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Fu
con una raccolta di racconti intitolata Will You Please Be Quiet,
Please? che un giovane scrittore sconosciuto di Clatskanie,
Oregon, colse i critici di sorpresa e si impose all'attenzione
dei lettori americani. In seguito, sulla scorta della sua seconda
raccolta, What We Talk About When We Talk About Love, Frank
Kermode, dell'Università di Cambridge, proclamò
Carver un maestro del racconto. Una visione nuova, un metodo
nuovo, una tonalità nuova: ecco gli elementi su cui è
costruita la preminenza di Carver. Ciò che si nota immediatamente
è l'effetto inquietante che scaturisce da un'apparente
semplicità. Una semplicità in cui fermenta un
senso di minaccia, come se nelle storie serpeggiasse qualcosa
di oscuramente malsano, quasi un avvertimento di una mortale
degenerazione delle cellule che ti consumerà se solo
raccogli l'utensile sbagliato, se solo pronunci la parola sbagliata.
Eppure il mondo di Carver e in realtà il mondo della
gente semplice, banale e scialba che ogni giorno si accinge
a vivere la sua scialba vita. Il modo in cui Carver riesce a
trasformare queste vite lineari in un modello di terrore morale
testimonia della magia del suo talento letterario. Ma mai, nei
suoi racconti precedenti, l'alchimia con cui Carver trasforma
il banale in un minaccioso sortilegio è così vibrante
e potente come in Cattedrale. In effetti, i dodici racconti
di questo libro costituiscono una sorta di grammatica di quel
linguaggio impalpabile che solo il cuore ode, e solo alle quattro
del mattino.
C'è qualcosa di morbosamente proibito nei luoghi in cui
queste storie conducono, nelle sensazioni che vengono scatenate
da semplici oggetti - scatole di surgelati che si scongelano
su un tavolo di cucina, il calco di gesso di una dentatura posato
su un televisore, la nave spaziale che decora la torta di compleanno
di un bambino che deve morire. Ma nessuna immagine è
più sconvolgente di quella evocata alla fine della storia
che dà il titolo alla raccolta: la mano di un cieco che
guida quella di un vedente. E come se Carver avesse sfiorato
la pagina con una bacchetta magica, e fatto di questo racconto,
e di quelli che lo precedono, una versione della cosa stessa,
l'incantato interno di quell'edificio, la cattedrale - uno spazio
silenzioso, severo, trascinante.
Pubblicato per la prima volta nel 1984 e passato quasi inosservato,
Cattedrale viene ripresentato nel momento in cui Carver e definitivamente
riconosciuto come il maestro di una nuova generazione di scrittori.
Cattedrale
Io il lavoro
l'avevo e Patti no. Lavoravo qualche ora la notte all'ospedale.
Un lavoro da niente. Facevo delle cose, firmavo la scheda per
otto ore, andavo a bere con le infermiere. Dopo un po' anche
Patti volle lavorare. Disse che il lavoro le serviva per una
questione di dignità. Così, cominciò a
vendere polivitaminici porta a porta.
Per un po' fu solo una delle tante ragazze che andavano su e
giù per le vie di rioni sconosciuti, bussando alle porte.
Ma imparò i trucchi. Aveva una sua personalità.
Ben presto 1'azienda le diede una promozione. Alcune delle ragazze
che non stavano facendo granché vennero messe a lavorare
sotto di lei. Non passò molto tempo che ebbe una sua
squadra e un ufficetto. Ma le ragazze che lavoravano con lei
cambiavano continuamente. Alcune rinunciavano dopo un paio di
giorni - dopo un paio di ore, qualche volta. Ma a volte c'erano
ragazze che ci sapevano fare. Che sapevano come vendere vitamine.
Erano quelle ragazze che rimanevano con Patti. Erano il cuore
della squadra. Ma c'erano ragazze che le vitamine non sapevano
venderle proprio.
Le ragazze che non riuscivano a quagliare si licenziavano. A
un certo punto non si presentavano al lavoro. Se avevano un
telefono lo staccavano. Non rispondevano alla porta. Patti queste
perdite se le prendeva a cuore, come se le ragazze fossero delle
neoconvertite che avevano smarrito la retta via. Dava la colpa
a se stessa. Ma poi si metteva il cuore in pace. Ce n'erano
troppe per non metterselo in pace. Ogni tanto qualche ragazza
si paralizzava al punto di non riuscire a pigiare il campanello.
O magari arrivava alla porta e le capitava qualcosa alla voce.
