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l'inizio...
Ecco,
per stilare una classifica, le cinque più memorabili
fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico:
1)
Alison Ashworth 2) Penny Ilardwick 3) Jackie Allen 4) Charlie
Nicholson 5) Sarah Kendrew.
Ecco
quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome
li in mezzo, Laura? Ammetto che rientreresti fra le prime dieci,
ma non c'è spazio per te fra le prime cinque; sono posti
destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente
non sei in grado di appioppare. Questo forse suona più
cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo
troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è
un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non
prenderla sul piano personale. Quei tempi. sono passati, e che
liberazione, cazzo; l'infelicità significava davvero
qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po'
come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente
incasinarmi, dovevi arrivare prima.
1. Alison Ashworth (1972)
Quasi
tutti i pomeriggi, ciondolavamo ai giardinetti che stavano proprio
dietro casa mia. Vivevo nello Hertfordshire, ma avrebbe potato
benissimo trattarsi di un qualsiasi sobborgo inglese: il solito
genere di sobborgo, col solito genere di giardinetti - a tre
minuti da casa, giusto dall'altra parte della strada, davanti
a una breve fila di negozi (un supermercato, un giornalaio,
un negozio di liquori). Niente ti aiutava a orientarti; se i
negozi erano aperti (e chiudevano alle cinque e mezza, e all'una
il giovedì, e per tutto il giorno la domenica), magari
potevi andare dal giornalaio e dare un'occhiata al giornale
locale, ma anche questo non era detto che ti mettesse sulla
pista giusta.
Avevamo dodici o tredici anni, e avevamo scoperto da poco l'ironia
- o almeno, quella che poi compresi essere l'ironia: ci sentivamo
liberi di usare l'altalena, la giostra e gli altri giochi per
bambini che arrugginivano lì ai giardinetti, solo a condizione
di ostentare una specie di distacco voluto e ironico. Il che
implicava o affettare distrazione (e in questo caso si poteva
fischiettare, o chiacchierare, o giocherellare con un mozzicone
di sigaretta o con una scatola di fiammiferi); oppure sfidare
il pericolo, e quindi buttarsi dall'altalena quando toccava
il punto più alto, saltare dalla giostra quando era lanciata
al massimo della velocità, o aggrapparsi al dondolo finché
non raggiungeva una posizione quasi verticale. Se in un modo
o nell'altro riuscivi a dimostrare che in questi divertimenti
infantili potevi rischiarci la pelle, allora giocarci diventava
ok.
Non avevamo ironia, però, in fatto di ragazze. Non c'era
stato tempo. Un attimo non esistevano, almeno non in un qualche
modo per noi interessante, e l'attimo dopo non potevi evitarle:
erano dappertutto, erano ovunque. Un attimo avevi voglia di
dargli una botta in testa perché erano tua sorella, o
la sorella di qualcun altro, e l'attimo dopo volevi... in realtà,
non sapevamo mica cosa volessimo dopo, ma era qualcosa, qualcosa.
Quasi all'improvviso, tutte queste sorelle (non esisteva altro
tipo di ragazze, non ancora) erano diventate interessanti, persino
inquietanti.
Vedi, noi non eravamo tanto diversi da prima. C'era venuta la
voce stridula, ma la voce stridula non è un grande aiuto
- ti rende ridicolo, indesiderabile. E i peli che ci stavano
spuntando sul pube erano il nostro segreto, un segreto strettamente
conservato fra noi e i nostri slip, e sarebbero passati anni
prima che un membro del sesso opposto verificasse che erano
proprio dove dovevano essere. Le ragazze, invece, tutto ad un
tratto avevano il seno e, insieme a quello, un nuovo modo di
camminare con le braccia incrociate sul petto, un atteggiamento
che nascondeva e allo stesso tempo evidenziava quanto era appena
accaduto. E poi ecco trucco e profumo, sempre da quattro soldi,
e usati in modo inesperto, a volte persino comico, ma comunque
un segno piuttosto terrificante di come le cose fossero andate
avanti a nostra insaputa, senza di noi, al di là di noi.
Cominciai a uscire con una di queste ragazze... no, non è
esatto, perché io non ebbi alcuna parte nella decisione.
Ma nemmeno posso dire che lei cominciò a uscire con me.
Il problema sta nell'espressione “uscire con”, che
sottintende una sorta di parità ed eguaglianza. Invece
ciò che accadde fu che Alison, la sorella di David Ashworth,
si staccò dal capannello femminile che si raccoglieva
tutte le sere vicino alla panchina e mi adottò, mi mise
sotto la sua ala e mi portò via dal dondolo.
