Aimee Bender


Un segno invisibile e mio
2000 -Minimum Fax, pag.257


 

l'inizio...

Il giorno del mio ventesimo compleanno mi sono comprata un’ascia.
E’ stato il più bel regalo che avessi avuto da dieci anni a quella parte. Prima di vederla luccicare appesa alla parete del negozio di ferramenta come un amante di legno e acciaio, avevo completamente rinunciato all’idea di festeggiare il mio compleanno.
Il giorno del mio diciannovesimo mamma mi aveva sbattuto fuori di casa.
Il giorno del diciottesimo avevo fatto una festa per due persone. Dopo un’oretta entrambe dissero di avere un’allergia e se ne andarono a casa starnutendo.
Il giorno del diciassettesimo mi ero fatta una torta al cioccolato, ma siccome in realtà non volevo affatto mangiarla avevo aggiunto dell’insetticida all’impasto. Lievitò una meraviglia, meglio che mai, e quando la tirai fuori dal forno – perfetta cupola bruna – rimasi a camminarle intorno per ore, inspirando a pieni polmoni l’aria tiepida di burro. Alcune formiche mangiarono le briciole sulla credenza e schiattarono.
Il giorno del mio sedicesimo compleanno mia zia mi aveva mandato un bel vestito di seta rossa, che aveva il profumo e la delicatezza della faccia interna del polso. Me lo misi sulle ginocchia e, accarezzandolo, cominciai a sfogliare l’elenco telefonico per scegliere il nome di una donna che abitasse ad un indirizzo che contenesse dei 16. poi le spedii il vestito. Il rosso non è il mio colore.
Il giorno del mio quindicesimo, quattordicesimo, tredicesimo, dodicesimo e undicesimo compleanno ero andata a far compere con mamma e ogni anno, alla fine, una delle due si metteva a piangere per lo stress perché a me non piaceva niente, e perché dicevo che in realtà non volevo niente, tranne, forse, un altro libro di esercizi di matematica. Vanno ordinati per corrispondenza. Arrivano da un gran capannone pieno di numeri, nel Sud. Mamma scuoteva la testa: si rifiutava categoricamente di regalarmi per il compleanno qualcosa che avesse a che fare con la matematica, così finiva che mi metteva un po’ di soldi in banca.
L’anno del mio decimo compleanno si era ammalato papà, ed era stato allora che avevo cominciato a smettere.

***


frammenti

Niente piano. Niente dolci. Niente atletica. Niente. Sono innamorata dello smettere. A suo modo è un’ arte , se ci pensate. Smettere bene richiede un innato senso della bellezza; bisogna saper sentire il momento della svolta, proprio quando il desiderio fa la sua comparsa, quello è il momento di darci un taglio, giù deciso, l’istante in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa dolce sull’albero : crack, si spacca il picciolo, la pesca cade per terra, nera e argento di mosche.

***

L’insegnante di scienze si era trasferito qui da un altro stato […] Si ficcò subito nei guai perché fece un esperimento in cui divise i suoi allievi e a metà della classe disse di parlare male con dolcezza alle piante di casa, mentre all’altra metà disse di trattarle male, con parolacce e insulti, per vedere se il tono e il contenuto dei discorsi influisse in qualche modo sulla loro crescita. I ragazzini assegnati al gruppo delle parolacce erano eccitati al di là di ogni immaginazione finchè la mamma di Mimi Lunelle non trovò la figlia che diceva alla felce del bagno che era la vergogna della famiglia e che vaffanculo se ne andasse a dormire senza bere. Ma dove hai imparato a parlare così?!, domandò orripilata, e Mimi fece spallucce e con le unghie dette delle schicchere forti alle foglie piumate della felce. Puttane, disse alle radici. La madre la mandò dritta a letto. La signora Lunelle chiamò la direttrice. Vene fatto un discorsetto all’insegnante di scienze, un discorsetto con i fiocchi e i controfiocchi – prima da parte della direttrice, poi dai genitori – e l’esperimento venne interrotto.

***

I genitori scossero la testa in sincrono, e si protesero leggermente verso di me: erano infuriati, ma anche un po’ esitanti. Sotto sotto tutti hanno un po’ paura dell’insegnante di matematica. Basta scrivere alla lavagna 100.000 – 56.899 e la gente scapperà in massa, terrorizzata alla vista di tutti quegli zero al minuendo.

***

Un tempo pensavo che la morte potesse essere nascosta da qualche parte sul nostro corpo. Acquattata dietro alla pupilla come una moneta, infilata sotto un unghia, allacciata attorno a un polso. Una scheggia scura, affilata; una pallottola pallida, libera. Una cosa diversa per ogni persona. La durata di ogni vita predefinita. Il giorno della morte, ti si scioglie dentro a tutto il corpo, calda pallina rotta di sali da bagno. Fino a quel momento, attende - chiusa e muta. Se si sapesse dove cercare si riuscirebbe a trovarla, accoccolata nella piega dell’orecchio ad aspettare pazientemente il giorno giusto. Le persone che sopravvivono a spaventosi incidenti d’auto: non era ancora il loro giorno. Le persone che muoiono per quell’unico hamburger andato a male: la pallina di sali da bagno doveva sciogliersi. Me ne sono sempre stata ben alla larga dalle indovine, perché cosa sarebbe successo se una di loro fosse stata un’indovina vera e avesse trovato la pallina? Se te l’avesse fatta scivolare fuori da sotto l’unghia, l’avesse sollevata controluce, e ti avesse detto la verità.

 

 

 

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