Oppure mescolava ai saluti qualcosa che doveva dire solo dopo
essere entrata. Quando a una ragazza capitava così, decideva
di lasciar perdere, di prendere la cassetta campionario, tornare
all'automobile e di restarsene nei paraggi finché Patti
e le altre non finivano. Poi c'era come un raduno e tutte insieme
tornavano in ufficio a scambiarsi qualche battuta per tirarsi
su. "Quando diventa dura, dure bisogna diventare."
E: "Fai quel che devi, e accadrà quel che deve."
Cose del genere.
A volte una ragazza scompariva e basta. Campionario e tutto.
Faceva l'autostop fino in città e smammava. Ma ce n'erano
sempre altre pronte a riempire i vuoti. Erano i giorni in cui
le ragazze andavano e venivano. Patti aveva un elenco. Ogni
tante settimane metteva un'inserzione nel "Pennysaver".
E saltavano fuori altre ragazze e c'erano altri corsi d'addestramento.
Non finivano mai le ragazze.
Il nucleo base era composto da Patti, Donna, e Sheila. Patti
era uno schianto. Donna e Sheila soltanto carine. Una sera questa
Sheila disse a Patti che le voleva bene più di qualsiasi
cosa al mondo. Patti mi riferì che le aveva detto proprio
così. L'aveva portata a casa in macchina e stavano sedute
davanti all'abitazione di Sheila. Patti aveva risposto che anche
lei le voleva bene. Che voleva bene a tutte le sue ragazze.
Ma non nel senso che intendeva Sheila. Allora Sheila le toccò
il seno. Patti mi raccontò di averle preso la mano e
di averla tenuta stretta. Mi raccontò di averle detto
che non era il suo modo, quello. Mi disse che Sheila non aveva
fatto una piega. Aveva annuito e basta, continuando a tenerle
la mano. Poi l'aveva baciata ed era scesa dall'auto.
Questo
intorno a Natale. Gli affari per le vitamine stavano andando
maluccio, così pensammo di organizzare una festa per
tirare su un po' tutti. Ci sembrò una buona idea, allora.
Sheila fu la prima a sbronzarsi. Si addormentò in piedi,
cadde, e restò così per ore. Era là in
piedi in mezzo al soggiorno, poi gli occhi le si chiusero, le
gambe le si piegarono e cadde giù col bicchiere in mano.
La mano che teneva il bicchiere andò a colpire il tavolino
mentre cadeva. A parte quello non fece il minimo rumore. Il
whiskey si versò sul tappeto. Patti e io e qualcun altro
la portammo di peso nella veranda e la mettemmo su un divanetto
e poi facemmo del nostro meglio per dimenticarci di lei.
Tutti si ubriacarono e se ne tornarono a casa. Patti andò
a letto. Io volli tener duro, così mi sedetti a tavola
con un bicchiere finché fuori non cominciò a schiarire.
Poi Sheila rientrò dalla veranda e cominciò. Disse
che aveva un mal di testa come se qualcuno stesse infilandole
dei fili di ferro nel cervello. Disse che era un mal di testa
così tremendo che aveva paura di non riuscire mai più
ad aprire bene gli occhi. E poi era sicura d'essersi rotta il
dito mignolo. Me lo mostrò. Era viola. Poi se la prese
perché l'avevamo lasciata dormire tutta la notte con
le lenti a contatto sugli occhi. Voleva sapere come mai non
gliene fregava mai niente a nessuno. Poi si mise il mignolo
sotto il naso e lo guardò. Scosse la testa. Allontanò
il mignolo più che poté e di nuovo lo guardò.
Sembrava che non riuscisse a credere a tutte le cose che dovevano
esserle capitate quella notte. Aveva la faccia gonfia. I capelli
dappertutto. Mise il dito sotto l'acqua fredda.
-Dio. Oh, Dio -disse piangendo sopra il lavandino. Ma ci aveva
tentato seriamente con Patti.
Una dichiarazione d'amore. Quindi per lei non sentivo nessuna
pietà.
Bevevo Scotch e latte con dentro una scheggia di ghiaccio. Sheila
stava appoggiata al lavandino. Mi
guardava con gli occhi socchiusi. Presi una sorsata. Senza dire
niente. Lei torna spiegarmi quanto a terra si sentisse. Disse
che aveva bisogno di un dottore. Disse che voleva svegliare
Patti. Disse che la piantava col lavoro, che se ne andava dallo
stato, che andava a Portland. Ma che prima doveva salutare Patti.
Continuò così. Voleva che Patti la portasse all'ospedale
per via di quel dito e degli occhi.
- Ti ci porto io - le dissi. Non ne avevo voglia, ma l'avrei
fatto.
