Dan Fante

 

 

Angeli a pezzi
1999 - Marcos y Marcos, pag.212

 

Specialità di casa Fante è parlare del babbo: così Dan Fante, alias Bruno Dante, si tuffa in un ritratto del proprio rapporto di terrore e devozione per Jonathan, scrittore dal grande talento misconosciuto, stritolato dalle grinfie di Hollywood.
Bruno Dante è un uomo sulla cinquantina, generoso e passionale, sfiancato da mille rovinosi tentativi di redimere un carattere terribile e combinare qualcosa di buono: il suo sogno è sfoderare finalmente la maledetta vena di scrittore, soffocata dalla sfortuna e dai doveri della vita.
Chiamato a rendere un ultimo omaggio al padre gravemente malato, attraversa in volo l'America con la moglie, che ormai lo disprezza apertamente.
Costretto ad affrontare inerme l'inferno degli sguardi cattivi di famiglia, si avvicina al capezzale del padre con ansia ed estremo riguardo; ed è l'unico, forse, a comprendere nel profondo il genio del grande scrittore.
Sullo sfondo, un'America kafkiana, una Los Angeles da tregenda, percorsa in compagnia di Rocco, malandato bull terrier del padre e di una bambina prostituta con cui stabilisce una effimera ed eccezionale solidarietà.
Angeli a pezzi è un libro ruvido e talvolta disperato — qualcuno l'ha definito più bukowskiano di Bukowski — ma pieno di polpa su cui riflettere.
Come tutti i libri a firma Fante, ha il raro pregio dell'immediatezza, della sincerità e di poesia.

 

***

l'inizio...

Mi chiamo Bruno Dante e vi racconto come andarono veramente le cose. Il 4 dicembre, quelli del reparto alcolizzati e malati di mente dell'ospedale San Giuseppe di Cupertino, a Mosholu Parkway nel Bronx, mi autorizzarono a smammare. Libero, di nuovo. Anche questa volta mi ci erano voluti ventotto giorni di terapia e un pacco di quattrini. Mi avevano ricoverato perché mi ero piazzato una bella coltellata durante un black-out e poco ci mancava che non mi accettassero. Fra tutte, questa era stata la crisi peggiore, e l'unica cosa che riuscii a ricordarmi quando mi ripresi fu il sangue che zampillava dalla mia pancia sui vestiti.
Il mio primo ricovero al San Peppe l'aveva pagato l'assicurazione sul lavoro di mia moglie Agnes. Funzionò benone. Poi, dopo due anni di strizzacervelli, successe di nuovo: dieci giorni di ciucca e un altro tentativo di suicidio. Alcol e coca. Dalla prima degenza il costo salì da ottomilacinquecento dollari a dodicimila, ma in quell'occasione pagammo di tasca nostra: all'epoca avevamo ancora soldi in banca. La piantai con gli strizzacervelli perché tanto continuavo a bere e non stavo per niente meglio.La terza e ultima volta mi registrarono sotto la voce " caso sociale". Altrimenti quel giochetto mi sarebbe costato venticinquemila bigliettoni.

***

frammenti...

Io e Agnes eravamo sposati da undici anni. Lei era un'insegnante, figlia di genitori ebrei del bronx. Occhi neri, capelli neri e un culo meraviglioso, come il cuscino di un angelo. Ci siamo conosciuti a una serata di poesia sulla seconda Avenue, quando ancora scrivevo.
Avevo letto un paio di miei testi, piuttosto brevi e arrabbiati. Le erano piaciuti e aveva chiesto a una collega, insegnante di letteratura, di combinare un incontro, cosa che fece. Aggie pensava che i poeti che devono tequila fossero romantici, perciò ce ne andammo a casa mia a discutere su Yeats.
Dopo, iniziammo a vivere assieme. Lavoravamo tutti e due e per parecchio tempo, mentre continuavo a scrivere di notte, le cose funzionarono bene. Ma avevo frequenti mal di testa e depressioni per via della poesia e dei magri guadagni frutto di squallidi lavoretti di merda. Ero ipercritico e crudele verso Agnes, così mi auto-prescrissi il whisky per tirarmi su di morale, cappi di essere meno depresso quando bevevo e non scrivevo. Smisi di criticare Agnes, ma smisi anche di tenere a lei.

