Per la sua chiesa Gaggioli ha
scelto come tema “La Cena in Emmaus”. Inizialmente si era
pensato ad una “Ultima Cena”, ma al tema leonardesco è stato
preferito una cena più intima ma certo non meno
significativa.
L’iconografia della “Cena in
Emmaus” compare agli inizi del XVI secolo, in un momento di
estremo fervore religioso e di desiderio di rinnovamento
all’interno della Chiesa. Si ricercano temi che facciano
presa sulle persone facendo leva sia sui sentimenti di
compassione, con episodi pieni di pathos, sia sull’empatheia,
cioè sulla identificazione e consonanza di sentimenti con
l’episodio narrato.
Fra i pittori che hanno
trattato questa iconografia, è doveroso menzionare Durer,
artista fiammingo che nel 1511 incide il ciclo della Piccola
Passione nel quale, oltre a tutte le scene canoniche della
Settimana Santa, troviamo una rappresentazione della “Cena
in Emmaus”. Questa scena sarà ripresa dal Pontormo nel 1525
nella tela dipinta per il refettorio della Foresteria della
Certosa di Firenze, ora conservata presso la Galleria degli
Uffizi. Il pittore ci mostra una tavola imbandita con
oggetti semplici, umili, come il pane, una brocca, i piatti;
la luce che si rifrange su questi oggetti crea degli effetti
che possono essere detti precaravaggeschi. Il dipinto si
inserisce negli ideali della riforma cattolica molto sentiti
a Firenze e alla Certosa. Poi Tiziano con la “Cena in Emmaus”
del 1545, adesso al Louvre; questa cena ha una ambientazione
più aulica, e ciò avveniva solo se lo richiedeva il
committente che solitamente era inserito nella narrazione
sotto le spoglie di uno dei due pellegrini. Continuando nel
nostro percorso incontriamo forse una delle cene più famose,
quella che Caravaggio dipinse nel 1606, di una semplicità ma
allo stesso tempo di una forza assolute. I volti dei
discepoli sono in ombra, tutto si concentra su Cristo, sul
suo gesto, ma grazie al sapiente uso della luce e delle
espressioni del corpo, si capisce che tutto è già stato
svelato e la meraviglia è grande. Ho citato solo alcuni fra
gli esempi più famosi per far capire la genesi
dell’iconografia e quanto la fortuna di questo tema non
conoscerà flessioni, anche se solitamente sarà riservato ai
refettori dei conventi e delle abbazie.
Gaggioli rende la
rappresentazione di una semplicità assoluta. E’ volontà del
pittore ricondurre l’evento sacro nella dimensione di un
presente vissuto e tale contemporaneità è sinonimo di
continuità ideale, poiché si stringe un nesso tra il
racconto evangelico e una verità sperimentabile sempre. La
scena si svolge in una stanza spoglia, poche suppellettili
ad arredarla, un tavolo centrale al quale sono seduti tre
commensali. Ma quanta forza è sprigionata da questi uomini!
Sono persone abituate alla fatica, alla vita, sono uomini
che camminano per spostarsi da un luogo all’altro, abituati
a condividere i pasti con gente nota o sconosciuta. Non si
spaventano né si sorprendono facilmente! Ma il mistero con
il quale sono venuti a contatto è talmente grande che
assumono delle espressioni attonite, sembrano quasi non
credere a ciò che stanno vedendo. Tanto la figura del Cristo
che benedice il pane spezzato, quanto i due discepoli, che
con atteggiamenti diversi, ma parimenti stupefatti
riconoscono il Signore, sono resi con realistica evidenza. I
loro atti sono fissati nel fotogramma della loro massima
tensione emotiva. Sono testimoni di un evento che è
difficile spiegare, raccontare, loro vedono, ma soprattutto
sentono e riconoscono che il viandante seduto con loro è il
Maestro. Il Maestro che non si rivela solo ai discepoli come
ad un gruppo di eletti, ma a tutti perché è venuto per
tutti.
Se le figure molto semplici
ma di grande forza espressiva ci portano dritti alla
comprensione del mistero, Gaggioli non cessa di mostrare la
sua innata passione per la natura morta e il mondo animale:
sul tavolo sono sistemati un canestro con ciocche d’uva e
pesche e una caraffa d’acqua che rifrange la luce e
attraverso la quale si scorge il bordo della ciotola che sta
dietro.
Il gatto che osserva
tranquillo lo spettatore è un animale molto amato dal
pittore che gli aveva già dedicato una tela negli anni
passati. Il tutto concorre a creare una sorta di intimità,
di quotidianità nella scena che è sempre stata ricercata dai
pittori che affrontavano questo tema.
La semplicità della scena
bagnata da una luce chiara che viene da sinistra, mette in
risalto i pochi oggetti sul tavolo ma serve ad indicare la
centralità del gesto di Cristo, posto al centro del quadro,
che racchiude in sé il senso di tutto quello che era fino ad
allora accaduto.
Anche qui si rintraccia la
pittura tipica di Gianfranco nella pennellata, nell’uso di
una cromia accesa che dà il senso della gioia di dipingere e
comunicare un messaggio, sia quello religioso o anche solo
d’amore per la propria terra o la sensazione di bellezza
suscitata da un fiore.
La miracolosa apparizione
acquista una veridicità fatta di vocaboli narrativi
quotidiani, resi tangibili dall’esecuzione impeccabile, e
una forza iconica avvalorata dai gesti emblematici delle
figure.
Dialogo muto ma denso di
significato, calibrato nell’armonia delle espressioni e dei
gesti, quasi come a recuperare i modelli figurativi della
grande tradizione toscana cinquecentesca come quelli di Fra’
Bartolomeo o Mariotto Albertinelli.
“Riesce a trovare negli
aspetti più usuali del quotidiano,
negli oggetti di una
vita che sembra ancor oggi sospesa,
l’ispirazione per fare
poesia”
E. Bianchini.
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Martina Biancalani |