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Vita macrocosmica e vita microcosmica - La vita delle materie fa parte della vita del Cosmo - 

Sostanza, qualità e quantità (...Chi sei Tu, Essere Assoluto, di cui noi siamo atomi?...)- 

La logica al servizio dello spirito - I sensori della Coscienza Assoluta - La divina sostanza indiversificata - Percezione e creazione -   

Vita macrocosmica e vita microcosmica

 

(ottobre 1982)

 

 

Dicesi " vita ", secondo la definizione accademica, lo stato di attività della materia diffusa nel cosmo e specialmente della materia organica. Questa definizione bene si adatta al concetto di vita di cui noi abbiamo parlato, secondo il quale tutto vive. Infatti, se vita è lo stato di attività della materia, non c'è materia che non sia in stato di attività quanto meno a livello sub-atomico; quindi non c'è materia che non viva. D'altra parte, filosoficamente, la vera assenza di vita, la cosiddetta " morte ", può essere solo la " non esistenza ".  Ma ciò che non esiste non può essere preso in considerazione, non può servire per affermare l'esistenza di qualcosa.      

 

La conferma del concetto filosofico si ha dalla fisica: infatti, se lo stato di attività sub-atomico della materia cessasse (cioè la materia " morisse ", secondo il concetto accademico di vita) la materia cesserebbe di esistere. A quel punto non sarebbe materia morta, non sarebbe niente, e, non esistendo più, non si potrebbe dire che cosa sarebbe. Questo è solo un ragionamento per assurdo, perché si sa benissimo che niente può annullarsi in senso assoluto; quindi la non esistenza può intendersi solo in senso relativo: cioè non esistere più nel modo in cui la cosa esisteva, ma esistere ancora in altro modo. Perciò la morte può essere solo un " cambiamento di stato di essere " e non un annullamento; così come è per la materia che compone il corpo dell'uomo.

 

Resta da vedere se la coscienza di esistere, quella che ci fa sentire vivi, è un prodotto del corpo fisico ed è legata ad esso così com'è organizzato - a tal punto che, cambiando stato  a seguito della morte, la coscienza sparisce -, oppure essa coscienza ha una sua autonomia rispetto al corpo, come sembrano farlo credere le esperienze extra-corporee, ed in tal caso permarrebbe anche oltre la disgregazione del corpo, come noi del resto affermiamo.      

 

Ma non è questo il problema del quale intendo parlare.

Infatti intendo riprendere il discorso della vita macrocosmica e della vita microcosmica impostato alcuni lustri fa.

" Tutto vive " abbiamo detto, ma questo comune stato di tutto quanto esiste può essere catalogato convenzionalmente in modo diverso.   

 

Sono forme di vita diverse quelle, per esempio, degli animali, dei vegetali, dell'universo. Noi abbiamo convenzionalmente distinto l'unica vita che anima tutto quanto esiste in vita macrocosmica e vita microcosmica, a seconda che l'attività vitale e perciò il retaggio del vivere faccia capo al macrocosmo o al microcosmo. Così, per esempio, la vita della materia, considerata indipendentemente da ciò che la materia stessa compone, che può anche essere un organismo animale, è vita macrocosmica; cioè vive di vita macrocosmica la materia di ciascun piano di esistenza indipendentemente da come tali materie sono utilizzate per costruire gli oggetti o i corpi degli esseri.      

 

La vita macrocosmica, nell'illusione del divenire, ha un inizio con l'emanazione del cosmo e cessa a riassorbimento cosmico avvenuto. 

Ripeto: nell'illusione del divenire, perché in realtà tutto è.   

Le materie hanno un ciclo di vita e quindi, in qualche modo, un ciclo evolutivo che occupa l'intero ciclo cosmico.   

Chiamiamo invece vita microcosmica quella che fa capo (e che cosa intendiamo con " fare capo " l'ho detto prima) ai microcosmi, agli individui, in senso spirituale. La forma più semplice di vita microcosmica è il processo di cristallizzazione. Quella più complessa è la vita umana.     

 

Tuttavia, ripeto, tanto le sostanze che si cristallizzano, cioè danno luogo al processo di cristallizzazione, quanto quelle che costituiscono il corpo dell'uomo, vivono di vita macrocosmica. Se mai, per esempio, è il corpo umano nel suo insieme, con la sua attività, che vive di vita microcosmica; è il corpo umano come organismo costituito, non le sostanze chimiche che lo costituiscono, che reca un retaggio di esperienze all'individuo; perciò è il corpo umano compiuto che vive di vita microcosmica.    

 

La vita microcosmica la ritroviamo anche in organismi più semplici e assai più piccoli: per esempio è vita microcosmica la vita di un'ameba, di un batterio, di un microbo. Insomma ogni individuo biologico è una vita microcosmica. La vita microcosmica ha un ciclo, una durata: permane finché dura il principio della nutrizione, della sensazione e dell'eventuale moto.

 

Se prendiamo in esame un organismo complesso, per esempio il corpo umano, vi possiamo osservare la vita delle materie, delle sostanze che compongono le cellule del corpo. Ed è vita macrocosmica. Inoltre vi troviamo la vita delle cellule e la vita dell'organismo nel suo complesso, cioè la vita dell'uomo. 

Negli organismi più semplici l'attività degli organismi stessi si identifica con l'attività delle cellule che li compongono. Negli organismi complessi la vita cellulare è la vita dell'essere, dell'individuo; pur influenzandosi a vicenda, sono distinte: ognuna ha un suo retaggio.  

 

Ora, siccome la vita, come minimo, è sensazione, e siccome l'essere, l'individuo, delle sensazioni dei miliardi di cellule che compongono il suo corpo al massimo non ha che un senso di dolore quando alcune di esse si trovano in situazioni contrarie alla vitalità, c'è da chiedersi a chi fa capo il retaggio della vita delle cellule degli organismi nei quali essa è distinta dall'attività dell'organismo nel suo complesso. In quegli organismi la vita delle cellule, essendo esse individui biologici, a quale microcosmo fa capo? A quello a cui fa capo l'attività dell'organismo, oppure ad un altro?      

 

Prima di rispondere a questa domanda credo sia utile rimettere a fuoco alcuni concetti, primo fra tutti che lo scopo per il quale ogni essere esiste è quello di manifestare, rivelare, far esistere un grado di coscienza. Ogni essere è una infinitesima parte costituente della coscienza assoluta. Le coscienze che gli esseri manifestano non sono solo diverse le une dalle altre, ma analoghe in qualità; cioè non sono come tanti atomi differenti gli uni dagli altri però eguali come entità; no, sono di ampiezza diversa.   

 

La più semplice forma di coscienza è la coscienza di esistere; la più complessa è la coscienza assoluta. Esiste un collegamento indistruttibile che unisce, in successione, le forme più semplici di coscienza con coscienze sempre più ampie, fino alla coscienza assoluta. E' questo collegamento che impedisce di essere ad ogni manifestazione di coscienza, cioè ad ogni essere, un episodio a sé stante, fine a se stesso, destinato a consumarsi nella sua stessa esistenza; e ne fa invece un momento di una esistenza senza fine, in cui finisce solo ciò che è limitato, incompleto e perciò inappagato.      

L'essere che ciascuno di noi è, nel presente, è quindi un momento dell'esistenza del nostro vero completo essere, che include le più elementari manifestazioni di coscienza già compiutesi con le manifestazioni delle più semplici forme di vita e comprende la coscienza per eccellenza che non conosce limitazione, mèta del nostro apparente divenire. Il nostro vero essere di cui noi siamo momentanea, limitata espressione è un essere ultracosmico che affonda le radici nel nostro cosmo, o meglio che ha in noi le sue radici di questo cosmo, ma che nella sua interezza comprende tutto quanto esiste in senso assoluto.  

 

Ora, la coscienza assoluta, per il fatto di comprendere ogni altra coscienza, non si deve credere che non sia una e unitaria. Così, come la coscienza che noi esprimiamo è la sintesi di molte altre coscienze (pur essendo ciascuno di noi, come essere, come coscienza, come consapevolezza, una unità, un senso unitario) similmente è della coscienza assoluta. Dunque il nostro vero essere comprende, perché ha manifestato, stati di coscienza più limitata di quella che attualmente nella successione logica sta esprimendo. 

 

Questi stati di coscienza elementari, che gli esseri hanno, sono manifestati, nel piano fisico, dalle più semplici forme di  vita, nelle quali la coscienza di esistere si chiama sensazione.

 

Perché vedete: ci sono delle forme di vita le quali, se si escludono le funzioni di riproduzione, sono molto più elementari dei robot costruiti dall’uomo. Infatti, ciò che rende inimitabile la vita creata dalla natura non sono le funzioni vitali né quelle che gli organismi viventi compiono, bensì è la coscienza e, nella sua forma più semplice, la sensazione, che l'uomo non riuscirà mai a dare ad una macchina da lui creata, per quanto, ripeto, essa macchina possa svolgere un'attività assai più complessa di quella svolta dall’uomo.

Si può dare la sensibilità ad una macchina (per esempio: la sensibilità alla luce, al colore e via dicendo) in forma assai maggiore di quanto riesca a fare la natura; le si può insegnare che fare una certa cosa dà piacere mentre subirne un'altra è doloroso, ma tutto ciò farà parte di un programma, di una convenzione a priori stabilita e non realmente sentita, non corrisponderà ad una reale sensazione. Mentre la vita microcosmica, anche nelle sue forme più semplici, è sempre sensazione.      

 

Avere sensazioni significa avvertire, sentire delle impressioni, perciò avere la sensibilità, avere dei sensori, dei sensi, come li hanno i robot; ma in più vivere quei segnali colti dai sensi, sentirli come impressioni gradite o sgradite, tanto da farle essere la propria esistenza. Si hanno delle sensazioni allorché i propri sensi sono stimolati dall’ambiente, dal mondo cosiddetto esterno; cioè allorché qualcosa dal di fuori (questa distinzione " fuori-dentro " è convenzionale) raggiunge l'intimo dell'individuo.  

 

Sotto questo profilo avere sensazioni è un momento di passività dell'individuo.  

Ma la vita microcosmica, nelle sue forme più semplici, non è solo passività, ricettività: è anche espressione; cioè è an che portare nell'ambiente esterno ciò che nell'intimo è percepito. Quando, ad esempio, una pianta soffre, manifesta il suo stato di sofferenza con un deperimento della rigogliosità. 

 

Ogni vita microcosmica è sempre, come minimo, sensazione ed espressione. Questo percepire ed esprimere, nelle forme di vita più semplici, conseguenza della legge di azione e reazione, è il gioco su cui poggia, si manifesta la coscienza di esistere: il sentirsi di essere, che è la forma più semplice di coscienza. E questa forma più semplice di coscienza è la prima di moltissime altre forme che costituiscono la completezza di ogni essere.      

 

Ogni forma di coscienza è un momento dell'essere cosmico a cui appartiene; così come il fanciullo è un momento dell'essere uomo che comprende tutti i momenti dall’infanzia alla vecchiaia. Ogni stato di coscienza non elementare è la conseguenza logica della manifestazione di molti stati di coscienza elementari, di molti " atomi di coscienza ", come noi li abbiamo definiti, e ciascun atomo di coscienza poggia la sua manifestazione, la sua rivelazione, sulla manifestazione nella dimensione fisica di un altissimo numero di vite elementari, in cui il sentire è solo sensazione. 

 

E' un errore perciò dire che l'anima dell'uomo proviene dai regni naturali; giusto è dire che l'essere di ciascuno, di cui l'uomo costituisce una fase della manifestazione, affonda le sue radici nei regni minerale, vegetale e animale. Su queste vite si fonda la manifestazione della coscienza individuale. 

Ognuna di esse costituisce un centro di sensazione e di espressione ed è collegata  ad un atomo di coscienza. Ma badate bene: non intendo dire che ogni individuo biologico abbia, in senso esclusivo, il suo atomo di coscienza, bensì che gruppi e catene di individui biologici fanno capo ad un atomo di coscienza. Ognuno di quegli individui è un centro sensore di un centro comune al gruppo a cui appartiene, centro comune che costituisce il nucleo di manifestazione dell'atomo di coscienza di una individualità. 

 

Al più semplice stato di coscienza di ogni individualità sono legati miriadi e miriadi di individui biologici appartenenti ai tre regni naturali, secondo catene e gruppi che esprimono in successione una vita di sensazione sempre più vasta ed un grado di mente che via via, accenna sempre più a intellettualizzarsi. 

 

A mano a mano che tale processo avanza diminuisce il numero di individui biologici a cui l'atomo di coscienza è legato.  

Così come nell'essere cosmico la coscienza cosmica è una, mentre gli atomi di coscienza sono innumerevoli, così ad ogni

atomo di  coscienza è legato un solo individuo biologico capace di esprimere l'inizio di una vita intellettiva (per esempio un cane), mentre sono legati moltissimi individui biologici che esprimono solo sensazione. 

Questi sono due estremi di una scala in cui appunto il numero di individui della stessa specie legati all'atomo di coscienza è in rapporto inverso alla vita intellettiva espressa: quanto minore è il grado d'intelletto espresso - cioè quanto più semplice è la forma di vita - tanto maggiore è il numero degli individui della stessa specie che recano le esperienze ad un centro comune. Tutto questo perché, data la poca duttilità, versatilità, delle forme di vita semplici, la varietà delle esperienze necessaria alla manifestazione di quel tipo di coscienza sensoria è ottenuta attraverso alla ripetizione. Tale ripetizione non avviene solo per mezzo della vita di più individui biologici che si succedono nel tempo, ma è molteplice anche perché utilizza l'esperienza di tanti individui contemporanei e dei loro successori.      

 

L'esempio classico dell'alveare ci chiarisce le idee: moltissime api che vivono contemporaneamente e che recano le proprie esperienze sensorie al centro comune dell'alveare, la cosiddetta " anima gruppo ", che è il nucleo della manifestazione dell'atomo di coscienza. Ma la varietà delle esperienze sensorie dell'anima dell'alveare non si esaurisce in una generazione di api: si ripete nelle successive generazioni. 

Ogni individuo biologico, cioè ogni ape, è come se fosse un sensore dell'anima dell'alveare, la quale, proprio attraverso ai sensori rappresentati dalle api, estende nello spazio e nel tempo, aumentandoli di molto, la sua possibilità di esperire.