- Voglio che sia Patti a portarmi - disse Sheila.
Con la mano buona si teneva il polso di quella malandata. Il
mignolo era grosso come una torcia tasca
bile.
- E poi, abbiamo bisogno di parlare. Devo dirle che me ne vado
a Portland. Devo salutarla.
Le dissi: - Penso che dovrò dirglielo io. Sta dormendo.
Sheila si fece cattiva. - Siamo amiche - disse. - Devo parlarle.
Devo essere io a dirglielo. -
Scossi la testa. - Sta dormendo. Te l'ho appena spiegato.-
- Siamo amiche e ci vogliamo bene - disse Sheila. - Devo salutarla.
- Fece per uscire dalla cucina.
Cominciai ad alzarmi. Le dissi: - T'ho detto che ti porto io.-
- Sei ubriaco! Non sei neanche andato a letto. - Si guardò
di nuovo il mignolo. - Accidenti, perché è capitato
proprio a me?-
- Non sono così sbronzo da non poterti portare all'ospedale
- dissi.
- Con te non voglio andarci! - sbraitò Sheila.
- Fa un po' tu. Però Patti non la svegli. Puttana d'una
lesbica - le dissi.
- Bastardo - disse lei.
Così mi disse e poi se ne andò dalla cucina e
dalla casa senza neanche usare il bagno e lavarsi la faccia.
Io mi alzai e guardai dalla finestra. Lei stava andandosene
a piedi verso Euclid Avenue. Non c'era nessuno fuori. Era troppo
presto.
Finii di bere e pensai di prepararmene un altro.
Me lo preparai.
Nessuno vide più Sheila dopo quella volta. Nessuno di
noi che avevamo in un modo o nell'altro a che fare con le vitamine.
Imboccò Euclid Avenue e uscì dalle nostre esistenze.
In seguito Patti mi chiese: - Cos'è successo a Sheila?
- E io dissi: - E andata a Portland.-
Avevo
un debole per Donna, l'altra del nucleo centrale. Quella sera
della festa avevamo ballato alla musica di alcuni dischi di
Duke Ellington. Me l'ero tenuta piuttosto stretta, le avevo
annusato i capelli, le avevo tenuto una mano bassa sulla schiena
mentre la guidavo sul tappeto. Mi era piaciuto ballare con lei.
Ero l'unico maschio alla festa, e c'erano sette ragazze, sei
delle quali ballavano insieme. C'era da spassarsela solo a guardarsi
intorno.
Io, stavo in cucina quando Donna entrò con il bicchiere
vuoto. Per un po' rimanemmo soli. Me la abbracciai un tantino.
Lei anche. Ce ne restammo lì allacciati.
Poi lei disse: - Non adesso.-
Quando sentii quel "non adesso" la lasciai andare.
Pensai che quelle parole erano come soldi in banca.
Quando più tardi Sheila era entrata con il suo dito,
stavo per l'appunto pensando a quell'abbraccio. Continuai a
pensare a Donna. Finii il bicchiere, poi staccai la cornetta
dal telefono e me ne andai in bagno. Mi spogliai e mi misi a
letto accanto a Patti. Per un po' restai così scaricandomi.
Poi cominciai a darmi da fare. Ma lei neanche si svegliò.
Dopo, chiusi gli occhi.
Era pomeriggio quando li riaprii. A letto ero solo. La pioggia
soffiava contro i vetri. Sul cuscino di Patti trovai una ciambellina
e un bicchiere d'acqua sul comodino. Ero ancora ubriaco e non
riuscivo a rendermi conto di niente. Sapevo che era domenica
e che Natale era vicino. Mangiai la ciambella e mandai giù
l’acqua. Mi riaddormentai finché non sentii Patti
che faceva andare l'aspirapolvere. Venne nella stanza e mi chiese
di Sheila. Fu allora che glielo dissi. Che le dissi che era
andata a Portland.
Una
settimana o giù di lì dopo Capodanno, Patti e
io stavamo facendoci un drink. Lei era appena rincasata dal
lavoro. Non era tardi, però c'era buio e pioveva. Io
me ne sarei andato al lavoro in un paio d'ore. Ma prima stavamo
facendoci uno Scotch e chiacchieravamo. Patti era stanca. Proprio
giù di corda e al terzo bicchiere. Nessuno comperava
vitamine. Aveva solo Donna e Pam, una ragazza semi nuova che
era anche cleptomane. Stavamo parlando di questioni come il
brutto tempo e quale fosse il numero massimo di multe che uno
poteva permettersi di non pagare. Poi cominciammo a parlare
di come sarebbe stato meglio per noi trasferirci in Arizona,
in un posto del genere.