***


Stavo marcendo dentro, come questa ridicola città. Dopotutto, Los Angeles era il posto giusto per me. Ero membro di quella comunità, insieme agli assassini di mio padre: produttori cinematografici ventiduenni che avevano spappolato il suo cervello e guru della distribuzione che avevano deciso il corso della sua vita. Ero un vero figlio di Los Angeles.

***

I soldi del cinema avevano comprato casa Dante. Mio padre a ventun anni era arrivato a Los Angeles in autostop da Boulder,con tre dollari in tasca, ed era diventato un ricco sceneggiatore. Aveva seguito il consiglio del suo mentore H.L. Mencken che anni prima gli aveva detto :" arraffa ogni centesimo che ti daranno".
Dopo sei mesi a Los Angeles, il giovane Jonathan marciva in un albergo di Bunker Hill, incapace di finire il suo romanzo, al verde, in ritardo di settimane con l'affitto. Mencken gli trovò un lavoro.
Fu solo per due settimane. Uno scrittore amico di mio padre , che guadagnava un sacco di soldi alla RKO e conosceva i suoi racconti brevi, lo raccomandò per riscrivere una scena ambientata in tribunale in un film di John Garfield. Pagavano cinquecento dollari a settimana. Abbastanza per finanziare altri sei mesi del romanzo di Dante.
Aveva preso al volo quei soldi facili,e per il resto della vita era rimasto al servizio di due padroni.
Quel che successe a Jonathan Dante a Los Angeles è esattamente quel che succede a un uomo che si innamora di una stronza, bella e crudele. Ogni volta che tocchi le sue tette tonde e dure e ti infili tra le sue gambe, il cuore ti esplode dalla gioia. Possedere la sua perfezione ti riempe come una droga, una beatitudine perfetta e divina. Il pisello non ti si ammoscia mai. Assegni e baci rendono tutto fantastico.
Naon guardò mai più né avanti né indietro, perché aveva imparato che a Hollywood è solo l'adesso che conta. Dimenticò che la sua passione era scrivere romanzi. Imparò a giocare a golf. Bere con gli amici sceneggiatori al ristorante Musso diventò tutto quello che contava. Le sue uniche altre preoccupazioni erano rispettar le scadenze delle scene da rimaneggiare,la borsa, gli immobili, e i campi da golf di Fox Hills.
Los Angeles all'epoca era una perfetta prugna di città. Fantastiche stradone aperte, aria frizzante e secca, e un sole senza tramonto che riempiva il mondo di speranza. La sua gente era disponibile e simpatica, e l'industria cinematografica regalava al luogo un'atmosfera di sogno-che-inevitabilmente-diventa-reale. Poteva succedre davvero. Potevi puntare a ovest, a Los Angeles, e cambiare la tua vita. La California del Sud era il prototipo del New Deal di Roosevelt.
Dante era uno scrittore povero,cresciuto nella miseria degli anni Trenta. Trovando Los Angeles così bella e infiorata, un kibbutz paradisiaco dipinto a mano,sapeva che doveva possederla, doveva infilarle la lingua in ogni orifizio. Allora non gli importava nemmeno di rendersi conto che stava leccando il clitoride della donna ragno.

***

I miei occhi incontrarono un torso senza gambe, privo della vista, e il mio cervello si rifiutò di accettare l'input delle mie sensazioni. Non riconoscevo quel mezzo uomo avvizzito che mio padre era diventato.
Negli ultimi cinque anni il diabete gli aveva tranciato le dita dei piedi, poi i piedi e le gambe, e lo aveva reso cieco. Sapevo tutto. Certo, mi avevano raccontato ogni particolare per telefono. Ma ora lo vedevo.
Ma avvicinai al letto e gli presi una mano. Le dita erano corte e grosse. Buone per impugnare il martello, magari anche uno scalpello. Mi ricordai di quelle dita. Mi ricordai anche di aver pensato, una volta, che probabilmente Michelangelo le aveva uguali. Le dita di mio padre avevano forgiato parole senza prezzo, quelle parole erano balzate fuori dalla sua macchina per scrivere su chilometri di carta, creando quello straordinario fiume di onestà e di dolre che era la sua opera di scrittore. I suoi romanzi. Ora il fiume era secco. Abbassai la testa, mettendomi la sua mano sulla guancia, sperando di poter dire qualcosa a quel fantasma. Non mi venne una sola parola.
Ascoltai, invece , il suo respiro pesante e faticoso che usciva a rantoli. Sapevo che non mi poteva sentire, che il suo cuore coraggioso si sarebbe presto fermato, e lui sarebbe morto, senza sapere che io ero stato là. Finalmente, prima di rimettere giù la mano, mi sentii dire : " Ti amo". Mentre pronunciavo quelle parole, provai qualcosa di simile alla tristezza, a molto più profondo. Era il vuoto di un buco che non si sarebbe mai più riempito.

