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Due
«In Messico?» domandai a Sebastian
San Vicente sessantacinque anni dopo.
«E perché no, cazzo?»
Lì non ce la troverà la rivoluzione, San Vicente;
nel 1920 il paese era esausto per troppa lotta armata, per troppi
morti, per troppe promesse non mantenute. Non c'era nemmeno
un'organizzazione-sindacale anarchica, anche se la CGT sarebbe
nata qualche mese dopo.
«Non ho bisogno di nessuna rivoluzione che mi aspetti.
Uno la rivoluzione ce l'ha dentro e se la porta di qua e di
là. Come i bagagli.»
«Sembrano le parole di una canzone.»
«Proprio così, ne più ne meno» disse
con un sorriso. E scomparve lungo il ponte del Sea wolf coperto
dalla fine rugiada d'acqua prodotta dalla mareggiata che s'infrangeva
contro coperta, dando inizio a questa storia. Io me ne stavo
nella mia casa a Città del Messico sessantacinque anni
dopo, osservando la notte che brillava attraverso la finestra.
L'unica cosa che mi seccava era che nel 1920 mancavano ancora
ventinove anni alla mia nascita.
Tre
Mi ero detto che quel giorno compivo sedici
anni, che ormai avevo l'età di un uomo. Non mi diedi
retta. Me ne andai lo stesso al molo per vedere la gente che
sbarcava. Lungo tutta la strada sapevo bene che stavo andando
al porto e non importava se chiudevo gli occhi, perché
non mi sarei mai potuto perdere, perché mi bastava il
naso per arrivarci seguendo l'odore di grasso rancido, di rifiuti,
di sudore, di fritto. E se non potevo annusare, potevo ascoltare,
perché quel vento portava anche rumori: i motori delle
gru, gli ingranaggi che cigolavano, la musica un po' triste
del Tropical, un bar di puttane. Il vento portava molte cose,
quel giorno, perché non capita spesso di compiere sedici
anni, di diventare grande, incontenibile dentro la tuta da lavoro
grigia e sotto il cappello di paglia che un vecchio mi aveva
regalato, perché un altro vecchio glielo aveva regalato
quando era giovane. Il vento aveva profumo di dollari, di banconote
dall'inchiostro verde e fresco, banconote lucenti, di quelle
che io non possedevo, e il vento aveva odore di petrolio, perché
tutta Tampico odora di petrolio, e il vento suonava come un
bolero romantico.
Da quei suoni, da quegli odori che ricordo, penso che allora
sapessi che stavo andando al porto per vedere navi su cui non
sarei partito. Quegli odori mi fanno pensare che Tampico è
cambiata, che non odora più di dollari. Ma allora non
la pensavo così, non potevo neppure immaginare che quei
cappelli di paglia fossero migliori di quelli che fanno adesso.
Quel giorno l'odore era lì, e io stavo con lui, e l'odore
di vento di mare, di grasso rancido, di petrolio e di dollari
veniva giù dalle palme, scendeva dai muri delle case
bianche e sembrava quasi macchiato di sole.
Sbarcavano dal Morro Castle, un grazioso vaporetto della Ward
Line, e dal Seawoif, che faceva rotta da New York a Tampico
prima di proseguire per Veracruz e poi fino a Panama, per tornare
via L'Avana e New Orleans. La passerella era stata calata e,
di sotto, su un tavolino pieghevole, gli agenti di polizia timbravano
passaporti e prendevano con abilità (maghi, prestigiatori)
le mazzette, tributo al dio che governa qui. I sacerdoti della
chiesa del signore delle mazzette mi guardarono storto perché
non fanno piacere gli intrusi durante il rituale di sfilar via
soldi agli stranieri; era un rapporto privato tra loro e gli
stranieri, come tra la puttana e il cliente, senza curiosi.
Feci una risata con la faccia da «ce n'e per tutti»,
che viene capita, e in fretta, tra la gente del mestiere, e
spiegai a gesti che venivo a caricare valige grasse in cambio
di mance magre, con l'aiuto di Dio; e anche senza, perché
con Dio, allora, avevo poco a che fare, e adesso niente.
Quattro
Non esistono fotografie di San Vicente. Neppure
una. Ho l’impressione (da dove mi arriva?) che fosse un
po' contratto, teso. C'è un disegno che lo ritrae, pubblicato
in El Denzocrata (febbraio 1921, Città del Messico),
l'ho qui tra le mani. Sopracciglia vicine, naso adunco, vestito
un po' frusto e gilet; i capelli pettinati all'indietro. Dimostra
una quarantina d'anni. Sbagliato, non ne ha più di trenta.