Adesso non riesco più a ricordare come fece. Credo che
lì per lì nemmeno mi resi conto di quanto stava
succedendo, ricordo infatti che a metà strada verso il
nostro primo bacio, il primo bacio della mia vita, provai una
sensazione di totale sbigottimento: non mi capacitavo che Alison
Ashworth e io fossimo diventati tanto intimi. Non sapevo con
precisione nemmeno come fossi finito dalla sua parte dei giardinetti,
lontano da suo fratello, da Mark Godfrey e dagli altri, né
come ci fossimo allontanati dal gruppo delle sue amiche, né
come lei avesse avvicinato la sua faccia alla mia facendomi
capire che dovevo mettere la mia bocca sulla sua. Tutto l'episodio
è al di là di qualsiasi spiegazione razionale.
Ma le cose andarono proprio così, e si ripeterono, pressoché
uguali, il pomeriggio dopo, e quello dopo ancora.
Cosa credevo di fare? E lei cosa credeva di fare? Adesso, se
mi viene voglia di baciare qualcuna in quel modo, con la bocca,
la lingua e tutto il resto, è perché voglio anche
altre cose: sesso, venerdì sera al cinema, compagnia
e conversazione, fusione della rete famigliare e amicale, che
mi si porti lo sciroppo a letto quando sono malato, un paio
di cuffie nuove per ascoltare i miei dischi e i miei cd, e forse
un bambino
***
frammenti
Il mio negozio si
chiama Championship Vinyl. Vendo dischi di musica punk, blues,
soul e R&B, un po' di ska, qualcosina delle Antille, alcuni
pop degli anni sessanta - tutto per il serio collezionista di
dischi, come dice la scritta, ironicamente all'antica, sulla
vetrina. Stiamo in una tranquilla strada di Halloway, prudentemente
piazzati in modo da attirare il minor numero possibile di curiosi
di passaggio; non c'è nessuna ragione di capitare qui,
a meno che uno non viva da queste parti, e la gente che vive
da queste parti non sembra esageratamente interessata al mio
Stiff Little Fingers etichetta bianca (per voi venticinque sterline
- a me ne è costato diciassette, nel 1986) o alla mia
unica copia di Blonde on Blonde.
Riesco a tirare avanti grazie ai miei clienti regolari, gente
che fa di tutto pur di venire qui il sabato a fare acquisti
- sono uomini giovani, sempre uomini giovani, con gli occhiali
alla John Lennon e la giacca di cuoio e le braccia piene di
buste di carta quadrate - e grazie alle ordinazioni per posta:
mi faccio pubblicità sulle retrocopertine delle riviste
di rock, e ricevo lettere di giovani uomini, sempre giovani
uomini, che scrivono da Manchester e Glasgow e Ottawa, giovani
uomini che sembrano spendere una quantità spropositata
di tempo cercando vecchi quarantacinque giri degli Smiths ormai
fuori catalogo e introvabili album di Frank Zappa: <<
LE VERSIONI ORIGINALI, NON LE RIEDIZIONI >>. Tutta gente
a un passo dalla pazzia, chiaro.
Sono in ritardo, e quando arrivo al negozio vedo che c'è
già Dick, sta appoggiato alla porta e legge un libro.
Dick ha trentun anni, i capelli neri, lunghi e grassi; porta
una maglietta dei Sonic Youth, una giacca di cuoio nero che
virilmente vuol mostrare di avere visto tempi migliori, anche
se l'ha comprata solo l'anno scorso, e un walkman con un paio
di cuffie ridicolmente grandi che gli cancellano non solo le
orecchie, ma anche mezza faccia. E libro è una biografia
di Lou Reed in brossura. La borsa ai suoi piedi - che davvero
ha visto giorni migliori - porta la pubblicità di una
casa discografica americana indipendente e tremendamente alla
moda; Dick ha rivoltato mezzo mondo per procurarsela, e diventa
sempre molto nervoso quando le passiamo vicino. La usa per portare
in giro i nastri; Dick ha sentito quasi tutta la musica che
abbiamo in negozio, e preferisce portarsi da casa roba nuova
che ascolta mentre lavora - nastri di amici ed edizioni pirata
ordinate per posta - piuttosto che sprecare tempo a sentire
qualcosa una seconda volta.
(<< Ti va di venire a pranzo con noi al pub, Dick? >>
gli domandiamo Barry e io, un paio di volte a settimana. Lui
lancia un'occhiata dolente alla sua pila di cassette e sospira.
<< Non dico che non mi piacerebbe, ma ho ancora tutta
questa roba da sentire. >>)
Ciao, Richard.
Lui armeggia nervosamente con le gigantesche cuffie, ne allontana
una dall'orecchio e l'altra gli scivola sull'occhio.
Oh, ciao. Ciao, Rob.
Scusami, ho fatto tardi.
Non c'è problema.
Bello il fine settimana?
Mentre apro il negozio, lui annaspa raccattando la sua roba.
Tutto bene, si, ok. A Camden ho trovato il primo album dei Liquorice
Comfits. Quello pubblicato dalla Testament of Youth. Qui non
l'hanno mai stampato. Solo importato dal Giappone.