***

La porta dello studio di mio padre era chiusa. Esitai. Nessuno poteva entrarci senza il permesso del vecchio. Socchiudendo la porta, nel buio della stanza, come minimo mi aspettavo che i suoi demoni mi saltassero addosso. Ma non lo fecero, per cui girai l'interruttore e lasciai che la luce incandescente del lume sulla scrivania assalisse le pareti.
La stanza non mostrava segni di cambiamento rispetto all'ultima volta che ero entrato per parlare con il vecchio, sette anni prima. I mobili erano d'epoca, il solito robusto materiale da ufficio. Quercia e mogano scuro con le gambe ampie e solide. Ogni pezzo scelto nei negozi di mobili usati sulla Western Avenue.
Sul muro più lontano, sopra la libreria, era incorniciata una vecchia fotografia stampata piuttosto male di H.L.Mencken, la scriminatura dei capelli divisa austeramente al centro e il colletto della camicia molto rigido. Lo sguardo del grande iconoclasta si presentava piuttosto minaccioso.
I libri sugli scaffali dietro la scrivania erano quelli importanti. Roba sacra. A differenza di tutti gli altri, non venivano mai spostati, se non per essere riletti. C'era tutto Knut Hamsun, tutto Sherwood Andersson, tutto Jack London. Nella casa di Dante si parlava solo di grandi scrittori, grandi artisti, grande letteratura. Uomini di talento,come lui. omini da rispettare,con cui fare davvero i conti. Il resto contava ben poco.
Gli altri libri, quelli che non meritavano, stavano per terra, in pile. La maggior parte era comunque di scrittori buoni, ma in realtà papà Dante non li aveva mai letti. Era uno che sfiorava i libri, sempre impaziente, mai entusiasta. Leggeva interi libri a quel modo, pochi paragrafi, a caso. Dopo la prima frase di ogni paragrafo, cominciava a saltare.
Dalla libreria dietro la sua scrivania tirai giù una copia di Fame di Knut Hamsun. Questo libro , ripeteva mio padre , l'aveva fatto diventare scrittore. Lo tenni in mano e sfogliai le vecchie pagine. Nel mezzo, scoprii un foglio di carta piegato in quattro. Sembrava che fosse servito come segnalibro. La parte superiore, quella esposta all'aria, era gialla di vecchiaia. Aprii l'improvvisato segnalibro e riconobbi subito la calligrafia di mio padre. Ripetuta all'infinito, c'era una firma: diceva Knut Hamsun.Knut Hamsun.Knut Hamsun. La pagina ne era riempita fino in fondo. Un'eccentricità che mi colpì, perché avevo fatto la stessa cosa cento volte, riempiendo taccuini interi con la firma di E.E.Cummings. io e il vecchio avevamo almeno una piccola follia in comune, dopotutto.
Ripiegai il foglio e me lo infilai in tasca, poi riposi il libro. Uscendo dalla stanza spensi di nuovo l'interruttore, restituendo quel luogo al buio.

***

Pensavo di stare guidando a casaccio,senza una meta, ma quando vidi il Wiltern mi resi conto di essere vicinissimo alla prima della case della nostra famiglia a Los Angeles, appena fuori Hancock Park, su Van Ness. Il vecchio l'aveva comprata grazie a Hollywood. Soldi del cinema. Soldi insanguinati. Trovai la casa e mi ci fermai davanti.
Rivedendo la casa al buio, il cervello si mise a brulicare con ricordi di un'altra vita. Erano passati più di trent'anni da quando avevo vissuto là.
Il vecchio l'aveva comprata perché il suo agente, Harry Goldstone, pensava che fosse un indirizzo buono per uno sceneggiatore hllywoodiano di successo, e in più era vicina alla Paramount. Harry gli aveva procurato una bella occasione sul posto.
La casa l'aveva pagata completamente con gli incassi dei salari mensili cinematografici. Papà aveva ormai smesso di rifiutare sceneggiature economicamente vantaggiose e aveva rinunciato a essere uno scrittore. Dopo anni di romanzi e id fame, non fu una decisione difficile.
Ero piccolo quando ci trasferimmo a Malibu, però mi ricordavo benissimo questa casa e le furie di mio padre. Era lì che , giorno dopo giorno, riscriveva mucchi di sceneggiature e risistemava scene che poi avrebbero girato l'indomani. Era lì che cominciò a guadagnare dei bei soldi. Il successo e la rabbia erano appiccicati a ogni parete.
In questa casa sperimentai quello che succede quando un artista passionale smette di fare quello che ama e comincia a odiarsi. Qui ho visto mio padre ubriaco, 'ho visto trattare con disprezzo e durezza i suoi cari, mentre i suoi stipendi si facevano sempre più ricchi.
Mi trovavo su una station-wagon, erano passati trent'anni ed era Natale. Guardando la casa,immaginai come Jonathan Dante potesse aver passato le serate estive là sulla terrazza fuori dalla camera da letto;un bicchiere si scotch appoggiato sulla balaustra, le mani da operaio strette a pugno e alzate verso il cielo maledicendo se stesso e Dio per avergli promesso di bruciarsi il proprio talento in cambio di un assegno hollywoodiano.

