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Voi non sapete
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Fuochi
Gli influssi
sono forze – occasioni, personalità – irresistibili
come maree. Non riesco a parlare di libri o di scrittori che
possano avermi influenzato. Questo tipo di influsso, l’influsso
letterario, è per me difficile da individuare con qualche
certezza. Per quanto mi riguarda sarebbe ugualmente inesatto
dire che sono stato influenzato da tutto ciò che ho letto
e che non penso di essere stato influenzato da alcuno scrittore.
Ad esempio, a lungo sono stato un ammiratore dei romanzi e dei
racconti di Ernest Hemingway.
Eppure ritengo inoltre che l’opera di Lawrence Durrell
sia unica e insuperata per quanto riguarda il linguaggio. Ovviamente,
io non scrivo come Durrell. Non mi viene da lui alcun influsso.
Più volte è stato detto che scrivo come Hemingway.
Io però non posso dire che il suo modo di scrivere abbia
influenzato il mio.
Hemingway è uno dei molti scrittori la cui opera, come
quella di Durrell, ho letto e ammirato quando avevo vent’anni.
Non ne so molto, insomma, di influssi letterari. E però
ho qualche nozione a proposito di altri tipi di influssi. Gli
influssi di cui so qualcosa mi hanno sollecitato in modi che
spesso, a prima vista, sembravano misteriosi, e a volte si fermavano
appena un gradino al di sotto del miracoloso. Ma questi influssi
mi sono stati chiari mano a mano che il mio lavoro andava avanti.
Questi influssi erano (e sono ancora) inesorabili. Sono gli
influssi che mi hanno spinto in questa direzione, su questa
lingua di terra piuttosto che su un’altra, per esempio
quella, laggiù, sulla sponda più lontana del lago.
Ma se l’influsso principale sulla mia vita e sulla mia
scrittura è stato negativo, oppressivo, spesso addirittura
maligno, come credo, che conclusioni dovrò trarne?
Lasciatemi dire, innanzitutto, che queste cose le sto scrivendo
in un posto chiamato Yaddo, che si trova appena fuori Saratoga
Springs, nello stato di New York. È pomeriggio, domenica,
inizio d’agosto. Ogni tanto, ogni venticinque minuti circa,
sento più di trentamila voci riunite in un grande grido.
Questo clamore meraviglioso
proviene dall’ippodromo di Saratoga. Vi si sta svolgendo
una corsa importante. Io sto scrivendo, ma ogni venticinque
minuti posso sentire la voce dell’annunciatore all’altoparlante
che dichiara i piazzamenti dei cavalli. Il ruggito della folla
aumenta. Esplode al di sopra degli alberi, è un suono
forte e davvero emozionante che sale finché i cavalli
non hanno tagliato il traguardo. Quand’è finito,
mi sento stremato, come se avessi partecipato anch’io.
Posso immaginarmi con in mano le ricevute delle scommesse su
uno dei cavalli vincenti, o magari su un piazzato. Se c’è
da aspettare un fotofinish, posso prevedere che sentirò
un’altra esplosione nel giro di un minuto o due, subito
dopo che la pellicola sarà stata sviluppata e il risultato
ufficiale sarà stato reso noto.
Ora, da qualche giorno, da quando sono arrivato qui e da quando
ho sentito per la prima volta la voce dell’annunciatore
all’altoparlante, e il ruggito eccitato della folla, sto
scrivendo un racconto ambientato a El Paso, una città
nella quale ho abitato per un po’ qualche tempo fa. Il
racconto parla di gente che va a una corsa di cavalli su una
pista fuori El Paso. Non voglio dire che il racconto stesse
aspettando di essere scritto. Non è così, e affermarlo
finirebbe per significare altro. E tuttavia mi serviva qualcosa,
nel caso di questo racconto in particolare, per farlo venire
fuori. Poi, quando sono arrivato qui a Yaddo, e per la prima
volta ho sentito la folla e la voce dell’annunciatore
all’altoparlante, certe cose mi sono ritornate in mente
da quell’altra mia vita di El Paso, e mi hanno suggerito
il racconto. Mi sono ricordato di quella pista dove andavo,
laggiù, e di certe cose che vi succedevano, che avrebbero
potuto succedervi, che vi succederanno – almeno, nel mio
racconto –
a duemila miglia da qui.
[...]
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