarlo con un mezzo sorriso. Uno di quei sorrisi che garantiscono al loro proprietario una doppia beffa (del mondo e di se stesso come protagonista di una tragedia un po' assurda). Gli mancano i baffi. Dev'essere questo, gli mancano i baffi.

«Mi scusi, Miguel ma io non posso esserle utile come personaggio di un romanzo, nemmeno come uno di quelli che compaiono soltanto ogni tanto per complicare la trama. lo sono un uomo di passaggio. Sono qui e non ci sono. Certe volte, per cose molto importanti, ho spiegazioni abbastanza stupide.»

Ventisette

Questa città non è quella città. Quella città non è questa. Sessant'anni non sono passati invano. Non si tratta di ritrovare nel mostro di oggi la Città del Messico del '23. E nemmeno mi vedo coinvolto in un gioco di nostalgie per cose che non ho visto, che difficilmente posso indovinare. Si tratta di un problema professionale. Una volta stabilito che quella città non e questa, c'è il problema di trovarla, quella città. I giornali riportano illustrazioni, parlano di linee tranviarie, di vasti terreni su cui verdeggiava il mais, attraversati da un sentiero su cui arrancavano le Ford e le Packard. I giomali possono fornire il fondale, la scena: due macchie laggiù, una strada, un venditore di uccelli, una struttura coloniale, dieci tram nella rimessa, due uomini a cavallo a metà del Paseo de la Reforma. Non è questo. E’ qualcosa di più, qui sta il pericolo. L'invito a credere che una città non sia il fondale. Mi manca il polso, il cuore della città, quelle vibrazioni nell'aria, che si celano nella musica della domenica, negli odori provinciali che neppure la grande città riesce a nascondere. E San Vicente si muove su un grande fondale, una città senz'anima. E questa è colpa mia, non sua.

Cinquantadue

Allora, sembra che te ne stai andando, che ormai posso allungare ben poco la storia con cui ci siamo fatti compagnia in queste ultime notti. Niente dura in eterno, Sebastian, dico a te e dico alla macchina per scrivere che, abituata ai monologhi, non risponde più. Perché questa storia per me finisce in Messico, ma tu la farai continuare oltre le coste del Golfo e oltre le palme di Veracruz. Dove? Non ne ho idea. Le tue tracce sono svanite. I San Vicente dell'elenco telefonico di Gijon non sanno niente di te. Non ci sono tue tracce negli archivi della CNT di Amsterdam, nei segni del tuo passaggio nella rivoluzione asturiana del '34. Il tuo nome non figura nei registri dell'esercito del nord all'archivio di Salamanca. Non c'è niente che ti riguardi negli archivi nazionali francesi ne in quelli di Washington e, stando al computer, l'FBI si dimentica di te a partire dal 1922. Non sei dove dovresti essere. Alla Biblioteca Nacional dell'Avana, le raccolte dei giornali non mi hanno restituito il tuo nome, quando le ho consultate. Dove diavolo ti sei ficcato? Dove ti sei portato la rivoluzione? Queste sono cose che dovresti dirmi. A volte penso che dovresti aver lasciato qualche traccia in una conversazione, in una lettera, in un pezzo di carta. Dove ti sei cacciato? Con i wobblies in Cile? Nella rivoluzione cinese a partire dal '25? Hong Kong, Canton, Shanghai nel '27? La Germania? Amburgo? La Spagna: Madrid, Barcellona, l'Andalusia? L’Africa? Altre palme? L'Argentina? Cerco nella raccolta de La Protesia, che si trova nell'archivio di Valades, dal 1925 al 1928. E’ come cercare un puntino su una carta geografica in movimento, la fantasia potrebbe fornire gli anelli mancanti tra il Sebastian San Vicente che viene estradato dal Messico nel luglio 1923 e lo spagnolo amico di Otto Braun (Li-Teh) nella Lunga marcia cinese del '34.
Con un po' di artifici si potrebbe collegare l'uomo che osserva il Golfo del Messico all'amico spagnolo di Pomerov nella ribellione huk delle Filippine. Si potrebbe dire che San Vicente era il colombiano Sanchez, quello che aiuta Durruti ad assaltare una banca a Buenos Aires. Ma gli anelli non resistono alla tensione: si aprono e lasciano un uomo sul molo di Veracruz. Un uomo che si dissolve, che si fa fumo in quella cosa che per cattiva abitudine chiamiamo storia, e che condanniamo a far parte del passato.
Dal molo, qualche istante prima di svanire, mi rivolgi un sorriso divertito. Stanotte, mentre scrivo a macchina davanti alla finestra, ti ricambio il sorriso.

 


 

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