 

Prima ho detto che un'ape è un'individuo biologico. Ma se per individuo biologico si intende un ente che ha una sua vita autonoma, distinto da ogni altro della medesima specie, allora anche una cellula è un individuo biologico: essa manifesterà una forma di vita più semplice di quella manifestata dall’ape, ma sarà sempre una forma di vita. Si trova così la necessità di distinguere gli individui biologici in semplici e complessi.

 

Sono individui biologici semplici, per esempio, gli organismi unicellulari, le singole cellule che compongono un tessuto vivente e così via. Mentre sono individui biologi complessi gli organismi composti da cellule che svolgono un'attività vitale che non si identifica con quella delle cellule che li compongono. Per esempio la nostra ape è un individuo biologico complesso; infatti essa è costituita da cellule che hanno una propria attività vitale che però non si identifica con l'attività vitale in sé dell'ape. Altrettanto si può dire, ad esempio, del corpo dell'uomo, costituito da miliardi e miliardi di cellule aventi tutte un'attività vitale distinta dall’attività dell'uomo come individuo. Ogni individuo biologico semplice o complesso vive di vita microcosmica. Solo la materia considerata allo stato atomico vive di vita macrocosmica.

 

Un uomo, quindi, come individuo biologico complesso vive di vita microcosmica; le cellule che compongono il suo corpo, quali individui biologici semplici, vivono di vita microcosmica, mentre la materia che compone quelle cellule vive di vita macrocosmica.

 

E con questo siamo tornati alla domanda che ci eravamo posti, e cioè: la vita, come minimo, è sempre sensazione, è sempre esperienza ed arricchimento; allora, la vita delle cellule del corpo dell'uomo, per esempio, chi arricchisce? L'uomo od un altro microcosmo? Se la sensazione è quello strumento meraviglioso capace di evocare, far manifestare la coscienza, è chiaro che per produrre i suoi effetti deve essere "percepita».

 

Ora, il possessore di un organismo - un individuo biologico complesso - dell'attività vitale delle cellule componenti il suo organismo ne recepisce, ne avverte solo un'esigua parte. Perciò è chiaro che il microcosmo che si manifesta attraverso ad un organismo non è lo stesso beneficiario delle esperienze sensorie delle cellule che quell'organismo compongono.      

 

Nella vita di un organismo due sono i microcosmi che si manifestano e traggono evoluzione: uno, a cui fa capo  l'attività delle cellule che compongono quell'organismo e che esprime il più semplice grado di coscienza, quello che si identifica con la vita di sensazione; l'altro, a cui fa capo l'attività vitale dell'organismo in sé e che si esprime in un più complesso grado di coscienza.

 

Quando affermiamo che nella molteplicità della natura tutto è uno, affermiamo la somma verità che irrompe evidente e prepotente dalla conoscenza.      

Anche solo guardando il mondo fisico si scopre la coesistenza di un numero altissimo di forme di vita che cooperano o si combattono; ma nell'uno o nell'altro caso è dalla vicinanza, dalla comune esperienza, che si produce quel miracolo della manifestazione della coscienza, sia essa solo sensazione o sentimento del bene e del male liberamente scelto. La reciproca dipendenza, che dà un retaggio di reciproco arricchimento, cementa le molteplici e innumerevoli forme di vita in un solo unitario organismo in cui l'esistenza di ciascuno non serve mai solo a se stessi.

 

Il più recente esempio che possiamo fare con quello che vi abbiamo detto lo possiamo prendere dalla vita del vostro corpo, che non serve solo alla vostra evoluzione individuale, ma serve anche alla manifestazione di forme di vita più semplici, le quali manifestano forme di coscienza più elementari.

A tacere poi di quello che voi, come individui, portate, consciamente o no, nella vita dei vostri simili.    

 

Allora nuovamente torna la riflessione: che senso ha credersi non bisognosi degli altri, a loro superiori e rifiutarli quando, nostro malgrado, per nostra fortuna, non possiamo isolarci, disgiungerci gli uni dagli altri?

Se questa è la realtà, perché non prenderne coscienza?, scoprirne tutto il meraviglioso intreccio che congiunge in un abbraccio tutti gli esseri?    

Perché sentire estranee a sé le creature che sono di se stessi complemento?      

Invero un simile atteggiamento, oltre che essere innaturale, è illogico.

 

Perciò, rendetevi consapevoli della meravigliosa Realtà in cui esistiamo; deponete ogni motivo di isolamento, separazione; considerate ogni essere una parte di voi stessi perché, con la sua vita, contribuisce alla manifestazione della vostra coscienza, intesa quanto meno come coscienza di esistere, quindi contribuisce al vostro sentirvi di essere, alla vostra esistenza; e considerate voi stessi quali unità di una molteplicità il cui dovere non è quello di asservire gli altri a sé, bensi quello di essere strumenti della loro evoluzione.      

 

 

 

La vita delle materie fa parte della vita del Cosmo

 

(febbraio 1983)

 

 

Oggi fa ridere la battuta di quel medico che disse : " Ho fatto tante necroscopie, ma l'anima non l'ho mai trovata ", e ancora di più fa ridere la contro-battuta del credente che ribadiva: " Per forza, l'anima aveva già lasciato il corpo! ". 

Tutto questo potrebbe far pensare che a parlare fossero dei profani, cioè persone che non avessero la preparazione necessaria ad indagare una realtà particolare: da ciò l'errore  concettuale. E concediamolo pure. 

Tuttavia un simile errore concettuale l'hanno avuto, in tempi assai più recenti, persone che la preparazione avrebbero dovuto averla, visto che indagavano nel campo della parapsicologia, mentre chiaramente non l'avevano perché fecero la bella pensata di scoprire se l'anima c'è, pesando il corpo prima e subito dopo la morte. Ma non è tutto: nell'èra moderna, nell'èra dei voli spaziali, qualche astronauta ha osservato che Dio non esiste perché lui non l'ha incontrato nei cieli da lui percorsi.  

 

Non sorridete con tanta sicurezza perché sono sicuro che anche voi, e sia detto senza offesa, non siete poi da meno.

Sono sicuro che voi collocate Dio, se non nei cieli, negli alti piani spirituali; cioè pensate che, se vi fosse consentita l'entrata in quelle dimensioni, vedreste Dio. Tutto questo nonostante che da più tempo noi abbiamo affermato che i diversi piani di esistenza non sono diversi luoghi, ma diversi stati di coscienza, cosicché può entrare  - per così, dire - nelle dimensioni spirituali solo chi ha la coscienza adatta, in quanto solo lui può sentire la realtà di tali dimensioni assolutamente estranee e inavvertite da chi quella coscienza che consente ciò. Dio, quindi, è essenzialmente uno stato di coscienza.

 

Cercatelo pure, o ignoranti, in luoghi diversi, in differenti dottrine; non lo troverete se non in voi stessi quando avrete fatto cadere tutte le limitazioni che avviluppano il vostro vero essere.

 

Ora, il fatto che i vari piani non sono diversi luoghi in senso di spazio, non deve far credere che esista uno spazio oggettivo nel quale siano collocati tutti gli esseri. 

E' vero che ogni essere compone una sola realtà e quindi è coabitante di un sol Tutto, però è anche vero che ogni essere costituisce una sua realtà e, quindi, un suo mondo, ed il fatto che un mondo soggettivo sia comune - ma badate bene, comune solo per somiglianza - a più esseri, non rende oggettivo tale mondo. 

Inoltre, il fatto che tale mondo sia uno stato di coscienza, rende impossibile ubicarlo tanto in spazi diversi quanto in un solo spazio. Perciò colui che lascia il corpo - che muore, come dite - va in un altro mondo nel senso - che muore, come dite - va in un altro mondo nel senso che vive in uno stato di coscienza diverso, ma non si sposta affatto in senso spaziale, né d'altra parte rimane nello stesso spazio. Se mai, rimane nell'unica Realtà nella quale esiste eternamente e nella quale lo spazio è un fatto del soggetto percipiente.

 

Qualcuno di voi può chiedersi: "Ma queste precisazioni che utilità hanno? A che cosa servono?".

Indubbiamente, come ogni cosa, servono solo a chi ne ha bisogno: il cibo serve solo a chi deve nutrirsi. Altrettanto indubbiamente però la Verità - cioè la conoscenza di come le cose sono realmente - arricchisce, dà chiarezza di pensiero e di indirizzo, svela la ragione logica della morale e quindi spinge ad un retto comportamento.

A chi invece, senza bisogno di conoscere motivazioni logiche, è già convinto, non dico che bisogna aiutare i propri simili, ma almeno che non si deve nuocere ad essi, rivolgo un diverso tipo di discorso e domando: allora, perché non lo fai?

La spiegazione filosofica razionale non ti serve solo se già tu agisci secondo quello che dici di sapere. Certo è che se non lo fai significa che non ne sei convinto, e perciò ti serve saperlo.

 

Il decadimento dei principi morali che è in atto nella società di oggi è dovuto in larga misura al fatto che essi sono sempre stati presentati come dei dogmi da accettare e basta, cioè non sono mai stati motivati logicamente. 

Mentre l'uomo di oggi, spinto ed avvezzato al raziocinio, non può accettare quello che non capisce, e da ciò il suo rifiuto ad avere un comportamento di cui non sa la ragione. 

E' vero che se il comportamento morale - per così dire - fosse conseguenza di un intimo sentire, il problema non sussisterebbe; ma è anche vero che i principi morali fondamentali - cioè quelli che attengono alle buone creanze, pure essi dettati dalla opportunità pratica di non darci noia l'uno con l'altro - non temono l'esame dal punto di vista della logica e quindi hanno una fondata ragione d'esistenza. L'evangelico e riassuntivo di tutti i comandamenti Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso invita ad un comportamento individuale che, se fosse seguito da ognuno, risparmierebbe molto dolore agli uomini, e si capisce perché; quindi non teme l'esame critico della logica come, per esempio, il " Santificare le feste ".      

 

Proprio il " Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso " può diventare un invito a conoscersi. Infatti, fra tutti i torti che non si vorrebbero ricevere ve ne sono di quelli che più ci colpirebbero, e quindi più si temono. 

La ragione di tale vulnerabilità può risiedere o nel ricordo inconscio del dolore provato in un'altra esistenza, nella quale si è vissuto il ruolo che ora si teme di vivere; oppure da una motivazione più complessa e cioè che si è portati a pensare che gli altri ci facciano quello che noi facilmente faremmo; sicché il timore di essere ingannati, per esempio, può nascere dalla propria facilità ad ingannare e quindi dal ritenere che altrettanto disinvoltamente gli altri possano ingannarci. Molte volte i difetti che vediamo negli altri sono difetti che abbiamo noi stessi. 

Tutto questo non è incredibile se pensate al fatto che automaticamente l'uomo rapporta tutto a se stesso, misura la realtà col suo metro. Ecco perchè tutto è puro all'occhio dei puri, e viceversa.

 

Se quello che temi è quello che più disinvoltamente faresti, allora il " Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso " diventa quello che più devi stare attento a non fare. Certo, si tiene un dato comportamento solo se si è convinti che è quello che si deve fare; oppure se si è costretti a tenerlo. Noi non vogliamo convincere nessuno né, tanto meno, costringere; perciò parliamo solo per quelli che vogliamo sapere, fermandoci all'esposizione dei concetti e lasciando ad ognuno la libertà di credere o no, al di fuori di ogni tipo di coercizione.      

 

Siamo convinti che spiegare come è la realtà delle cose non può portare che ad una concezione della vita in cui trionfa un gioioso altruismo; tuttavia chi raggiungesse ciò per altra via, prescindendo dalle spiegazioni, avrebbe egualmente raggiunto la mèta. Si usa il proprio corpo anche senza sapere come si svolgono le funzioni biologiche. Però concedetemi che la comprensione è liberatrice e che la conoscenza è uno stadio di passaggio che con duce ad essa.   

Parlo, perciò, per quelli che vogliono sapere.    

 

Invero è difficile parlarvi di ciò che esula da quanto cade sotto la vostra attenzione e dalle conclusioni che siete abituati a trarre percependo la realtà in un certo modo, con certe limitazioni. Voi considerate reale solo ciò che è concreto, ma anche il concetto di concretezza è relativo alla vostra condizione ed è legato ai vostri sensi. La materia fisica, per voi, è qualcosa di concreto che occupa uno spazio, e dirvi che in sé la materia non è affatto concreta come voi la percepite e che lo spazio non è un ente oggettivo, è un po' votarsi a non essere  creduti. Ma poiché, come prima dicevo, a me non importa essere creduto, lo dico lo stesso. Ho solo il dovere di rendere chiaro ciò che dico, e non quello di farvi credere.

 

Supponete di prendere un'asse, di fissarla ad un estremo e di farla girare vorticosamente. La velocità impressa all'asse, secondo una diversa misura, dà effetti diversi in rapporto al tempo di persistenza della sua immagine sulla retina dei vostri occhi. Per esempio l'asse può diventare praticamente invisibile, ma, anche quando lo diventa, non diventa intangibile, anzi occupa uno spazio che comprende tutta la circonferenza descritta dalla sua rotazione, cioè al tatto diventa un corpo grande come tale circonferenza. 

 

Allo stesso modo, gli atomi della materia si possono paragonare alla circonferenza descritta dalla nostra asse: se le particelle che li compongono non ruotassero vorticosamente, la materia sarebbe intangibile. A loro volta, le particelle che compongono gli atomi sono assai meno materiali di quello che appaiono poiché anch'essi sono circonferenze, meglio, orbite descritte dai corpuscoli di cui sono composti, e così via.      

Se si riuscisse ad imprimere un moto di diversa velocità alle particelle che compongono la materia di un dato oggetto,

l'oggetto diventerebbe invisibile ai vostri occhi perché non rifletterebbe più la luce che lo colpisce. Tutto questo deve far capire come la realtà in sé sia ben diversa da come si percepisce e come non sia impossibile che coabitino nella stessa realtà diverse dimensioni, risultato di diversi stati di coscienza.

 

L'unicità della realtà credo di averla sottolineata ancora una volta con quanto dissi ultimamente sulla vita microcosmica e macrocosmica. Credo risulti chiara la simbiosi di tutti gli esseri, che non risiede solo nei reciproci stimoli che essi si scambiano ma che è anche strutturale e, quindi, reale. 

 

Se mai mi preme continuare il discorso per coloro a cui interessa.       