Versai di nuovo. Guardai dalla finestra. L'Arizona non era un'idea
poi male.
Patti disse: - Le vitamine.- Sollevò il bicchiere e agitò
i cubetti.
- La miseria! - fece. - Voglio dire, quand'ero ragazzina, questa
è l'ultima cosa che mi sarei sognata di fare. Cristo,
chi l'avrebbe detto che sarei cresciuta solo per poi vendere
vitamine. Porta a porta. Da non crederci. E’ veramente
una cosa da matti.-
- Neanch'io l'avrei detto, dolcezza - dissi.
- Giusto - disse lei. - Hai praticamente riassunto tutto.-
- Dolcezza.-
- Non chiamarmi dolcezza - fece lei. – E’ dura,
fratello. Questa non è vita facile, da qualsiasi parte
la guardi.
Sembrò pensarci su per un po'. Scosse la testa. Poi finì
di bere. Disse: - Persino quando dormo mi sogno le vitamine.
Non c'è pausa. Assolutamente. Perlomeno tu puoi andartene
dal lavoro, lasciartelo alle spalle. Non ci hai sognato su neanche
una volta. Scommetto che non sogni di metter la cera ai pavimenti
e di fare le cose che fai al lavoro. Dopo che te ne sei andato
da quell'accidenti di posto, mica vieni a casa e lo sogni, vero?
- strillò.
Le dissi: - Non me lo ricordo cosa sogno. Forse non sogno per
niente. Quando mi sveglio non mi ricordo niente. - Scrollai
le spalle. Mica mi annotavo quello che mi succedeva in testa
quando dormivo. Non me ne importava niente.
- Altroché se sogni! - disse Patti. - Anche se non te
lo ricordi. Tutti sognano. Se tu non sognassi impazziresti.
Quando si dorme, si sogna. Capisci cosa voglio dire?- Mi guardava
fisso.
- Si e no - le risposi.
Non era una domanda facile.
- Sogno di piazzare vitamine - disse. - Me le vendo giorno e
notte, le vitamine. Cristo, che vita - disse.
Finì di bere.
- Pam come se la cava? - chiesi. - Continua a rubacchiare? -
Volevo cambiare argomento. Ma non riuscivo a farmene venire
in mente un altro.
Patti disse: - Cazzo - e scosse la testa come se io non avessi
capito niente. Ascoltammo la pioggia.
- Nessuno vende vitamine - disse Patti. Sollevò il bicchiere,
ma era vuoto.
- Nessuno le compera. E’ questo che sto cercando di spiegarti.
Cos'è, non mi senti? -
Riempii di nuovo i bicchieri.
- Donna cosa combina? - dissi. Lessi l'etichetta sulla bottiglia
e aspettai.
Patti disse. - Ha fatto una piccola vendita un paio di giorni
fa. Tutto lì. In un'intera settimana non abbiamo fatto
altro. Non mi sorprenderebbe se si licenziasse. Non potrei certo
fargliene una colpa - disse Patti. - Fossi al suo posto, lascerei
perdere. Ma se lascia perdere, poi cosa succede? Sarei di nuovo
punto e a capo. Di nuovo a zero. In pieno inverno, gente ammalata
dappertutto, gente che muore, e nessuno che pensa d'avere bisogno
di vitamine. Anch'io sto male come non so.
- Cos'hai dolcezza? - Posai i bicchieri sul tavolo e mi sedetti.
Lei continuò come se non avessi parlato. Forse era così.
- Sono l'unica mia cliente - disse. - Penso che prender tutte
quelle vitamine mi stia facendo qualcosa alla pelle. Ti sembra
okay la mia pelle? Ritieni che possano esserci le overdose anche
per le vitamine? Sono arrivata al punto che non vado neanche
più al gabinetto come una persona normale.
- Dolcezza - dissi.
Patti disse: - Non te ne frega se prendo le vitamine. E’
questo il punto. A te non te ne frega di niente. Questo pomeriggio
con tutta quella pioggia il tergicristallo è andato in
tilt. Quasi ho tamponato. Ci sono andata proprio vicino.-
Continuammo a bere e a parlare finché non fu l'ora per
me di andare al lavoro. Patti disse che si sarebbe immersa nella
vasca sempre che non si fosse addormentata prima. - Sto dormendo
in piedi - disse. Poi soggiunse: -Vitamine. Ormai ci sono solo
quelle. - Era ubriaca. Però lasciò che la baciassi.
E me ne andai al lavoro.
[...]
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