***

Era un narratore formidabile, la sua voce risuonava come quella di un annunciatore di drammi radiofonici dei tempi andati. Lotte, feste alcolizzate che duravano una settimana, ex-mogli con coltelli,cause,galere. Riempì la macchina di poesia.la maggior parte delle cose che raccontò erano esagerate, ma erano magiche.
Poi diventò serio, e mi disse che era importante che io capissi che aria tirava cinquant'anni prima a Los Angeles per sceneggiatori come lui e Jonathan Dante. Perciò mi spiegò come funzionava il sistema dei contratti cn gli Studios,come i produttori fossero liberi di maltrattare gli sceneggiatori prima che fondassero il sindacato. Gli sceneggiatori non contavano un cazzo.
Quando gli chiesi della lista nera, all'inizio non ne voleva parlare. Poi grugnì e ,cambiando idea, cominciò.aveva partecipato a due o tre incontri di "simpatizzanti" perché era stato invitato da un'attrice supertettona che lui cercava di scoparsi. A sentire Townsend, questi incontri erano per l'80% cocktail party, per il restante 20% conversazione. Roba indolore, non poteva dar fastidio a nessuno. Ma i nomi erano stati annotati, e più tardi quella lista mise la gente nei guai.
Disse che Dante era stato fortunato, perché si era sempre rifiutato di far parte di gruppi e non voleva essere identificato con la falsità e la merda di Hollywood. Il vecchio non si faceva mai coinvolgere.
Dopo la seconda guerra mondiale l'industria cinematografica aveva imboccato la china. Il potere, le tue conoscenze allo studio erano le cose che contavano per ottenere buoni lavori da sceneggiatore. Mio padre si trovava in quella che Townsend chiamava "una lista nera alla rovescia". C'era finito perché aveva rifiutato di far parte di qualsiasi gruppo alla moda o frequentare la gente "giusta". Townsend si mise a ridere, dicendo che la " fortuna" di mio padre consisteva nell'essere sempre stato sincero, aver cambiato spesso agente,e alla fin fine nella cattiva fama del suo caratteraccio. Per Dante,fare il leccacelo era impossibile. Una volta aveva persino preso a pugni il produttore Val Lewton.
Townsend si ricordava che mio padre aveva trascorso due ani, fino al 1951, a scrivere un romanzo, senza alcun lavoro nel cinema. Alla fine si era fatto vivo un produttore disperato, con qualche soldo e una scadenza molto ravvicinata, che aveva bisogno di una mano " sicura" per aggiustare una sceneggiatura raffazzonata.
Quando attraversammo Sunset, diretti a nord su La Brea, chiesi a Townsend di lasciarmi allo Starburst Motel. Gli passai la bottiglia, e mentre tirava un 'ultima lunga sorsata, vidi che aveva le lacrime agli occhi. Lui e mio padre facevano parte di un'altra città, di una Los Angeles che non esisteva più. " Mi ricordi molto lui" disse. "Hai il suo temperamento…Ti auguro di avere la strada spianata".
"Grazie per il passaggio" gli dissi.
Aprì lo sportello, e mi sorrise stringendomi la mano. Mentre si allontanava con il finestrino abbassato sentii che intonava le prime note di una canzone natalizia di un film stupido degli anni Quaranta, ma non ricordavo più come si intitolasse.