Abbiamo detto che tutto quanto si muove per comporre un ciclo, vive; che la vita, quanto meno, è " sensazione "; e che tutto ciò che esiste, per esistere, deve sentire o essere sentito. Aggiungo che la sensazione e, più ancora, la coscienza, sono sempre il risultato di una molteplicità, cioè di una composizione organica di elementi; con la differenza che la coscienza, esprimendo una più alta qualità di sentire, non è un organismo composto da elementi semplici - infatti è costituita da una molteplicità di sentire -, mentre la sensazione, essendo una manifestazione elementare, è frutto di un organismo costituito da elementi semplici. Quindi: coscienza eguale organismo composto da elementi complessi, sensazione eguale organismo composto da elementi semplici.  

 

La cellula, individuo biologico semplice, è un organismo che trova le sue sensazioni dalla molteplicità dei suoi componenti, cioè dalla molteplicità delle sostanze che la compongono, ossia dagli atomi delle materie di cui è formata. L'atomo in sé non ha sensazioni, pur potendo essere un elemento che le crea. Ripeto: le materie sono gli elementi che costituiscono gli organismi, sedi di sensazioni; sono le sostanze che compongono gli organismi sensori: in sé non hanno sensazione individuale. 

Invece il Logos - o coscienza cosmica - è il centro massimo di coscienza ed è costituito da tutti i possibili stati di coscienza, i quali, in sé, hanno sentire individuale: a sua volta ciascuno stato di coscienza individuale è costituito, poggia su sentire in senso lato, cioè sulle sensazioni eccetera che, come ho detto, sono frutto di attività di organismi composti da elementi, le materie, che in sé non hanno sensazioni individuali.      

 

Badate bene: se è vero che tanto la coscienza quanto la sensazione nascono dagli organismi che le costituiscono, è altrettanto vero che tali organismi non possono esistere scevri da coscienza e da sensazione. 

Ecco perché la vita è, quanto meno, sensazione: non può esistere un organismo che viva senza sensazione. E non pensate al coma per smentirmi, perché in quello stato, che riguarda semmai l'autocoscienza, la sensazione a livello cellulare rimane. Allora, siccome abbiamo detto "anche la materia vive» nel senso che si muove per comporre un ciclo, che è poi il ciclo cosmico, come la mettiamo con il discorso che non ha sensazione, mentre la vita è, quanto meno, sensazione?, e con il discorso che tutto quanto esiste, per esistere, deve sentire o essere sentito?   

 

Intanto, abbiamo detto che la materia vive di vita macrocosmica perché ciò che si muove per comporre un ciclo è il cosmo, più che l'atomo della materia che compone il cosmo stesso. Sicché la sensazione o il sentire, da ricercare nella vita macrocosmica, sono non a livello atomico ma a livello cosmico, logoico, cioè totale, del cosmo. Poi, l'esistenza delle materie che in sé non sentono è garantita egualmente a livello di Logos, cioè di coscienza cosmica, dove è sentito tutto quanto esiste nel cosmo; ossia sono sentiti esseri e sostanze che li compongono e che compongono il tutto cosmico. 

La vita delle materie fa parte della vita del cosmo e la vita del cosmo è molto più che sensazione. 

Perciò il principio non è smentito. Ora confrontiamoli questo " macrocosmo " e questo "microcosmo»,  analoghi ma non identici. Il macrocosmo è costituito da diverse materie e sostanze fisiche, astrali, mentali, akasiche; ed è l'ambiente nel quale vivono i microcosmi, o esseri, i quali sono costituiti da corpi formati delle stesse materie. 

 

Il macrocosmo però non è solo un ambiente ed un fornitore di sostanze, perché il complesso della sostanza akasica - quella della coscienza - è costituito dalla somma di tutte le coscienze di tutti gli esseri che sono nel cosmo. Cioè, mentre la materia fisica per esempio non esiste solo nei corpi degli esseri, ma costituisce anche oggetti inanimati, la materia akasica è tutta quella che costituisce tutti gli stati di coscienza degli esseri, tutti i possibili sentire cosmici. Non esiste materia akasica che non sia organizzata in coscienza di essere. Ecco perché l'essere non è un organismo che ha la coscienza, ma è la coscienza.

 

Questo fatto, o meglio questa realtà, fa  della totalità della sostanza akasica una coscienza globale, un sentire unitario, pur costituito dal sentire di tutti gli esseri del cosmo, o meglio da tutti i sentire che costituiscono tutti gli esseri del cosmo; cioè, parlando in termini di divenire, non solo dai sentire del momento, ma anche da quelli che stanno a monte e a valle nella successione.      

 

L'unitarietà della coscienza cosmica fa di essa coscienza non una parte del cosmo ma l'intera realtà cosmica, comprendendo nel sentire tutto quanto esiste, che, per esistere, deve sentire o essere sentito. Perciò il macrocosmo si può considerare un essere come il microcosmo; ma mentre il microcosmo - pur visto nella totalità, dei sentire che manifesta e che lo compongono - vive tali sentire in successione, il macrocosmo, la coscienza cosmica sente simultaneamente tutta la realtà cosmica. 

Sicché la coscienza cosmica esiste integra tanto nei fotogrammi iniziali del cosmo quanto in quelli finali, non conosce quindi una rivelazione successiva, progressiva. Rispetto all'Assoluto è solo parziale, ma non graduale: la gradualità è solo degli esseri che la compongono. 

Tuttavia quel filo che lega un sentire più semplice ad uno più ampio, e così via, e che crea il miraggio dell'essere che evolve, del divenire, non si arresta allo stato di coscienza cosmica, ma sfocia nella coscienza assoluta che non solo non è graduale, ma è anche totale, onnicomprensiva in senso assoluto.  

 

Un centro di sensibilità di espressione o di coscienza e di espressione, è da noi chiamato un " essere " nel senso di ente che ha vita. In questo senso è un " essere " tanto il microcosmo quanto il macrocosmo e quanto l'Assoluto, perché hanno vita, coscienza, espressione.      

 

Il microcosmo è un essere che nella sua realtà ha una coscienza parziale e graduale. Il macrocosmo è un essere che ha una coscienza parziale ma non graduale. L'Assoluto è un essere che ha la coscienza totale e non graduale.

Siccome la gradualità della coscienza del microcosmo consiste in stati di coscienza che nella successione si rivelano sempre più ampi, si può dire che il microcosmo, dal punto di vista della coscienza, evolve. Mentre altrettanto non si può dire né del macrocosmo né dell'Assoluto. E siccome l'evoluzione avviene in forza degli stimoli che il centro di sensibilità o coscienza ed espressione ha dal mondo sentito come esterno, la coscienza cosmica non ha bisogno di nessun tipo di relazione con le coscienze degli altri cosmi - da qui l'incomunicabilità dei cosmi - né trae stimoli dalla coscienza dei microcosmi anche se è costituita di essi. Altrettanto la coscienza assoluta non ha stimoli dalle coscienze cosmiche, pur essendo costituita da esse. Da qui l'indipendenza, nel senso di non subordinazione, dell'Assoluto rispetto al relativo.        

 

Questa potrebbe sembrare una visione fredda e meccanicistica della Realtà solo se si dimentica che si sta parlando di coscienza, di sentire; solo se si sente se stessi come una cosa e non come una persona. 

Invero, chi può dire di non essere un centro di sensibilità, coscienza, espressione? E se a dare il sentire - che è il capolavoro di tutto quanto esiste fosse un meccanismo, verrebbe meno il suo valore? Conoscere come la Realtà è strutturata deve allontanare il senso di magico, sovrannaturale, imprevedibile e perciò incontrollabile che il mistero reca seco; e deve rendere tranquilli e sereni nella visione di che cosa si è e di che cosa si fa parte.

 

Infatti, tu come ogni essere sei in seno alla divina, unica esistenza, ed è irrazionale che ti senta abbandonato. Irrazionali sono le tue paure e il non sentirti amato.     

La tua esistenza non è un fatto casuale e tu non sei abbandonato a te stesso.      

Gli affanni che ti amareggiano sono la conseguenza di un tuo modo errato di porti nella realtà, e mirano ad indirizzarti diversamente.    

Se ti senti incompreso è perché, a tua volta, non comprendi.

Se ti senti rifiutato è perché rifiuti, se non altro, il fatto che gli altri sono diversi da te e quindi possono non condividere il tuo  modo di essere. E' un errore pensare che gli altri ti debbano particolari attenzioni e cure, che spetti a loro comprenderti e stimarti.      

 

L'illustrazione della Realtà che facciamo mostra come ogni essere sia importante, ma lo è in eguale misura ed è quindi errato tanto sentirsi reietti quanto meritevoli di privilegi.       

A te sono dette queste cose perché il tuo dovere è viverle, esigere non solo i tuoi diritti - magari inventandone dei nuovi - ma adempiere i tuoi doveri che sono anche quelli di stabilire con gli altri un nuovo e diverso tipo di relazione.

L'uomo non è fatto per rimanere chiuso nel suo punto di vista, ma  il suo senso del trascorrere e del divenire della realtà ha proprio lo scopo di non fargli ritenere insuperabili le sue opinioni: perché, per quanto precise possano essere le sue concezioni, sono sempre opinioni.  

La Realtà è così vasta che l'uomo non potrà mai ricomprenderla in un sistema ideato nella sua limitazione di essere limitato e quindi relativo.  

 

Perché rendere necessaria l'azione correttrice del dolore per comprendere tutto questo? Perché rifiutare ciò che solo può darvi chiarezza e serenità? La comprensione e quindi la partecipazione di te stesso sono lo scopo per il quale sei stimolato dai fatti della vita.      

Trova in te stesso lo stimolo e la volontà, e tutto ti  sarà meno angoscioso e più sereno.      

 

 

 

Sostanza, qualità e quantità

 

(marzo 1983)

 

I piani di esistenza, o meglio gli stati di coscienza in cui la realtà è concepita, sentita, come distinta fra io e non io, soggetto ed oggetto, sono da noi definiti mondi della percezione, mondi dei fenomeni, mondi dell'apparenza. 

Infatti la percezione è quel processo in cui la consapevolezza si raggiunge solo attraverso ai sensi; e siccome i sensi sono quegli strumenti che pongono in relazione il soggetto col mondo esterno, è chiaro che la percezione è un fatto che avviene solo in una realtà in cui soggetto e oggetto sono distinti. 

Inoltre, mondo dei fenomeni e dell'apparenza perché il fenomeno, per definizione, è il cambiamento che interviene nelle proprietà dei corpi.

 

La proprietà dei corpi è ciò  che si manifesta di essi, è il loro apparire, non il loro essere. Ma poter conoscere l'apparenza e non la realtà intrinseca  significa appunto essere in una realtà in cui soggetto ed oggetto sono distinti: in una tale realtà, in una simile condizione di esistenza - che è uno stato di coscienza di separatività - i corpi, le materie, le sostanze, gli oggetti, si conoscono solo attraverso alle loro proprietà, ossia a ciò che appare. 

Le realtà intrinseche degli oggetti, sostanze, materie, corpi, eccetera, le possiamo immaginare attraverso al comportamento che essi hanno in situazioni di controllo nei fenomeni a cui li sottoponiamo, ma sono tutte sempre e solo deduzioni logiche: mai certezze assolute. Anche quando si osserva al microscopio una cellula, non si osserva la sua realtà bensì ciò che di essa appare. E per quanto intimamente, interiormente ci si possa spingere nell'indagine, si coglie solo e sempre ciò che appare: mai l'ipostasi.

 

Tale affermazione non è certo originale. E' una deduzione che ha fatto dichiarare agli empiristi - che sono presenti col loro pensiero in tutta la storia della filosofia - che ciò che sta al di là delle proprietà, qualità, accidenti, insomma di ciò che appare, è inconoscibile o addirittura, secondo alcuno, non esiste. Il concetto tradizionale di sostanza sarebbe astratto, non risponderebbe alla realtà perché la sostanza - ossia quel quid di cui gli attributi, proprietà, eccetera sono manifestazioni, che rimane identico col mutare delle qualità molteplici in antitesi con la sua unicità - non esisterebbe ma sarebbe una supposizione a priori per interpretare e comprendere i fatti che cadono sotto l'attenzione dell'uomo.       

 

Ora, che la sostanza nel mondo della percezione sia inconoscibile nella sua realtà intrinseca al di là di come appare, è vero, l'ho detto prima. E non è inconoscibile per mancanza di strumenti, ma proprio per impossibilità. Infatti la conoscenza della realtà intrinseca è possibile solo in un mondo di identificazione, di superamento della separatività, quindi non in uno stato di dualità-molteplicità. 

Tuttavia  la sostanza, come substrato di ciò che appare e che rimane uno al di là della molteplicità e delle mutazioni, esiste. Anzi, direi con Spinoza, esiste un unica sostanza, ma, diversamente da lui, che quell'unica sostanza non è Dio bensì "la sostanza di Dio ", cioè lo spirito.   

 

Forse vi chiederete che differenza fa, dal momento che se Dio è il Tutto e se tutto è sostanza, Dio è sostanza si identificano. Ed io vi rispondo che ciò sarebbe vero se Dio fosse il Tutto, cioè la somma di tutto quanto esiste, mentre Dio comprende il Tutto, altrimenti sarebbe incompleto, però trascende il Tutto. E che Dio trascenda il Tutto lo dimostra il fatto che, se così non fosse, Dio sarebbe finito, perché tutto quanto esiste, pure essendo immenso, è tuttavia finito e relativo. Mentre proprio perché Dio trascende tutto quanto esiste, trascende la finitezza e la relatività di ciò che è in Lui - come spiegherò in fondo. Dico in Lui perché, se Dio comprende tutto quanto esiste, tutto quanto esiste è da Dio incluso - e se tutto quanto esiste è in Lui incluso fa parte della sua esistenza; perciò è costituito della sua Stessa sostanza.  

 

Come prima dicevo, nel mondo dei fenomeni, dell'apparenza, della percezione, la sostanza di cui tutto è formato è inconoscibile in se stessa, nella sua stessa realtà. Di essa, in quel mondo, si può solo conoscere il suo apparire, la sua manifestazione. 

Ciò crea una sorta di identificazione fra la cosa in sé ed il suo apparire, manifestarsi, comportarsi; tanto che si confonde la cosa con le sue proprietà, qualità, attributi eccetera, cioè con i suoi modi di apparire. Anzi, sono più importanti le qualità, le proprietà, che la cosa in sé. Il ferro, per esempio, vale per le sue proprietà, e perfino l'uomo vale solo per le sue qualità. 