Magnifico. - Non so di che cazzo stia parlando.- Ti faccio un
nastro.
Grazie.
Perché mi ricordo che dicesti che il loro secondo disco
t'era piaciuto, Pop, girls, etc... Quello con Hattie Jacques
in copertina. La copertina pero non l’hai vista. Hai visto
solo il nastro che t'ho fatto io.
Non nutro alcun dubbio circa il fatto che Dick possa avermi
registrato un nastro dal secondo album dei Liquorice Comfits,
e anche che io possa avergli detto che mi piaceva. Ho la casa
piena di nastri che Dick mi ha registrato, e che io, nella maggior
parte dei casi, non ho mai ascoltato.
E tu? Il tuo fine settimana? Bello? Brutto?
Non riesco a immaginare che genere di conversazione potrebbe
venire fuori se raccontassi a Dick il mio fine settimana. Probabilmente
resterebbe di sasso se gli dicessi che Laura se n'è andata.
Dick non è ferrato in questo genere di argomenti; in
realtà, se mai dovessi confessargli qualcosa di natura
anche solo remotamente personale - che ho avuto una madre e
un padre, per esempio, o che sono andato a scuola, quando ero
ragazzo - suppongo che semplicemente arrossirebbe, e farfuglierebbe
qualcosa di incomprensibile per poi domandarmi se ho sentito
il nuovo album dei Lemonheads.
Una via di mezzo. Qualcosa di bello e qualcosa di brutto.
Annuisce. - Questa ovviamente è la risposta giusta.
Il negozio puzza di fumo rancido, di umido, e di copertine plastificate,
ed è stretto e squallido e sporco e stipato, un po' perché
e cosi che lo volevo - questo è l'aspetto che deve avere
un negozio di dischi, e solo i fan di Phil Collins amano i negozi
dall'aria pulita e salubre come un quartiere residenziale in
periferia - e un po' perché non riesco a decidermi a
ripulirlo o a far rimbiancare le pareti.
Ci sono espositori coi dischi lungo ogni parete, e un altro
paio davanti alla vetrina, e i cd e le cassette sono dentro
dei contenitori di vetro appesi alle pareti, è più
o meno e tutto qui; il negozio è grande quanto basta,
purché non ci siano clienti, per cui nella maggior parte
delle giornate risulta della grandezza giusta. Lo sgabuzzino
sul retro é quasi più ampio della zona anteriore
destinata a negozio, ma non ci teniamo dentro proprio niente,
davvero, giusto qualche pila di dischi di seconda mano che nessuno
si è ancora preso la briga di prezzare, così più
che altro serve per i momenti d'ozio. A esser franco, la vista
di questo posto mi dà la nausea. Certi giorni ho paura
di lasciarmi andare alla furia cieca, di strappare il mobile
di Elvis Costello dal soffitto, di buttare l'espositore dei
“Cantanti Country (maschi) A-K” in mezzo alla strada,
e andare a lavorare in un grande magazzino della Virgin e non
tornare mai più.
Dick mette su un disco, una roba psichedelica della West Coast,
e prepara il caffè mentre io esamino la posta; e poi
beviamo il caffè; e poi lui prova a ficcare ancora qualche
disco negli espositori straboccanti e scricchiolanti, mentre
io impacchetto un paio di ordinazioni arrivate per posta; e
poi do un'occhiata al cruciverba del Guardian, mentre lui legge
una rivista di dischi di importazione americana; poi lui da
un'occhiata al cruciverba del Guardian, mentre lo leggo la rivista
di dischi di importazione americana; e quasi senza che ce ne
accorgiamo, arriva il momento che tocca a me preparare il caffè.
Alle undici e mezza, vacillando, entra un certo Johnny, un ubriacone
irlandese che viene regolarmente a trovarci un tre volte a settimana,
per cui le sue visite hanno finito col diventare come le battute
e le coreografie di un copione che né Johnny né
io vogliamo modificare. In questo mondo ostile e imprevedibile,
noi facciamo assegnamento l'uno sull'altro per darci reciprocamente
qualcosa su cui contare.
Vaffanculo, Johnny -, gli dico io.
Così per te i miei soldi non son buoni? -dice lui.
Tu non c'hai un soldo. E noi non abbiamo niente che tu voglia
comprare.
Gli do quest'imbeccata e lui si lancia in una appassionata interpretazione
di “All kinds of everything” di Dana; e qui tocca
a me: esco da dietro il banco e lo trascino verso la porta;
poi tocca a lui, e si getta su uno degli espositori; poi tocca
a me, e con una mano apro la porta del negozio e con l'altra
cerco di allentare la sua presa sull'espositore per spingerlo
in strada. Escogitammo queste mosse un paio d'anni fa, così
adesso le sappiamo a menadito.
Johnny è l'unico a entrare in negozio durante tutta la
mattinata. Questo non è un lavoro per gente sfrenatamente
ambiziosa.
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