L'impressione è che... Non so che cazzo d'impressione
sia. Probabilmente perché il disegno non coincide con
l'immagine che mi sono formato in testa. Quello che mi da fastidio
in questo ritaglio di giornale è che qui San Vicente
non sembra un uomo allegro, ha quella sorta di rigidità
esteriore, che viene da una rigidità interiore. La soluzione
potrebbe essere immaginarlo con un mezzo sorriso. Uno di quei
sorrisi che garantiscono al loro proprietario una doppia beffa
(del mondo e di se stesso come protagonista di una tragedia
un po' assurda). Gli mancano i baffi. Dev'essere questo, gli
mancano i baffi.
«Mi scusi, Miguel ma io non posso esserle
utile come personaggio di un romanzo, nemmeno come uno di quelli
che compaiono soltanto ogni tanto per complicare la trama. lo
sono un uomo di passaggio. Sono qui e non ci sono. Certe volte,
per cose molto importanti, ho spiegazioni abbastanza stupide.»
Ventisette
Questa città non è quella città.
Quella città non è questa. Sessant'anni non sono
passati invano. Non si tratta di ritrovare nel mostro di oggi
la Città del Messico del '23. E nemmeno mi vedo coinvolto
in un gioco di nostalgie per cose che non ho visto, che difficilmente
posso indovinare. Si tratta di un problema professionale. Una
volta stabilito che quella città non e questa, c'è
il problema di trovarla, quella città. I giornali riportano
illustrazioni, parlano di linee tranviarie, di vasti terreni
su cui verdeggiava il mais, attraversati da un sentiero su cui
arrancavano le Ford e le Packard. I giomali possono fornire
il fondale, la scena: due macchie laggiù, una strada,
un venditore di uccelli, una struttura coloniale, dieci tram
nella rimessa, due uomini a cavallo a metà del Paseo
de la Reforma. Non è questo. E’ qualcosa di più,
qui sta il pericolo. L'invito a credere che una città
non sia il fondale. Mi manca il polso, il cuore della città,
quelle vibrazioni nell'aria, che si celano nella musica della
domenica, negli odori provinciali che neppure la grande città
riesce a nascondere. E San Vicente si muove su un grande fondale,
una città senz'anima. E questa è colpa mia, non
sua.
Cinquantadue
Allora, sembra che te ne stai andando, che
ormai posso allungare ben poco la storia con cui ci siamo fatti
compagnia in queste ultime notti. Niente dura in eterno, Sebastian,
dico a te e dico alla macchina per scrivere che, abituata ai
monologhi, non risponde più. Perché questa storia
per me finisce in Messico, ma tu la farai continuare oltre le
coste del Golfo e oltre le palme di Veracruz. Dove? Non ne ho
idea. Le tue tracce sono svanite. I San Vicente dell'elenco
telefonico di Gijon non sanno niente di te. Non ci sono tue
tracce negli archivi della CNT di Amsterdam, nei segni del tuo
passaggio nella rivoluzione asturiana del '34. Il tuo nome non
figura nei registri dell'esercito del nord all'archivio di Salamanca.
Non c'è niente che ti riguardi negli archivi nazionali
francesi ne in quelli di Washington e, stando al computer, l'FBI
si dimentica di te a partire dal 1922. Non sei dove dovresti
essere. Alla Biblioteca Nacional dell'Avana, le raccolte dei
giornali non mi hanno restituito il tuo nome, quando le ho consultate.
Dove diavolo ti sei ficcato? Dove ti sei portato la rivoluzione?
Queste sono cose che dovresti dirmi. A volte penso che dovresti
aver lasciato qualche traccia in una conversazione, in una lettera,
in un pezzo di carta. Dove ti sei cacciato? Con i wobblies in
Cile? Nella rivoluzione cinese a partire dal '25? Hong Kong,
Canton, Shanghai nel '27? La Germania? Amburgo? La Spagna: Madrid,
Barcellona, l'Andalusia? L’Africa? Altre palme? L'Argentina?
Cerco nella raccolta de La Protesia, che si trova nell'archivio
di Valades, dal 1925 al 1928. E’ come cercare un puntino
su una carta geografica in movimento, la fantasia potrebbe fornire
gli anelli mancanti tra il Sebastian San Vicente che viene estradato
dal Messico nel luglio 1923 e lo spagnolo amico di Otto Braun
(Li-Teh) nella Lunga marcia cinese del '34.
Con un po' di artifici si potrebbe collegare l'uomo che osserva
il Golfo del Messico all'amico spagnolo di Pomerov nella ribellione
huk delle Filippine. Si potrebbe dire che San Vicente era il
colombiano Sanchez, quello che aiuta Durruti ad assaltare una
banca a Buenos Aires. Ma gli anelli non resistono alla tensione:
si aprono e lasciano un uomo sul molo di Veracruz. Un uomo che
si dissolve, che si fa fumo in quella cosa che per cattiva abitudine
chiamiamo storia, e che condanniamo a far parte del passato.
Dal molo, qualche istante prima di svanire, mi rivolgi un sorriso
divertito. Stanotte, mentre scrivo a macchina davanti alla finestra,
ti ricambio il sorriso.
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