 

Tuttavia - a parte l'errore che può nascere dall’abituarsi al tipo di comunicazione che esiste nel mondo dell'apparenza e che porta a dare primaria importanza alla sembianza, a ciò che si estrinseca - che le qualità, le proprietà, eccetera, siano sempre manifestazioni della sostanza, cioè che non possa esistere qualità senza quantità, i filosofi lo hanno quasi univocamente sempre affermato.

 

Ora, siccome a qualità fisiche corrispondono quantità, sostanze fisiche e viceversa, si è pensato che a qualità spirituali corrispondano sostanze spirituali; e da ciò l'esistenza dell'anima quale quid che sta all'origine delle attività delle manifestazioni dell'uomo definite psichiche, spirituali, o comunque non materiali. Il ragionamento non fa una grinza, però parte da una tesi, un assunto non dimostrato per l'uomo; e cioè che l'attività psichica o spirituale che si rivela come pensiero, sentimento e volontà, non sia una semplice funzione del sistema nervoso. 

 

Non intendo entrare in una questione simile ora, ma chiedere: in quale modo, a quale condizione la sostanza spirituale, l'anima insomma, il quid non materiale, potrebbe apparire, manifestarsi, mostrare le sue qualità, le  sue proprietà, né più né meno come la sostanza materiale? 

Innanzi tutto dovrebbe appartenere ad una realtà in cui soggetto ed oggetto fossero distinti in qualche modo; ma ciò non basta; infatti dovrebbe appartenere ad un mondo in cui la comunicazione fra soggetto ed oggetto avvenisse attraverso alla percezione, cioè a ciò che appare, cioè per mezzo dei sensi; ossia dovrebbe appartenere al mondo dei fenomeni, dell'apparenza, della percezione. Oppure, se a quel mondo non appartenesse, dovrebbe influenzare, agire su un tramite che di quel mondo facesse parte. Se appartenesse alla stessa dimensione a cui appartiene la materia, il fatto di chiamarla

" spirituale " sarebbe solo una questione di termini, perché una cosa appartiene alla stessa dimensione di altre quando ha, o perché ha, la stessa natura di quelle.

 

Veramente la dimensione, il piano di esistenza, non è un luogo ma uno stato d'essere. Si appartiene ad un mondo in forza della propria natura. 

La sostanza spirituale, per appartenere alla stessa dimensione di quella materiale, dovrebbe avere la stessa natura. Ma allora si comporterebbe ed avrebbe le stesse qualità di quella materiale mentre, se si è sentita la necessità di denominare " spirituali " certe qualità per distinguerle da quelle materiali, significa che esse sono diverse o di una diversità che può discendere solo da una natura diversa; e se la sostanza spirituale, per natura diversa, non può appartenere alla stessa dimensione di quella materiale - mentre, invece in quella dimensione si manifesta - allora essa, perciò, si serve di un tramite.   

 

Ora, si dà il fatto che il corpo dell'uomo è un ente materiale che manifesta qualità materiali ed altre che materiali non sono, o per lo meno non è oggettivamente provato che lo siano; per cui se queste qualità non sono materiali, allora è il corpo dell'uomo un tramite attraverso al quale la sostanza  spirituale manifesta le sue qualità, cioè si manifesta nel mondo della  percezione. 

Ammessa l'esistenza della sostanza spirituale, essa non appartiene al mondo dell'apparenza. A quale dimensione può appartenere? Ad una dimensione in cui non esiste molteplicità, separatività? 

 

Se si osservano le qualità spirituali manifestate dagli uomini, si osserva che esse sono tutte diverse. Non ne esiste una identica all'altra. Siccome esiste una stretta relazione, dipendenza, fra qualità e quantità, fra proprietà e sostanza, fra attributi e enti - tanto che secondo il pensiero filosofico non si può negare l'attributo, eccetera, senza negare l'esistenza stessa dell'ente -, a qualità spirituali diverse debbono corrispondere sostanze spirituali diverse, realtà spirituali diverse. Sicché se la sostanza spirituale esiste, non appartiene al mondo dell'apparenza. 

Tuttavia appartiene ad una dimensione in cui esiste ancora la molteplicità, la separatività. Le qualità psico-spirituali che attraverso all'uomo si manifestano nel mondo della percezione sono proprietà di sostanze  spirituali diverse, di realtà spirituali molteplici. 

Se pensiero, volontà e sentimento sono qualità spirituali - cioè proprietà della sostanza spirituale che appartiene ad una dimensione - allora l'essere vivente nel mondo materiale è il punto d'incontro di due dimensioni di esistenza. E se così, è, allora la separatività, che pure esiste in seno ad una medesima dimensione, fra un piano di esistenza e l'altro, non è assoluta. 

 

Ora, il fatto che fra una dimensione di esistenza, quella spirituale, ed un'altra, quella materiale, non vi sia una separazione assoluta - come per esempio può esservi fra due circuiti oscillanti non accordati che pure appartengono ad un medesimo mondo -, si può pensare probabile che  l'enorme molteplicità delle sostanze faccia parte di un'unità e che la connessione fra le varie realtà, dimensioni, leghi la molteplicità in un sol tutto inscindibile.    

 

Questo aspetto di molteplicità, perciò di successione, di estensione, di quantità - e al tempo stesso unitario - si osserva costantemente nella realtà. La stessa quantità, cioè sostanza, e la stessa qualità, cioè proprietà, che sono aspetti di una stessa realtà, sono percepite l'una successivamente e quindi molteplicemente, l'altra unitariamente.   

L'unità del Tutto è sempre stata intuita dai pensatori e risolta concettualmente in modi diversi. 

 

Per esempio alla maniera aristotelica della sostanza, che è una al di là delle molteplici manifestazioni dell'esistenza; o alla maniera panteistica di Spinoza; e così via. Mentre se è vero che tutta la molteplicità del mondo manifestato trae origine da una prima sostanza addirittura indiversificata - e già questo rappresenterebbe una radice unitaria del Tutto - è altresì vero che l'unità è assai meno remota di così, perché tutto quanto esiste concorre alla sua costituzione, forma un sol tutto  inscindibile. 

E a proposito di inscindibilità, che la qualità e la quantità, le proprietà e i corpi siano inscindibili, è dovuto al fatto che così si presentano nel mondo della percezione, mentre in altri piani-dimensione la sostanza può esistere priva di qualità? Se così fosse, in quella dimensione la molteplicità si realizzerebbe solo attraverso alla differente quantità, intesa in senso di estensione della sostanza. 

Ma siccome l'estensione stessa è una qualità, rimane confermato in assoluto il principio che i corpi sono diversi perché hanno proprietà diverse, e viceversa; e che qualità e quantità sono inscindibili. L'una non può esistere senza l'altra. Quindi la qualità discende dalla natura intrinseca della sostanza, si manifesta all'esterno ma trae la sua origine dall’interno della sostanza, la quale rimane diversa in qualità anche in una dimensione dove non esiste l'apparenza, la percezione, per mezzo di cui si manifesta tale diversità. 

Sicché c'è identificazione fra qualità e sostanza.  

 

Tale identificazione è meno evidente laddove si può cogliere la qualità e non la sostanza, dove la qualità si  conosce e la sostanza è inconoscibile, cioè nel mondo dell'apparenza, nel mondo della percezione. In altre parole, tale identificazione è più evidente nella dimensione dello spirito. In tale dimensione la qualità è la sostanza. In una simile realtà, che è ancora molteplice, la comunicazione può avvenire solo con la identiticazione; cioè si conosce la sostanza che costituisce una realtà, un essere, non già dalle sue manifestazioni - come accade nel mondo dell'apparenza - ma da ciò che è in sé, comprendendo, abbracciando l'essere, la realtà stessa.

 

Il ruolo degli esseri di una tale dimensione di esistenza non è comportamentale, non è di azione, anzi non è in nessun modo un ruolo, perché non è rappresentare e fare, ma essere e sentire. In una simile dimensione di esistenza non c'è spazio, pur essendoci ancora separatività; quindi gli esseri non sono più o meno vicini in senso spaziale, lo sono però in senso di affinità. 

 

Tuttavia non c'è contatto se non nella reciproca identificazione. In una simile realtà gli esseri non sono più isolati di quanto lo siano nella dimensione della percezione, dove degli altri si conosce solo ciò che appare, e l'intimo essere rimane sempre un mistero. Nel mondo dell'apparenza, infatti, non è mai possibile stabilire un reale contatto, conoscersi nella reciproca intima realtà. E questo, semmai, è il vero isolamento, la vera solitudine. 

 

Perciò, da questo punto di vista, si potrebbe dire che nel mondo dell'apparenza tutto è sempre all'esterno di se stessi, e che solo considerando che una cosa è veramente esterna - quando di essa non si conosce nulla, neppure l'esistenza - si può affermare che quanto si conosce, anche solo esteriormente, fa parte del proprio mondo, della propria realtà e quindi di se stessi, perciò è all'interno di sé sia pure solo come sembianza. Mentre nella dimensione della sostanza spirituale non solo tutto quello con cui si entra in contatto è all'interno di se stessi, ma lo è come sostanza, come intimo essere. Nel mondo dell'apparenza - se hanno un senso, un fine, le relazioni fra gli esseri e gli eventi in  generale - la percezione - cioè la possibilità di cogliere l'apparenza della realtà, o meglio la realtà apparente - è il mezzo attraverso al quale il fine è raggiunto. 

 

Ebbene, nel mondo della sostanza spirituale, l'analogo mezzo è l'identificazione. E se la percezione è un primo passo verso il superamento della separatività, cioè l'unificazione della molteplicità, l'identificazione è il superamento della separatività tradotto in atto.      

 

Nella dimensione in cui la sostanza è identificata con la qualità, un essere non è un ente che ha una qualità, ma è la qualità stessa. E se nel mondo della percezione un essere è un ente che ha un sentire, una coscienza, nel mondo della sostanza spirituale, l'essere è il sentire, la coscienza: qualità innalzata a persona. 

 

Ciò è importante perché, mentre nella dimensione dell'apparenza i corpi possono acquistare e perdere proprietà, laddove la qualità è la sostanza perdere la qualità significherebbe perdere la sostanza; ma siccome nessuna sostanza può essere annullata, cessare di esistere in senso assoluto, ciò significa che la qualità non viene mai perduta.       

E siccome, ho detto, la qualità della sostanza spirituale è la coscienza, il sentire, la coscienza non vengono mai meno.

 

Ora, l'annullamento della separatività, conseguente alla identificazione, non può che essere un reciproco arricchimento delle parti. Sicché non solo la coscienza non cessa di esistere ma, se è vera l'identificazione,  è destinata ad ampliarsi sempre di più. E che sia vera l'identificazione - che rappresenta nel mondo spirituale il processo analogo all'attività di relazione degli esseri materiali - lo dimostra il fatto che la vita naturale, pur tendendo a manifestarsi in una molteplicità inesauribile, tuttavia non tiene isolata ogni unità della molteplicità, ogni individuo, ma lo pone costantemente in situazioni di relazione non solo con individui appartenenti alla stessa specie, ma anche con individui di specie diverse. 

E' quindi ragionevole supporre che gli esseri spirituali soggiacciano alla stessa legge di relazione che, nella loro dimensione, si concretizza nell'identificazione reciproca.

 

Il processo di accrescimento della coscienza è dunque inverso a quello di accrescimento del numero, perché, mentre il numero cresce con l'accrescimento delle unità - cioè nella molteplicità - la coscienza si incrementa nel diminuire delle molteplicità, per effetto della unificazione. 

Il processo di identificazione delle coscienze individuali, che realizza il superamento della separatività, va a costituire una coscienza riassuntiva e quindi totale. In una simile coscienza tutto è egualmente sentito, così come le singole coscienze lo sentono: perciò nella totalità nulla emerge in particolare. Ora, se la qualità è percepita unitariamente, dipende dal fatto che è unitaria, perciò unitaria è la coscienza. E lo dimostra il fatto che anche nel mondo della percezione, dove tutto tende a mostrarsi diviso e molteplice, la consapevolezza - qualità dell'uomo - pur poggiandosi su innumerevoli e distinte informazioni fornite dai sensi, pur essendo il risultato di segnali percepiti distintamente e simultaneamente, è tuttavia un fatto unitario, una sintesi in cui tutte le singole informazioni sono egualmente tenute presenti e che va oltre la portata di esse, proprio per la sua unitarietà.      

 

Sicché la coscienza totale, pur fondandosi sulle singole coscienze individuali, non può che essere unitaria e perciò trascenderle. E siccome la coscienza è qualità che si identifica con la sostanza, la coscienza totale è un essere totale che per il suo trascendere la totalità è assoluto.

 

Chi sei Tu, essere assoluto di cui noi siamo atomi?      

Tu che trascendi le nostre limitazioni ed il morire di ogni istante?   

Tu che ci salvi dall’immobilità e ci fai evadere dalle condizioni di limitatezza?      

Tu che ci fai esistere e non releghi la nostra coscienza ad uno stato di incompletezza?   

Tu che, esisti nel superamento di ogni separatività, nella comunione di tutti gli esseri?    

Chi sei?

 

" Io sono spirito e materia, e nulla di tutto questo.    

Sono maschio e femmina, e nulla di tutto questo.    

Non sono neppure un io, perché in me non esiste distinzione separazione limitazione: infatti comprendo il Tutto.     

Comprendere il Tutto significa non  conoscere esclusione alcuna, privazione alcuna; non conoscere l'angoscia che nasce dal desiderio di avere o di essere ciò che non si ha o non si è.

Essere il Tutto significa Essere e, quindi, avere la pienezza assoluta.  

Per te io sono tutto quanto ti manca per essere assoluto.  

Tutto quanto sperimenti ti conduce a me, perché io sono il tuo destino.      

Apparisco nascosto ai tuoi occhi, eppure sono palese a chi voglia trovarmi.

Non attribuirmi qualità che hanno un contrario, perché mi limiti. Dunque, io sono illimitato. Ma pure questa è una qualità: dunque io sono indefinibile.    

Sono il tuo essere e il tuo non essere, in forza del quale sei come sei, imperciocché ogni cosa del mondo relativo esiste

perché esiste il suo contrario. 

Ma io sono la spiegazione dei contrari, perché li trascendo. 

Sono colui che dalla materia bruta trae la coscienza, in forza della quale tutto esiste. Se infatti ciò che è non sentisse o non fosse sentito, non esisterebbe.

Così, il prodigio dell'esistenza è il prodigio della coscienza. Esistere è sentire di esistere. Io sono l'esistenza assoluta. Perciò, sentire di esistere è sentire me.      