***

Il ragazzo era esperto di libri. Quando chiesi di E.E. Cummings mi indicò subito scaffale e fila. Era un lettore,conosceva il suo inventario.
Trovai Bukowsky. Mi piaceva,ma non era quello che cercavo. Alla fine, decisi di lasciar perdere e uscire quando qualcosa mi fece pensare a papà. Avevo smesso di fare quella domanda un sacco di anni prima, perché la risposta era sempre la stessa. Ma qualcosa mi spinse a riprovarci. " Conosci Dante? Jonathan Dante?".
Sorrise. Il suo cervello orgoglioso doveva aver catalogato ogni titolo del negozio. "Abbiamo un libro suo. Dante , di-a-enne-ti-e , giusto?"
"Sì. Quale libro?"
" Mi segua".
Lo pedinai fino a un piccolo reparto,sembrava riservato ai libri rari e fuori catalogo. Non avevo notato il cartello "Narrativa per collezionisti". Vidi subito una traduzione di Demian di Hermann Hesse, esaurita da almeno quarant'anni. Poi indicò un vecchio tascabile di mio padre, appoggiato a una copia di Festa Mobile di Hemingway, come due soldati assediati con la divisa logora. Stanchi e soli. I due libri erano della stessa grandezza.
Tirò fuori Chiedi l vento e me lo passò. Strinsi il libro sottile in mano,cercando di ricordarmi quand'era l'ultima volta che l'avevo letto. Cinque anni? Dieci? Avevo perso la mia copia un sacco di tempo prima. Avevo pure dimenticato che esistesse in versione economica. L'edizione rigida era quella che aveva venduto di più, tremila copie, era l'unica che mio padre avesse conservato. La versione tascabile era sparita subito.
[...]Iniziai a leggere. La ragazza messicana, i suoi sandali, il giovane scrittore in bolletta che voleva far colpo su di lei, innamorarsi, e versava il caffè sul tavolo, vicino al nichelino. Pagina dopo pagina, ogni riga cantava come una messa in latino.
L'onestà delle parole era dolorosa esattamente come me la ricordavo. Dappertutto c'era il cuore forte,capace di esporsi, di mio padre. Quel libro era il capolavoro di Dante, scritto prima che i grassi assegni di hollywoodiani lo trasformassero in un giocatore di golf e in un vecchio stronzo amareggiato.

Lo portai alla cassa, tenendolo con tenerezza, come fossero le ceneri di mio padre. Lo passai al giovane commesso. Stava parlando al telefono con qualcuno, ma lo mise in attesa."Questo è meglio di Hemingway" dissi.
"Non conosco l'opera di Dante, ma ho letto tutto Hemingway. Penso che Il vecchio e il mare sia la cosa più bella di tutta la letteratura americana".
"Se ti piace Hemingway, questo cambierà il tuo modo di giudicare la letteratura. Ti darà un calcio in cul. A me l'ha dato ogni volta".

 

la fine...

Le lunghe palme marciano piano
giù per Bundy Drive
Ondeggiando nel caldo vento di dicembre
Puttane magre in fila
ammiccano vogliose
al traffico in arrivo
Soffiando baci al Santa Monica Boulevard

I loro tacchi storti, le braccia sporche
e il pesante odore della strada
non contengono più nessuna promessa, nessun piacere,
l'innocenza di Los Angeles se n'è andata per sempre

però una volta io l' ho vista
ho catturato la sua immagine fuggente
gli ho perfino fatto ciao
sbracciandomi dal finestrino posteriore della Plymouth dei miei

Ma era già stata comprata e venduta
e aveva troppa fretta
per fermarsi
e dire addio

Quando finii, la rilessi varie volte. Non era malaccio. Poi pensai a Jonathan Dante. Era per lui che l'avevo scritta. Promisi a me stesso che ne avrei scritte altre, e anche quelle sarebbero state per lui.
Rimettendo giù la mano per accarezzare il cane, capii che se ne era andato. Tranquillamente, mentre scrivevo , aveva cessato di respirare.
Rimasi seduto in macchina un sacco di tempo, tenendo il cane in braccio e piangendo. Quando smisi, tremavo di meno. Tra qualche ora sarebbe stata mezzanotte, un giorno intero senza bere. E un giorno potevano diventare due. Sapevo che se non bevevo, avrei potuto scrivere di nuovo.
Accesi la Dart e cominciai a guidare verso nord, lungo la costa. L'oceano era di un blu che non avevo mai notato prima.

 

 

 

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