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l'inizio...
Il giorno del mio ventesimo compleanno mi sono
comprata un’ascia.
E’ stato il più bel regalo che avessi avuto da
dieci anni a quella parte. Prima di vederla luccicare appesa
alla parete del negozio di ferramenta come un amante di legno
e acciaio, avevo completamente rinunciato all’idea di
festeggiare il mio compleanno.
Il giorno del mio diciannovesimo mamma mi aveva sbattuto fuori
di casa.
Il giorno del diciottesimo avevo fatto una festa per due persone.
Dopo un’oretta entrambe dissero di avere un’allergia
e se ne andarono a casa starnutendo.
Il giorno del diciassettesimo mi ero fatta una torta al cioccolato,
ma siccome in realtà non volevo affatto mangiarla avevo
aggiunto dell’insetticida all’impasto. Lievitò
una meraviglia, meglio che mai, e quando la tirai fuori dal
forno – perfetta cupola bruna – rimasi a camminarle
intorno per ore, inspirando a pieni polmoni l’aria tiepida
di burro. Alcune formiche mangiarono le briciole sulla credenza
e schiattarono.
Il giorno del mio sedicesimo compleanno mia zia mi aveva mandato
un bel vestito di seta rossa, che aveva il profumo e la delicatezza
della faccia interna del polso. Me lo misi sulle ginocchia e,
accarezzandolo, cominciai a sfogliare l’elenco telefonico
per scegliere il nome di una donna che abitasse ad un indirizzo
che contenesse dei 16. poi le spedii il vestito. Il rosso non
è il mio colore.
Il giorno del mio quindicesimo, quattordicesimo, tredicesimo,
dodicesimo e undicesimo compleanno ero andata a far compere
con mamma e ogni anno, alla fine, una delle due si metteva a
piangere per lo stress perché a me non piaceva niente,
e perché dicevo che in realtà non volevo niente,
tranne, forse, un altro libro di esercizi di matematica. Vanno
ordinati per corrispondenza. Arrivano da un gran capannone pieno
di numeri, nel Sud. Mamma scuoteva la testa: si rifiutava categoricamente
di regalarmi per il compleanno qualcosa che avesse a che fare
con la matematica, così finiva che mi metteva un po’
di soldi in banca.
L’anno del mio decimo compleanno si era ammalato papà,
ed era stato allora che avevo cominciato a smettere.
***
frammenti
Niente piano. Niente dolci. Niente atletica.
Niente. Sono innamorata dello smettere. A suo modo è
un’ arte , se ci pensate. Smettere bene richiede un innato
senso della bellezza; bisogna saper sentire il momento della
svolta, proprio quando il desiderio fa la sua comparsa, quello
è il momento di darci un taglio, giù deciso, l’istante
in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa
dolce sull’albero : crack, si spacca il picciolo, la pesca
cade per terra, nera e argento di mosche.
***
L’insegnante di scienze si era trasferito
qui da un altro stato […] Si ficcò subito nei guai
perché fece un esperimento in cui divise i suoi allievi
e a metà della classe disse di parlare male con dolcezza
alle piante di casa, mentre all’altra metà disse
di trattarle male, con parolacce e insulti, per vedere se il
tono e il contenuto dei discorsi influisse in qualche modo sulla
loro crescita. I ragazzini assegnati al gruppo delle parolacce
erano eccitati al di là di ogni immaginazione finchè
la mamma di Mimi Lunelle non trovò la figlia che diceva
alla felce del bagno che era la vergogna della famiglia e che
vaffanculo se ne andasse a dormire senza bere. Ma dove hai imparato
a parlare così?!, domandò orripilata, e Mimi fece
spallucce e con le unghie dette delle schicchere forti alle
foglie piumate della felce. Puttane, disse alle radici. La madre
la mandò dritta a letto. La signora Lunelle chiamò
la direttrice. Vene fatto un discorsetto all’insegnante
di scienze, un discorsetto con i fiocchi e i controfiocchi –
prima da parte della direttrice, poi dai genitori – e
l’esperimento venne interrotto.
***
I genitori scossero la testa in sincrono, e
si protesero leggermente verso di me: erano infuriati, ma anche
un po’ esitanti. Sotto sotto tutti hanno un po’
paura dell’insegnante di matematica. Basta scrivere alla
lavagna 100.000 – 56.899 e la gente scapperà in
massa, terrorizzata alla vista di tutti quegli zero al minuendo.
***
Un tempo pensavo che la morte potesse essere
nascosta da qualche parte sul nostro corpo. Acquattata dietro
alla pupilla come una moneta, infilata sotto un unghia, allacciata
attorno a un polso. Una scheggia scura, affilata; una pallottola
pallida, libera. Una cosa diversa per ogni persona. La durata
di ogni vita predefinita. Il giorno della morte, ti si scioglie
dentro a tutto il corpo, calda pallina rotta di sali da bagno.
Fino a quel momento, attende - chiusa e muta. Se si sapesse
dove cercare si riuscirebbe a trovarla, accoccolata nella piega
dell’orecchio ad aspettare pazientemente il giorno giusto.
Le persone che sopravvivono a spaventosi incidenti d’auto:
non era ancora il loro giorno. Le persone che muoiono per quell’unico
hamburger andato a male: la pallina di sali da bagno doveva
sciogliersi. Me ne sono sempre stata ben alla larga dalle indovine,
perché cosa sarebbe successo se una di loro fosse stata
un’indovina vera e avesse trovato la pallina? Se te l’avesse
fatta scivolare fuori da sotto l’unghia, l’avesse
sollevata controluce, e ti avesse detto la verità.
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