Ogni essere mi sente perché sente di esistere, ed in forza della sua stessa esistenza io sono presente in ogni essere.   La semplice coscienza di esistere è la mia più velata manifestazione negli esseri, ma io sono anche ciò che alimenta la loro coscienza. Perciò sono la gioia che aneli e il dolore che ti schianta. Sono l'ambizione che ti spinge alla conquista ed il vuoto che alla conquista subentra.  

Per ampliare la tua coscienza non esito ad edificare una civiltà o a distruggerla. Tutto io faccio in funzione di te, del tuo vero bene.

Vedi coloro che ti circondano? Gioiscono, soffrono, si muovono, vivono e ciò che tu vedi di loro avviene per te.  

Vedi che accade nel mondo? Accade per te. Anche ciò di cui hai avuto solo una scarna notizia, sentito una lontana eco, è avvenuto per te, figlio mio.      

Il sole sorge e tramonta, le stagioni si susseguono, i pianeti percorrono le loro orbite, gli universi nascono e periscono e tutto ciò io lo faccio accadere per te, figlio mio.

Dunque io sono la sostanza che ti costituisce e lo spirito che ti anima, poiché tu sei in me ed io sono in te, figlio mio.

Ma non mi fermo solo a questo, perché rendo partecipe di me stesso ogni essere ed a ciascuno mi dono interamente senza riserve, fino al punto che ogni distinzione io e te, ogni separazione, sono solo illusorie, e lo sono solo quel tanto necessario a farti esistere, a donare all'essere la coscienza assoluta.  

Questo io sono ».

 

 

 

 

La logica al servizi dello spirito

 

(aprile 1983)

 

 

L'interpretazione della vita in chiave trascendentale è stata in passato quasi esclusivamente patrimonio dei temperamenti mistici: solo chi sentiva che la vita non era solo un fatto fisiologico, poteva crederlo. Gli altri, i temperamenti razionali, non potevano avere nella ragione un supporto che rendesse la fede più fondata, più plausibile.      

Noi abbiamo la pretesa di rendere logica la fede nella realtà trascendentale del mondo, o per lo meno di rendere logica una opinione di tal genere. Perciò parliamo da tempo evitando accuratamente qualunque affermazione che possa suonare dogmatica, cercando di spiegare logicamente ogni nostra asserzione, una volta oggetto solo di fede o per lo meno tanto inaccettabile dalla ragione che altri hanno dovuto imporla come dogma.     

 

D'altra parte, se così non facessimo, saremmo in contraddizione con noi stessi e quindi illogici dato che da sempre vi raccomandiamo di credere, di quello che vi diciamo, solo ciò che vi convince. Ecco perché sentiamo nostro dovere il rendere comprensibile logicamente ciò che affermiamo, proprio per non creare una sorta di religione in cui sono accettate e credute alla lettera immagini simboliche, e scambiate per realtà favole assurde.   

Mi si obietterà che se quelle storie sono credute ed elevate a dottrina, evidentemente sono ritenute logiche. Una simile obiezione merita una analisi proprio in omaggio alla logica.

 

Innanzi tutto, sgombriamo il campo da qualunque altro motivo che possa fare accettare una fede senza comprenderla: per esempio il fatto che l'accettante veda nella accettazione una sorta di convenienza, che può andare da una convenienza di ordine umano a una d'ordine trascendentale. Soffermiamoci solo sulla affermazione che chi crede qualcosa e l'accetta, la trovi logica.    

 

Intanto che una asserzione sia logica, o sia ritenuta tale, sono due cose diverse. La logica non è una scelta o una opinione, sicché si può accettare un'asserzione ritenendola logica - quando invece logica non è - solo se si commette un errore. Poi se si afferma che chi crede a qualcosa e l'accetta è perché la ritiene logica, si afferma implicitamente la credibilità della logica: cioè si afferma che se una cosa è logica, è credibile. 

D'altro canto, però, si afferma anche che possono esservi logiche diverse che conducono a conclusioni in antitesi, dato che esistono credenze contrastanti.    

Prima di approfondire tale aspetto della questione, che credo sia il più importante, vorrei ancora soffermarmi sul discorso che gli uomini possono credere a qualcosa non solo se quel qualcosa non è logico in sé, ma anche ritenendolo illogico; cioè pur non comprendendolo logicamente. 

 

Quindi, il fatto che vi siano convinzioni contrastanti non dimostra che vi siano logiche contrastanti. E che gli uomini possano credere a cose aberranti, vi sono esempi a non finire; e che abbiano comportamenti illogici - cioè non conseguenti rispetto alle loro opinioni vi sono altrettanti esempi. Uno dei più divertenti, proprio perché rimane sul piano inoffensivo della curiosità accademica, è quello della religione che condanna la bestemmia, cioè l'offesa verbale a Dio, e poi parla di lui come di Colui che sacrifica a sé il suo divin figliolo per riscattare presso di sé i peccati degli uomini! Siccome si parla di " verità di fede ", - cioè di concetti che ci si rendeva conto fossero incredibili, tanto che si impongono come dogma - non si può passare tale affermazione al vaglio della logica. Però si può dire che Dio si dovrebbe dispiacere di più che si parlasse di Lui in questi termini, che gli si rivolgesse qualche epiteto offensivo.

 

Non c'è dubbio che una simile concezione di Dio è la più grande bestemmia che si possa concepire.

Allora, tornando ad argomenti più seri: vi è una sola logica, o vi sono più logiche che partendo da uno stesso presupposto possono condurre a conclusioni diverse? 

La questione è importante perché, se fosse vera quest'ultima ipotesi, sarebbe perfettamente inutile che ci appellassimo alla logica per rendere a voi credibili le nostre affermazioni, dato che non potete controllarle altrimenti, quando poi vi fosse un'altra logica che tranquillamente potesse far affermare tutto il contrario. Ma in tutta franchezza vi dico che se il nostro dire fosse solo una serie di affermazioni buttate là e le nostre parole credute solo perché ipse dixit (l'ha detto lui), allora ci saremmo taciuti, perché è l'ora di finirla con i pontefici di tutti i generi che impongono il loro vuoto dire con la presunta loro autorità. 

 

Uomo svegliati! Abbatti questi falsi idoli! La più grande criminalità è quella di chi occupa un posto di preminenza e autorità senza avere né le doti morali né quelle specifiche.      

Per continuare il discorso, mi sembra essenziale che ci intendiamo per prima cosa sul significato dei termini e principalmente su quello di logica.

 

La logica è quel requisito che ha una affermazione fatta nell'ambito di un presupposto, allorché è coerente, conseguente e omogenea. Quindi la logica, come scienza, è l'insieme dei principi in ordine ai quali viene assicurata la coerenza, la conseguenzialità e l'omogeneità di un pensiero o di un ragionamento. La logica in questo senso è universale perché non riguarda l'oggetto, la materia del ragionamento, ma il modo e la forma, quindi rimane valida per qualunque contenuto. 

 

Ora, per quanto la logica si possa o si voglia astrarre dai contenuti e quindi affermare il suo carattere autonomo, è certo che la logica non è un requisito che abbellisce un ragionamento e basta, ma lo rende più probabile, più credibile e quindi lo valorizza. Sicché la logica va a beneficio dei contenuti.

 

D'altro canto, per quanto universale si possa considerare la logica, i principi che la costituiscono non sono estranei, anzi, sono strettamente connessi a un certo tipo di realtà. In una realtà diversa, la conseguenzialità, lo sviluppo sarebbe diverso e quindi diversa la conclusione. 

Ora, si dovrebbe in tal caso parlare di logica diversa? Se la logica è il rispetto dei principi che rendono coerente, conseguente e omogeneo un ragionamento, esiste una sola logica, che può avere forme e sviluppi diversi ma che rimane sempre logica. 

Quindi una diversa conclusione di due ragionamenti logici non è dovuta a logiche diverse, ma a presupposti diversi e sviluppi diversi. E tutto ciò senza parlare dei giochetti di parole o di conclusioni che sembrano diverse ma che in realtà si equivalgono: la storia del bicchiere che per taluno è mezzo pieno e per talaltro è mezzo vuoto. E senza parlare degli errori come, per esempio, applicare la logica dell'eguaglianza alla logica della diversità: infatti se A è eguale a B, e B è eguale a C, ne deriva che A è eguale a C; mentre se A è diverso da B, e B da C, non necessariamente C è diverso da A.   

 

Prima dicevo che in una realtà diversa, la logica può implicare un diverso svolgimento del ragionamento. Non per nulla alcuni filosofi hanno concepito la logica come il processo storico-dialettico della realtà. Inoltre, se si pensa alla logica induttiva, quella che risale dagli effetti alle cause, si ha la misura di quanto il ragionamento sia legato alla realtà, o all'immagine della realtà che ha chi ragiona, cioè l'uomo. Così, in una realtà in cui fosse vera la successione temporale, lo sviluppo logico di un ragionamento è in funzione di quel presupposto e conduce a certe conclusioni. Mentre in una realtà in cui è vera la successione del sentire, il ragionamento si conclude diversamente; ed ancora diversamente si conclude in una realtà di eterno presente, cioè senza successione.      

 

Tuttavia, questo non significa che si possa sostenere disinvoltamente qualunque affermazione dicendo che, se anche non è logica nella realtà che si concepisce, può esserlo in una realtà diversa. Anzi, proprio dal collaudo che una concezione subisce, sottoponendola al confronto con realtà diverse, si ha la misura della sua universalità e quindi della sua validità. In altre parole, quando una affermazione è logica in sé e logica rimane inserendosi logicamente in un contesto logico - che riguarda la concezione più vasta possibile dell'Esistente - non ci può essere affermazione opposta che si possa sostenere logicamente.      

 

Se è vero che tutto è Uno, ne consegue che tutto è legato e quindi conseguente. Perciò la logica non è che lo specchio della Realtà totale e solo concezioni parziali della realtà - o realtà parziali - possono, nella prospettiva relativa, portare a conclusioni diverse; conclusioni che, se vere, trovano indubbiamente la loro sintesi conciliativa nella vera concezione della realtà globale. Insisto sul fatto che se tutto è Uno, tutto è interdipendente, e quindi la conseguenzialità, la coerenza e l'omogeneità - ossia l'essenza stessa della logica - fanno parte della Realtà.    

 

Che tale affermazione sia vera potete crederlo dalla ricerca scientifica, la quale altro non è che la ricerca della logica della natura. 

E se proprio la scienza può concepire logiche dette diverse, il cui sviluppo può condurre a risultati diversi, a ben vedere si tratta spesso di presupposti diversi, come nel caso delle leggi sul moto, concepite nel presupposto di uno spazio euclideo, che tuttavia rimangono vere per approssimazione nello spazio relativistico. E se anche si concepiscono logiche astratte per pura speculazione, si tratta di costruzioni logiche su modulo diverso, ma sempre di logica si tratta, mantenendo esse la conseguenzialità, la coerenza, l'omogeneità.

 

Voi potete dire quello che volete, scivolare dal discorso sulla logica a quello sulla conoscenza, per affermare che la logica non dà valore alcuno al concetto. Ma nel momento in cui fate il ragionamento che vi conduce ad una tale affermazione, se non fate omaggio al vero, comunque fate omaggio alla logica, perché è certo che il comunicare, come il capire, sono processi logici.    

 

Certo, non intendo dire che tutto quello che è logico sia vero, come in matematica: fra più logiche supposizioni o spiegazioni di un fatto, una sola è quella vera; tuttavia fra quelle logiche e quelle che tali non sono, la vera è certamente fra le prime. Quindi la logica rappresenta un punto di appoggio, un orientamento per chi debba scegliere o prendere partito senza sapere qual è la verità. Nessuno dovrebbe perdere di vista o bandire la logica dal suo abito mentale. Solo per il fatto che il capire e il capirsi sono processi logici, la logica dovrebbe essere ricercata da ognuno.    

 

Ho già detto che la scienza è la ricerca della logica della natura. E il sapere, come ricchezza individuale, non deve forse un grande tributo alla logica? Certo si può sapere anche per intuizione, cioè con un mezzo che non coinvolge la logica e dà risultati più certi e meno sofferti. 

Però quanto raro è l'intuire! E se, da questo punto di vista, si deve dire che c'è qualcosa che sovrasta la logica e la rende non insostituibile, bisogna anche dire che la logica, nel comprendere, può far risparmiare molto dolore. Qual è, infatti, l'altra alternativa alla comprensione cosciente, quando manchi l'intuizione e non si voglia capire con la mente, se non l'esperire direttamente? Ma quanto dolore costa poi l'esperienza diretta!   

Dunque, voi che non avete il dono dell'intuizione, non siete votati al dolore per trarre la vostra coscienza dalle nebbie della materia: potete servirvi della logica per capire e poi comprendere.

 

La logica è quindi il vostro conforto, la vostra salvezza dal dolore.    

Il mio discorso è un elogio alla logica, non già quale requisito che il discorso scientifico deve avere, ma come mezzo per percorrere la via dello spirito, per chi lo spirito non senta così profondamente da ritenerlo vero senza alcuna convalida, perché la vera fede è quella che non teme l'esame della logica.

La logica, quindi, al servizio dello spirito, come dire la mente al servizio del sentimento. Mirabile associazione, che completa nella reciproca integrazione due attributi che, in se stessi, potrebbero essere aberranti: infatti, il freddo raziocinio può condurre alla crudeltà, e l'incontrollato sentimento può diventare alienante e improduttivo; mentre un giusto dosaggio dei due dona quel buon senso che è la benedizione dell'umanità, perché, quando c'è, protegge l'uomo dalla cecità degli eccessi. 

 

Ascoltatemi: nelle vostre professioni di fede, non perdete mai di vista la logica. E' l'unico strumento che avete per salvarvi dal pericolo di finire col credere a tutto. E' l'unico mezzo che può impedire di astrarvi dalla realtà e cadere nel vortice di un mondo assurdo, incombente e insidioso pericolo per chi voglia conoscere l'aspetto nascosto di Ciò che E'.

 

 

 

 

I sensori della Coscienza Assoluta

 

(maggio 1983)

 

 

Una affermazione dice, significa qualcosa che va oltre il senso letterale. Se per esempio si dice: oggi è una bella giornata », nel significato di tempo atmosferico, implicitamente si afferma che esistono tutti quei fattoti che sono propri del bel tempo: il sole, la temperatura mite, eccetera. 

Questo proprio perché chi fa l'affermazione, se è una persona oculata, la fa a conclusione della sua constatazione che vi sono quelle condizioni per cui il tempo è definito bello; non solo, vi sono anche delle implicazioni conseguenti a quel fatto: per esempio che le persone escono senza parapioggia, e via dicendo.   

 

Allo stesso modo, quando noi affermiamo che la coscienza di esistere, il sentirsi d'essere non viene mai meno, non facciamo che enunciare un dato di fatto; ma voi siete nella condizione di chi si trovasse in una stanza buia, senza la possibilità di vedere fuori, e si sentisse dire: " oggi è una bella giornata ": dovrebbe starsene a ciò che gli dicono. 

 

Così voi, non avendo la possibilità di constatare la Verità della affermazione che il sentirsi di esistere non viene mai meno, dovete starvene a ciò che vi diciamo. Anzi, pensando allo stato di coma, al sonno senza sogni in cui sembra che l'autocoscienza venga meno, siete portati a dubitare di una simile affermazione. Tuttavia dovete tenere presente che c'è una differenza fra incoscienza, nel senso di mancanza di autoconsapevolezza, e oblio, cioè non ricordare; cosicché non ricordare ciò che avete fatto un anno fa a quest'ora non significa non averlo fatto. Per cui, chi cade in coma - nel così detto stato d'incoscienza - non ricorda poi ciò che ha sognato o visto o pensato mentre il suo corpo non rispondeva; ma questo non significa che il suo sentirsi di esistere sia venuto meno; semplicemente non ne ha il ricordo, come probabilmente non ricorda tanti fatti trascorsi della sua vita. 

 

L'affermazione che la coscienza di esistere non viene mai meno significa che l'inconsapevolezza di sé non esiste.      

Allora, come spiegare certi fatti che invece sembrano contraddire tale affermazione? Solo e sempre con il venir meno del ricordo? Non sempre. Il piano del sentire - cioè della coscienza di essere - è il piano akasico; però la consapevolezza del mondo esterno si sposta, traslata nel piano dove l'individuo ha il corpo con i sensi aperti al mondo esterno. 

Se è incarnato, i sensi del suo corpo fisico Io renderanno consapevole del mondo fisico con cui entra in contatto, ed egli crederà che tutto il suo essere sia in quel piano, mentre lo sarà solo elettivamente, virtualmente, in forza di tale meccanismo, perché il nucleo del suo essere - quello che è responsabile della sua esistenza, della sua coscienza di esistere - sarà sempre nel piano akasico. 

Così la sua consapevolezza sarà polarizzata sul piano fisico, pure essendo egli al centro dell'attività di altri corpi ubicati, per materia, in altri piani, cioè astrale e mentale; solo che, essendo i sensi di quei corpi non volti all'esterno, non gli daranno la consapevolezza della vita su quei piani.     

 

Nel caso, invece, di cosiddetto sdoppiamento, i sensi del corpo fisico si chiudono all'omonimo piano, mentre si aprono quelli del corpo astrale e l'individuo diviene consapevole della porzione del mondo astrale che le sue capacità ricettive gli consentono di avere. Ora, i sensi del corpo fisico si possono chiudere o attutire momentaneamente anche senza che si aprano esternamente quelli degli altri corpi. Ciò avviene più comunemente quando l'individuo è assorbito dalla intensa attività degli altri suoi corpi: per esempio quando pensa intensamente.

 

Vi sarà capitato di pensare con intensità e di perdere, o avere molto attutita, la cognizione di cosa avviene attorno a voi nel piano fisico. Ciò non significa che avete cessato di esistere in senso assoluto; se mai vi siete astratti dall’esistenza in quel piano così come quando il vostro corpo fisico dorme; ma la vostra esistenza non è venuta meno e non è venuto meno il vostro sentirvi d'essere.        

 

Esistenza e sentirsi di esistere sono inscindibili e ininterrompibili, perché sono la stessa cosa. Mentre sono cose diverse e disgiungibili il senso di esistere ed il ricordo.       

Non si ha cognizione di aver fatto qualcosa o perché è venuto meno il ricordo dell'atto, o perché la si è fatta in un momento di distrazione, cioè mentre si era immersi in un assillante pensiero. 

Nell'uno o nell'altro caso, però, la mancanza di tale cognizione non significa che sia venuta meno  la consapevolezza di esistere.

 

Dicevo che esistenza e sentire sono una cosa sola; tant'è vero che niente può esistere se non sente o se non è sentito.

La materia definita inanimata non sente ma è sentita dalla coscienza cosmica, la quale sente l'intera realtà cosmica di cui è costituita, cosicché la materia esiste in forza della coscienza cosmica. 

Ora, come ho detto in altra occasione, siccome la coscienza cosmica è tutta e solo quella che tutti i sentire degli esseri compongono, ciò significa che l'intera realtà cosmica è costituita da tutti i sentire di tutti gli esseri, e che la coscienza cosmica sente la realtà cosmica per mezzo dei sentire degli esseri. Sicché non può esistere una materia inanimata senza che almeno un essere la senta, la percepisca; e se è percepita saltuariamente, nei tempi in cui non è percepita da alcuno, non esiste.          

 

Immaginiamo un ipotetico cosmo. Tale cosmo sarà costituito solo da ciò che gli esseri di quel cosmo percepiscono. E siccome il sentire degli esseri è in graduale ampliamento, anche il cosmo, considerato nella successione del sentire dei suoi esseri, è di conseguenza in graduale ampliamento. Cosicché quanto gli esseri percepiscono, sentono in senso lato, come conseguenza dell'ampliamento della loro coscienza, prima non esisteva. E siccome il cosmo è un dossier costituito da tutte le situazioni percepite dagli esseri, sono gli esseri stessi che creano il cosmo.           

 

Totale rovesciamento del concetto di " realtà " che ha l'uomo. Dire che la realtà cosmica è formata dall’insieme delle percezioni, da quanto gli esseri percepiscono, può suonare come una contraddizione. Infatti può sembrare che la realtà sia lì e che l'essere la colga con la percezione. Per non incorrere in tale errore, bisogna rifarsi al concetto di realtà più volte illustrato, ed in particolare al fatto che tutto fa parte di Dio e che tutto, quindi, è costituito di divina sostanza, cioè di spirito; e che l'essere, il soggetto limitato, percepisce la divina sostanza che lo costituisce, e nella quale è immerso, limitatamente.

 

E' in forza della sua percezione limitata che la realtà gli appare in un certo modo ed egli crede che la realtà esista oggettivamente come lui la vede, mentre la realtà in sé, al di là del soggetto percepiente, è radicalmente diversa: dal punto di vista della sostanza, è sostanza indifferenziata.

 

Un oggetto che voi percepite in forza dei vostri sensi, esiste come voi lo cogliete in base alle limitazioni della vostra capacità di percepire la divina sostanza. Al di là di ogni limitazione della percezione, l'oggetto non esiste. In sé non esiste se non come sostanza indifferenziata. 

Ecco perché il cosmo non può che essere l'insieme di tutte le percezioni, cioè del sentire in senso lato di tutti gli esseri, e ciò che non è sentito non esiste. Ed ecco perché chi sente esiste: infatti sentire significa, prima di tutto, sentire se stessi, sentire di esistere.  

 

Da una simile concezione della realtà discende che ogni essere è un nucleo, un centro di sentire; sentire che è come minimo sensazione e come massimo coscienza onnicomprensiva; il quale, con la sua vita, con la sua esistenza, contribuisce a creare a determinare, a fare esistere non solo l'insieme dei cosmi, ma addirittura la coscienza assoluta.  

Ogni essere è un sensore della coscienza assoluta, il quale però non è un punto passivo di ricezione; al contrario: è un manifestatore, un creatore di una parte dell'esistente. Di più: ciò che esiste, esiste quale risultato del sentire, dell'esistere di ogni essere. Perciò tutto discende o risale al sentire. La stessa delimitazione dei cosmi non è un fatto precostituito, è un fatto conseguenziale; cioè non è creato un cosmo nel quale sono collocati gli esseri, bensì dalla qualità dei sentire che sono conseguenza logica l'uno dell'altro e quindi della loro aggregazione, nasce un sistema, un insieme che si definisce cosmo.     

 

Ogni insieme, ogni sistema di sentire, ha uno svolgimento logico indipendente rispetto agli altri ed ha un solo punto di contatto: quello dove è risolta la diversità, origine e fine della separatività, della molteplicità.    

La struttura della realtà è logica e ciò garantisce l'impossibilità dell'assurdo e della mancanza della ragione, del motivo per cui. 

Infatti se ogni successivo è sempre un successivo logico, ciò significa che è sempre fondato e conseguente. Tuttavia ciò non significa che sia il solo possibile; lo svolgimento logico lascia spazio a più possibilità, sia pure di diversa qualità; ma è proprio dal salto di qualità, conseguenza della scelta delle possibilità, che si afferma una coscienza, un sentire più ampio.

 

In sostanza, la struttura matematica della realtà non rende il tutto un insensibile meccanismo. Ciò che rende inumana una macchina non è la sua struttura matematica, ma l'assenza di coscienza. Mentre si dà il caso che la realtà sia essenzialmente coscienza, perciò la sua strutturazione non annulla la sua esistenza; al contrario, la rende possibile.       

Dire che esiste solo ciò che gli esseri sentono in senso lato potrebbe portare a credere che la realtà fosse onirica, un insieme di sogni; invece l'insieme dei sogni ubbidisce ad una logica matematica, cosicché il soggetto non vive mai l'assurdo fantastico, ma sempre il logico conseguente. Ed è questa conseguenzialità che garantisce l'unità del Tutto, e viceversa; sicché ogni nucleo di coscienza - sia pure centro di sensazione concretizza, manifesta, costituisce un quid di sentire che per esistere qualitativamente unico, al fine di dare la qualità assoluta al Tutto, deve avere il sapore che finisce, mentre ha una natura immutata nella eternità del non tempo.

 

Scopo del mio discorso è quello di farvi soffermare sul fatto che il cosmo è costituito solamente ed unicamente dai sentire degli esseri. Ecco perché il piano akasico, o del sentire, è il mondo degli archetipi. Badate bene, gli archetipi non esistono alla maniera degli Universali di Platone, cioè in sé concepiti, separati dalle cose; bensì alla maniera dei Terministi, dei Nominalisti. 

 

In altre parole, come la legge della materia non esiste astrattamente ma è insita nella materia stessa, l'archètipo scappa fuori quale comun denominatore delle creazioni degli individui e non viceversa. Quindi importanti  sono gli individui, il loro sentire e la loro conoscenza percettiva.

 

E' ben diversa questa concezione della Realtà e quindi della Divinità, da quella delle varie religioni e filosofie.

Ora, essere immersi e fare parte della Realtà divina, cioè affermare l'immanenza di Dio in tutto quanto esiste, senza tenere presente che Dio trascende la somma di tutto, può erroneamente far ritenere che manchi quell'afflato di amore provvidente che invece facilmente si può attribuire ad un Dio-persona, distinto dalla sua creazione, spettatore e giudice delle azioni degli uomini. Ma l'ho detto prima: è un errore. Anche se Dio non ci guarda dall’alto ma ci ha in Sé, che se non è una persona, ci conosce. Anzi, ci sente più di un Dio antropomorfo perché facciamo parte del suo sentire, della sua Realtà, che è Sua in quanto nostra.    

 

Non solo: nel suo modo di essere, più simile al panteismo che al teismo, Egli ci parla, soccorre costantemente le nostre necessità e ci guida meglio di quello che potrebbe fare un Dio personalizzato.  

Non è forse l'esistenza tutta un interrotto contatto con Lui e non è forse il gesto affettuoso dell'amore, come lo sgarbo

dell'antagonista, un suo discorso?, un suo modo di dirci di alimentare la coscienza?

Tutto quello che gli esseri vivono ha tale unico scopo; perfino gli avvenimenti conseguenza di istinti peggiori accadono affinché gli esseri prendano cognizione delle loro limitazioni, e le trascendano.      

 

Stolti se credete che Dio si faccia sentire solo saltuariamente nella vostra vita, cioè solo quando le cose si mettono nel modo che vi aggrada; o quando la bontà e la gioia illuminano gli uomini. Dio sempre, costantemente conduce il nostro cammino. Solo che la vera ragione della vita, con tutti i problemi che il modo d'essere di ognuno comporta, sfugge alla comprensione di chi non ha la capacità di osservarla in tutte le sue vaste implicazioni; ed allora tutto sembra senza senso, o addirittura opera di un demone sadico.    

 

Non sto ripetendo con altre parole il discorso di altre concezioni: " che i disegni di Dio sono imperscrutabili e quindi non si deve indagare ». Se non possiamo dire ad ognuno di voi la cronaca dettagliata delle precedenti azioni che vi hanno determinato ora, nel vostro attuale stato, e quindi la particolare ragione di esso, tuttavia abbiamo dato una spiegazione da cui emergono principi generali ai quali ubbidiscono tutti i casi particolari. Sicché la non conoscenza non riguarda la motivazione filosofica ma solo la cronaca dei fatti che a quella motivazione ubbidiscono. Il che è molto di più che dire: " non indagare per conoscere le cose divine ", specie quando il sapere - secondo quella concezione - può far ben scegliere fra l'inferno e il paradiso con una conseguenza eterna.

 

In verità siamo nel seno di Dio, costantemente con Lui in contatto, da Lui alimentati, ognuno esprimente un grado di coscienza e quindi con una propria libertà e responsabilità, nonostante che Dio non sia una persona distinta da tutto quanto esiste e nonostante che la Realtà sia razionale.

 

Dio non parla agli uomini alla maniera narrata dalle antiche scritture, non gioca con loro a nascondersi per farsi intravedere di tanto in tanto da qualcuno, ma ininterrottamente ci comunica l'esistenza e indiscriminatamente si rivela in ciascun essere alimentandogli il sentire.   

Il rapporto fra Dio e l'uomo non è quindi saltuario e di pochi, ma intimo e totale.    

 

E' l'ora che vi stacchiate dalle figurazioni immaginifiche delle religioni, che vanno bene per l'uomo mentalmente bambino, altrimenti l'intelligenza sarà solo dell'ateismo. E' l'ora che prendiate coscienza del fatto che la realtà materiale e spirituale sono una sola cosa, e soprattutto che questa unica realtà è assolutamente razionale.      

E' finito il tempo in cui la morale veniva imposta, perché la verità dello spirito non appartiene al fantasioso mondo delle favole.    

Una nuova era sorge e l'uomo esce dal confuso mondo del fanciullo per entrare in quello più consapevole dell'adulto. Per voi è già l'alba del nuovo giorno!

Pace a voi.

 

 

 

 

La divina sostanza indiversificata

 

(settembre 1983)

 

Il cartesiano cogito ergo sum, cioè " penso quindi esisto ", mise in crisi il pensiero filosofico occidentale fino ad allora esistito, che aveva ammesso reale - cioè in se stesso esistente - tutto quanto è oggetto della conoscenza dell'uomo; mentre l'affermazione di Cartesio rendeva certa solo l'esistenza del soggetto pensante.  

Una simile concezione trova nel solipsismo la sua estrema posizione, perché afferma come realmente esistente solo il soggetto percipiente, in quanto ogni altra cosa o persona sarebbero solo sue percezioni.      

 

Chi ha seguito ciò che in più occasioni abbiamo detto, sa che noi affermiamo che esiste solo ciò che sente in senso lato, ossia che percepisce, e ciò che è sentito ossia percepito; quindi le cose che non sentono e sono percepite saltuariamente, esistono solo allorché sono percepite. Non solo: abbiamo detto anche che le cose che sono percepite non esistono in sé come vengono percepite: la loro realtà - al di là delle limitazioni dei soggetti percepienti - è la realtà della sostanza indifferenziata. Sicché gli oggetti che cadono sotto la vostra attenzione, come voi li percepite esistono solo nella vostra percezione ed in forza delle sue limitazioni. 

Quindi, se venissero meno le limitazioni percettive sparirebbero gli oggetti, e non sareste voi a non percepirli più, pur essendo essi ancora esistenti oggettivamente, bensì l'inverso: non esisterebbero più in quanto voi non li percepireste più.

 

Allora, la realtà dei mondi della percezione è come un sogno che non esiste se non nella mente del sognatore, che finisce di esistere col risveglio del dormiente ma che in se stessa non esiste? Non è così, ma è qualcosa di molto simile.

Vedrò di spiegarmi meglio.

 

E' chiaro che la Realtà è la vera qualità e condizione di tutto quanto esiste; ed è chiaro che la realtà è tanto meno relativa quanto più è totale. Ora, la Realtà assoluta non contiene oggettivamente esistenti i mondi che voi conoscete e quali li percepite come se fossero una porzione di essa Realtà, allo stesso modo di come voi considerate il pianeta Terra il contenitore dell'intera realtà della Terra in un certo tempo. 

Questo perché la Realtà assoluta, prescindendo da ogni limitazione, non può contenere oggettivamente esistenti quei mondi la cui esistenza è frutto appunto della limitazione. 

Se infatti la realtà fosse quale voi la percepite, o quanto meno esistesse oggettivamente un mondo del quale poi ciascuno avesse una sua immagine, ne deriverebbe che la vera condizione e qualità di tutto sarebbe uno stato reale di frazionamento e quindi verrebbe meno l'unità di Dio Tutto Uno Assoluto e, con essa, la trascendenza di Dio, la sua assolutezza e addirittura la sua esistenza; perché il divenire sarebbe reale e Dio - pur volendo continuare a concepirlo come l'insieme del Tutto - non potrebbe che essere un ente virtuale, mai identico a se stesso, e, in mancanza dell'unità, destinato comunque alla disgregazione come il Tutto esistente. Infatti ciò che mantiene in vita un organismo è l'integrazione armoniosa fra le parti, quindi l'unità del corpo.     

 

Questo discorso è la conseguenza logica di una determinata concezione di Dio, cioè di Dio Assoluto e quindi, come tale, che comprende in sé tutto quanto esiste, perciò di un Dio immanente, ma al tempo stesso trascendente perché non condizionato dal tutto esistente.

 

Certo, ciascuno è libero di immaginarsi anche una concezione assurda di Dio, come quella del Dio-persona che con un atto di volontà ha creato il mondo fuori di sé; ma, così concependolo, implicitamente lo pone dentro un tempo con tutto quello che segue, come per esempio l'ineguaglianza a se stesso e perciò la non costante perfezione. Inoltre lo rende incompleto perché mancante della sua creazione, estranea al suo essere. Altrettanto dicasi se lo si immagina come forgiatore del caos materiale preesistente. 

 

Insomma, l'unico concetto del divino che logicamente consente dl attribuire a Dio i caratteri di assolutezza, inifinità, eternità, completezza, perfezione, onnipresenza, onniscienza, eccetera, è quello di cui vi parliamo continuamente.   

Chiunque creda in Dio può immaginarLo come vuole, anche come un asino volante, ma implicitamente crede al Dio di cui vi parliamo perché è l'unico che può esistere. Parlare della Realtà è parlare della sua natura.    

 

Allora, concesso che la Realtà assoluta non può contenere come oggettivamente esistenti i mondi che voi percepite, e al tempo stesso, dato che niente può essere estraneo ad essa altrimenti non sarebbe tale, quei mondi sono contenuti in essa quali sono percepiti dagli esseri.    

 

Mi rifarò all'esempio del colore, che penso possa chiarire.

Il colore in sé, quale è percepito, non esiste come lo conoscete perché è un prodotto della mente percepiente. Ora, la Realtà assoluta, in quanto totale, non può non comprendere il colore; d'altra parte il colore, come lo conoscono i soggetti percepienti, oggettivamente non esiste, perciò è compreso nella Realtà assoluta come tutte le altre percezioni degli esseri.       

 

In Dio non esiste il colore azzurro, ma esistono tanti azzurri quanti sono quelli percepiti dagli esseri. Allo stesso modo è del freddo o del caldo: nella Realtà assoluta non esiste freddo o caldo, perché le cose in sé sono fredde o calde solo in relazione alla valutazione del soggetto percepiente.      

 

In una delle ultime comunicazioni ho affermato che a qualità diverse corrispondono sostanze diverse e che nella dimensione in cui non esiste la percezione - cioè nel mondo del sentire - la qualità si identifica con la sostanza. Ciò potrebbe sembrare in contrasto con quello che affermavo prima, cioè che la non realtà oggettiva della molteplicità in generale è del mondo percepito in particolare. 

Ma in effetti il contrasto esiste solo se si riduce la vita percettiva del soggetto ad un suo sogno svincolato da quello degli altri. Mentre esistono comun denominatori nelle percezioni dei soggetti che costituiscono quei vincoli, fra l'uno e l'altro, creatori dell'apparente  oggettività del mondo percepito. 

 

In altre parole, che il mondo che percepite non esista oggettivamente, ormai lo avete capito; come avete capito che la vostra vita non è un sogno nel senso irreale del termine. Si tratta di spiegare come queste due concezioni opposte siano in parte vere e come possano coesistere.      

 

Cerchiamo di immaginare la sostanza di cui è costituito Dio nella sua totalità: essa non può che essere in sé ad uno stato indifferenziato. Infatti, se come prima ho spiegato si ammette l'impossibilità che i mondi esistano oggettivamente inseriti nella Realtà assoluta, ne deriva che la divina sostanza da cui essi trarrebbero esistenza è oggettivamente indiversificata: ed ecco la famosa unità base identica per ogni cosa esistente, sempre intuita e ancora ricercata. Tuttavia, per coglierla in quella condizione di indifferenziazione, è necessario coglierla nella sua totalità.  

 

Supponiamo, ora, in questo oceano di coscienza impersonale, di creare un centro di coscienza in qualche modo distinto dal resto, ossia un centro individualizzato, e di dargli la capacità di percepire la sostanza divina nella quale è immerso. Ora, il fatto stesso di enucleare una parte della sostanza divina per farne un centro di coscienza, implica necessariamente una limitazione; cosicché la percezione della restante sostanza nella quale il centro autocosciente è immerso, è una percezione necessariamente limitata. 

L'effetto della percezione limitata è quello di vedere diversificata la sostanza in se stessa indifferenziata, e di vedere come oggettivo un mondo che, al di là della limitazione del soggetto percepiente, non esiste. Quindi non è un sogno, cioè qualcosa che esiste unicamente nella mente, del soggetto ed è da lui solo percepito; infatti chiunque abbia le stesse limitazioni o gli stessi sensi limitati, percepisce la stessa realtà basilare, salvo ad avere poi la sua interpretazione soggettiva; cosicché la realtà percepita non è in se stessa esistente ed è legata alle limitazioni percettive del soggetto percepiente. 

 

Tuttavia, proprio il fatto che i soggetti che abbiano le stesse limitazioni percepiscono lo stesso tipo di realtà, crea una realtà comune ad essi soggetti che ha per loro il sembiante di realtà oggettiva. Quindi, né sogno né realtà oggettiva; pur essendo il mondo del percepiente tanto soggettivo  da rasentare il sogno, e percepito tanto realmente, in forza delle comuni percezioni, da sembrare esistente in sé.  

 

Allora,  quando affermiamo che a qualità diverse corrispondono sostanze diverse parliamo di quel mondo che è costruito dal soggetto percepiente in forza delle sue limitazioni percettive, che è comune a tutti i soggetti che percepiscono con le stesse limitazioni e che, per questo, ha parvenza di oggettività ma che in effetti non esiste oggettivamente. Sicché le sostanze diverse non lo sono in assoluto: appaiono, si mostrano diverse solo alla limitazione dell'ente creatore.

 

E'difficile per voi comprendere tutto ciò perché, per voi, una cosa se è vista da tutti è oggettiva, esiste indipendentemente dal soggetto percepiente; mentre così non è. Anche nel campo della pura soggettività, esistono le allucinazioni collettive. Il fatto che un fenomeno si riproduca tutte le volte che si riproducono certe condizioni e che sia visibile a tutti, non significa che la sua realtà sia oggettiva in senso assoluto. 

Questo porta ad affermare e capire che, se mutassero le limitazioni dei soggetti percepienti, muterebbe la realtà; e ci fa comprendere come  possano esistere mondi paralleli, dimensioni, piani e stati diversi in uno stesso ambiente. A parità di limitazioni percettive, stessa appartenenza a quei mondi o stati strettamente inerenti a quelle limitazioni perché da esse originati.

 

Questa è la realtà nella quale vive l'essere limitato; una realtà che, come ho detto, non può essere oggettiva.

Perché non potrebbe essere totalmente soggettiva?, un sogno individuale svincolato da ogni punto di contatto con i sogni altrui? Certo una ragione c'è perché non sia così. E la si può spiegare dal punto di vista della evoluzione dell'essere; ma è già viziata in partenza perché l'essere non evolve al di là dell'apparente divenire; oppure dal punto di vista della natura di Dio, correndo il rischio di dare una spiegazione incomprensibile e quindi inutile. Tuttavia può esistere una iniziale via di mezzo che rappresenti un primo approccio alla questione.

 

Spero che abbiate posto attenzione al fatto che - incubi a parte - nei sogni sia  estremamente facile capire qualcosa, scrivere bene, cantare bene e via dicendo. Insomma nel sogno, ad esempio, una poesia è bella non perché la si è letta e giudicata tale, ma perché la storia che si sta sognando la esige bella: è bella a priori. 

Se  poi devi leggerla, ti sfuma fra le mani, non la cogli più; però rimane la convinzione che si tratti di una bella poesia. 

Il fatto è legato all'allontanamento della percezione della realtà fisica. Infatti, quanti sono per esempio i pittori che si drogano e sotto l'impulso alienante della droga credono di dipingere chissà quale capolavoro, rimanendo poi delusi cessato l'effetto alienante? E - aggiungo io perché voi non lo ricordate - fra una incarnazione e l'altra, nei piani astrale e mentale, come è facile essere più disponibili, convincersi! D'altro canto in questo stato, come quello di sogno naturale o di droga, non v'è evoluzione, come non v'è muovere di cause. Le visioni che emergono in quegli stati, o le azioni che immaginosamente si compiono, sono prive di effetti; al massimo sono solo indice dell'interiorità dell'individuo.

 

Ed è logico che sia così: se fosse possibile evolvere assolutamente prescindendo dal piano fisico, perché esisterebbe questo piano?     

Se la coscienza assoluta - per essere tale - non può che essere necessariamente la sintesi unitaria di tutti i possibili sentire, i quali altrettanto necessariamente non possono che essere diversi fra loro e da essa, ne discende che il sentire possibile più semplice è il più limitato. E il sentire più limitato non può che corrispondere alla più grossolana forma di esistenza, che è appunto quella che si manifesta nel mondo fisico.

Sicché necessariamente a sentire limitati corrispondono forme di vita grossolane in mondi grossolani.      

Chi dice che esistono esseri che hanno la loro evoluzione pur non avendo mai toccato i mondi della percezione parla per supposizioni e non per conoscenza diretta. O chiama esseri energie intelligenti ma prive di coscienza, come se confondesse l'uomo con i robot.     

 

A sentire meno limitati corrispondono forme di vita meno limitate e quindi mondi meno grossolani; perciò gli esseri continuano la loro evoluzione anche fuori dai mondi della percezione, quando il sentire che manifestavano è ampio. Ma il sentire più semplice, che necessariamente fa parte della loro individualità, non può che manifestarsi e sussistere nei mondi grossolani. Questo proprio per il concetto di realtà. Infatti quei mondi non esistono oggettivamente, cioè indipendentemente da coloro che li abitano, ma esistono proprio per creazione percettiva dei loro abitanti: sono creati dai sentire più semplici. Ecco perché diciamo che le situazioni dei mondi della percezione non sono che estrinsecazioni del sentire.   

 

Ogni essere è un insieme di sentire legati in successione logica dal più semplice al più complesso, che quindi si manifestano nella stessa successione.      

Dire che esistono esseri che non si sono mai incarnati, o mai si incarneranno, è come dire che esistono esseri privi di metà del loro corpo, o che è logica e conseguente e completa una equazione priva della metà della sua impostazione. Un essere non può essere completo privo dei suoi sentire più semplici, ed i sentire più semplici sono propri dei mondi della percezione: non esistono indipendenti da quelli.

 

Ma questo non significa che ciascuno debba crearsi un suo mondo soggettivo inerente al suo sentire ed a quello debba attendere esclusivamente. Al contrario: tanto più la visione del mondo diventa soggettiva, cioè isolata, e quanto meno si evolve.

 

Cosa succede quando un essere dal sentire ancora ancorato al mondo fisico, da esso si aliena, si distacca in qualche modo? Cessa di produrre cause, di evolvere, e, da un evento rimedio naturale, vi viene di nuovo inserito. Vivere una vita totalmente soggettiva è liberarsi di certe limitazioni non già per superamento, ma per non realizzazione, per non attuazione; quindi è impedire ad una certa quantità di sentire, di manifestarsi, di esistere.  

 

 

 

Percezione e creazione

 

(ottobre 1983)

 

C'era una volta... " un pezzo di legno ", diranno subito i miei ascoltatori, memori di giovanili letture circa un burattino chiamato Pinocchio. No: c'era una volta un Re. Era l'epoca in cui l'uomo concepiva la realtà nella quale viveva a sua immagine e somiglianza. Tutto era una persona: il vento, il tuono, il sole, la luna. Perfino Dio era concepito come un sovrano che bisognava servire e ossequiare per non incorrere nella sua collera e subire il suo castigo.

Questi tempi sono passati, nessuno oggi crede più a una simile realtà; perfino i fanciulli non credono più che dentro un apparecchio radio ci siano nanetti che parlano e suonano.

Nessuno ci crede più, tranne gli esoteristi e i religiosi.

 

I primi, infatti, continuano a pensare alle forze intelligenti che concorrono alla manifestazione della vita cosmica come a degli esseri dotati di coscienza: raffigurazione, questa, che andava bene nell'epoca passata quando nulla si sapeva della meccanica della natura. I secondi ancora si ostinano, per sciocco e insensato timore reverenziale, a concepire Dio un essere che agisce giudicando e decidendo.

 

Certo, si deve riconoscere che una cosa è tanto più affascinante quando più resta misteriosa. Una volta che se ne è scoperto il funzionamento diventa naturale e perde il suo aspetto magico; e se, nel comportamento intelligente di una cosa, nell'ignoranza si è portati a credere e spiegare che dietro ad essa agisca una persona trascendente, una volta capito come la cosa sia, tutto diventa naturale e ci si affranca dalla paura di ciò che l'ignoto può causarci.

 

E' paralizzante il timore che deriva dall’essere sotto il tiro di una presenza misteriosa che non sai come trattare, di cui non vedi le reazioni, di cui non sai l'umore e che quindi ti lascia senza difesa. Ed è comodo, per chi si dice rappresentante o comunque ascoltato da quella " persona ", non spiegare che tutto è naturale, anche ciò che trascende il mondo percepito dai sensi del corpo - perché dello stesso mondo si tratta -, mondo che non cambia struttura per il fatto che i sensi fisici non lo percepiscono. E' comodo perché è facile manovrare persone  impaurite che non sanno cosa fare, e così sfruttarle per proprio tornaconto.      

 

Sì cari: scoprendo il mondo percepito dai sensi fisici l'uomo ha constatato che è logico e razionale a tal punto da apparire, almeno in una visione limitata, meccanicistico. A mano a mano che l'uomo si è costruito dei mezzi di indagine che hanno ampliato i suoi sensi e fitto scoprire una porzione più grande della realtà, o altri aspetti di essa, sempre ha trovato la stessa razionalità e la stessa logica; a tal punto che la ricerca scientifica altro non è che la riocerca della logica della natura.    

 

Cari esoteristi, mai nessuno troverà gnometti e fate che accudiscono alla vita della natura perché quelle erano personificazioni, immaginate dall’uomo, delle forze intelligenti in virtù delle quali la vita si manifesta; ma neppure quell'" intelligenti " può in qualche modo attribuire una  natura di persona a tali forze; infatti, per intelligenza s'intende la capacità di capire bene e prontamente e rispondere in modo logico. Intelligente è un interruttore crepuscolare che attiva automaticamente l'illuminazione artificiale al calar  del sole. Nella concezione antica degli esoteristi e religiosi, quel piccolo apparecchio diventa una persona, così come sono diventate persone le intelligenze celesti che governano la vita cosmica, in effetti più simili a robot che ad esseri.      

 

La Verità - enunciazione della Realtà - per essere comprensibile ha una veste adattata alla cultura dei tempi e dei popoli. La forma nella quale la Verità è presentata, quindi, deve mutare per rimanere vera. Non ci si può ostinare a conservare certe immagini che servivano ad avvicinare la Realtà a chi aveva un abito mentale ormai superato, altrimenti si dà più importanza alla forma che alla sostanza e si creano sacerdoti che mascherano il loro vuoto abissale nelle scuole di inutile nozionismo.      

 

Noi pure, se non vogliamo fare la stessa fine, dobbiamo essere i rinnovatori di noi stessi rimettendo a fuoco, precisando più profondamente, a mano a mano che procediamo nell'esposizione dell'insegnamento, i concetti già espressi.  

Forse i temperamenti romantici resteranno delusi a sapere che i folletti, gli gnomi e tutto quel mondo di favola dell'esoterismo di maniera è creazione della fantasia, e che si è più nel vero se si concepiscono gli spiritelli della natura come dei robot. La scienza si sostituisce alla favola.      

 

Sia ben chiaro: io non dico che non esistono le forze intelligenti che concorrono alla vita cosmica; dico che è errato personificarle, come è errato personificare Dio. Anzi, tutto quanto la fantasia più strampalata immagina, esiste. Dirò di più: tutto quanto esiste è reale.     

 

Sissignori: se non siete d'accordo, si tratta solo d'intenderci sul termine "reale». Esistenza e realtà si identificano: un pensiero, nel momento che è concepito, esiste ed è reale.

Se si pensa ad un asino che vola, quel pensiero è reale. Certo nel piano fisico non esiste  una forma corrispondente a quel pensiero, e quindi nel piano fisico non esiste quella realtà; ma questo è un altro discorso che nulla toglie alla realtà del pensiero. 

 

La realtà non è solo quella del piano fisico. Nel piano del pensiero, quel pensiero esiste ed è reale come tutto il pensiero, che abbia o non abbia corrispondenza nel piano fisico. Tutto è reale, naturalmente nella propria dimensione. L'errore è di credere che sia reale la sola dimensione fisica. 

L'affermazione da noi fatta che tutto è sostanza proprio questo significa: la cosa più astratta che si possa concepire, e quindi esistere, è la qualità, che pure è legata indissolubilmente alla quantità o sostanza. Anzi, al di là dei mondi della percezione la qualità è la sostanza; di conseguenza, tutto quello che esiste è reale.     

Non può esistere una cosa irreale in senso assoluto. Un miraggio non è reale - voi dite. Non è questo quello che io intendo: un miraggio è costituito di "qualcosa»; in questo senso è reale; e lo è anche se non è ciò che rappresenta.      

Nella dimensione fisica, il fatto che tutto ciò che l'individuo pensando immagina non esista, fonda in modo errato l'opinione che le creazioni del pensiero siano irreali; cioè che sia reale il solo mondo fisico. Ciò, come ho detto, è un errore. Tutti i mondi sono egualmente reali e tutti i mondi, rispetto alla Realtà assoluta, sono egualmente illusori; cioè come sono percepiti non esistono oggettivamente.  

 

In altre parole, l'individuo non percepisce, sia pure con toni soggettivi, una realtà in se stessa esistente, ma in un certo senso la crea attraverso al processo della percezione.      

Quello che esiste oggettivamente è solo una sostanza indiversificata che, captata attraverso a dei sensi limitati, appare come mondo fisico o astrale o mentale. Non è quindi Dio che crea o emana i mondi ma sono gli individui col loro sentire in senso lato e di coscienza.

 

Se così è, allora esistono solo gli individui e la materia indiversificata. Però, a loro volta, gli individui sono costituiti di sostanza, della stessa sostanza di cui è costituito il Tutto, cioè Dio stesso; perciò i mondi sono manifestati dagli esseri e gli esseri da Dio, cioè rappresentano il virtuale frazionamento della coscienza assoluta.  

Un essere, quale virtuale parte della coscienza assoluta, ha un sentire parziale. 

Questo stesso fatto comporta, come conseguenza, una percezione limitata dall’ambiente, della sostanza nella quale è immerso, e che costituisce il suo non essere. La conseguenza della percezione limitata è la visione-creazione dei mondi fisico, astrale, mentale, tratti, ripeto, dal percepire limitatamente, parzialmente, la divina sostanza in sé omogenea e indiversificata.

 

Quanto più il sentire è limitato e tanto più il mondo nel quale l'essere si immerge o crea è grossolano.      

Gli esseri che hanno analoghe limitazioni, creano nella loro percezione mondi analoghi che, per il fatto di avere punti di contatto, assurgono per quegli esseri a realtà oggettiva ed apparentemente indipendente dai soggetti. 

Tale supposta oggettività è rafforzata dal fatto che la materia di un mondo può essere da un individuo plasmata in qualunque forma e vista così plasmata dagli altri individui di quel mondo. 

 

Un artigiano che crea una sedia plasma la materia fisica in quella forma, e la sua creazione è vista da tutti gli  altri individui che, avendo le sue stesse limitazioni percettive, trasformano nella percezione la divina sostanza in materia,  e quindi in mondo  fisico. Sicché, ciò che l'individuo crea con le limitazioni della sua percezione, dovute alle limitazioni del suo sentire, non è un mondo totalmente onirico ma un ambiente, una dimensione con le sue leggi e i suoi fenomeni che appaiono eguali a tutti coloro che per le stesse sue limitazioni trasformano la divina sostanza in quell'ambiente.  

 

A sua volta, il soggettivo generale subisce un'ulteriore processo di soggettivizzazione in forza della psiche dell'individuo che ne dà una sua personale interpretazione - questa volta solamente sua.

L'individuo, quindi, appalesando il suo sentire limitato, dà l'avvio a un processo di superamento e alla manifestazione di un sentire meno limitato, e così via. E' come se l'individuo si rimirasse ad uno specchio e, scoprendo i suoi difetti, li eliminasse.      

 

Un individuo-uomo visto in un momento inteso non come tempo, ma come fase della sua struttura, è un sentire relativo, un sentire limitato. Per coglierlo, per vederlo singolarmente, è necessario avere una cognizione limitata, in quanto egli non ha una struttura oggettiva sul piano assoluto, essendo prodotto del virtuale frazionamento della coscienza assoluta. Allora, la cognizione che un altro individuo ha del primo non dipende da come il primo è, ma dalle limitazioni percettive del secondo; sicché se il secondo è nella condizione-limitazione che gli fa creare-percepire il mondo fisico, il primo sarà da lui visto come un uomo con un suo corpo avente certe caratteristiche corrispondenti al sentire che esprime. Oppure non lo vedrà affatto, se egli secondo avrà scelto un momento in cui il primo sta sentendo la fase fra una incarnazione e l'altra.

 

Questo ci fa capire che gli esseri, pur non avendo una struttura oggettiva sul piano assoluto, l'hanno sul piano relativo; struttura che non ha un aspetto unico, ma un aspetto per ogni fase di sentire; sicché come l'essere è colto dagli altri esseri dipende dal momento in cui gli altri lo colgono nella teoria dei suoi sentire. Questo perché tutto esiste al di là dell'apparente divenire-percepire in successione. 

Quello che l'essere percepisce non è ciò che esiste oggettivamente, non è l'unica realtà superstite delle precedenti che non esistono più e preliminare di quelle che verranno e che non esistono ancora; ma è la porzione della realtà totale - tutta esistente simultaneamente - che l'essere riesce a cogliere e creare in forza delle sue limitazioni, o che le sue limitazioni gli fanno cogliere e creare.    

 

Ora, questo cogliere e creare - se non si è ben compreso il concetto dell'Eterno Presente, cioè del fatto che la Realtà non è divenire ma essere - può suonare come una contraddizione. Infatti, se si dice che la Realtà è in stato di eterno presente, cioè che è tutta manifestata, allora l'essere la coglie in successione, ma non la crea. Viceversa, se la crea in successione, allora la Realtà non è tutta manifestata, almeno secondo la logica del divenire.

 

Può darsi che, per introdurre il concetto dell'Eterno Presente e farvi comprendere che la Realtà è in essere e non in divenire, noi abbiamo sorvolato su certe precisazioni del genere di quella che sto per fare; tuttavia tali puntualizzazioni diventano necessarie per capire le successive esposizioni della Verità, perciò abbiamo l'obbligo di farle, anche se le parole non sono più idonee ad esprimere concetti che fuoriescono dalla logica della vostra realtà.          

Il fatto che gli esseri vivono, sentono in successione il sentire legato alle situazioni cosmiche che tutte simultaneamente sono esistenti nell'Eterno Presente, non significa che gli esseri le sentono perché così sono scritte, ma esattamente il contrario: l'Eterno Presente e una Realtà in cui l'apparente successione del sentire è annullata. Niente d'altro. L'Eterno Presente è la condizione strutturale del virtuale frazionamento dell'Assoluto, o meglio, della sua sostanza, perché la Coscienza assoluta è oltre il virtuale frazionamento.         

Il divenire, come il virtuale frazionamento, è sentito da ogni sentire; perciò gli esseri, percependolo, creano l'Eterno

Presente.        

 

Percezione e creazione si identificano; con la differenza che, sul piano della struttura del virtuale frazionamento tutto è creato-percepito simultaneamente; mentre sul piano del sentire relativo - sentire che è la conseguenza del virtuale frazionamento - tutto è creato-percepito in modo successivo. 

Punti di vista diversi di una stessa Realtà che originano realtà diverse, ciascuna vera nella sua dimensione relativa.       

Allora, cambia qualcosa nei nostri fotogrammi? Assolutamente no. Infatti se si osserva la struttura del virtuale frazionamento, vi si trovano tutti i sentire relativi legati a tutte le situazioni cosmiche dagli stessi create-percepite così come sono create e percepite in successione dai singoli sentire.         

 

Se si osserva la struttura dei fotogrammi in se stessi, al di là di come la percezione dei sentire limitati li crea, li trae dalla divina sostanza indiversificata, si trova solo divina sostanza indiversificata.

 

Da questa puntualizzazione, che mette a fuoco la creazione delle situazioni cosmiche da parte dei sentire, non viene meno neppure il concetto della non contemporanea creazione-percezione di una comune situazione cosmica da parte di due o più sentire di grado diverso. Infatti, se in una realtà più completa, cioè in una visione meno relativa, è sentito simultaneamente ciò che l'individuo vive gradualmente, non ha importanza che nell'illusoria successione dei sentire uno senta prima o dopo, perché in effetti non esiste " prima " e "dopo ": possiamo dire che tutto è già, purché si comprenda che l'Eterno Presente non è il destino, la trama che determina il forzato comportamento dell'individuo, ma semmai è il dossier, l'archivio completo della sua esistenza.

 

Per la vostra logica del divenire, un tale archivio è impossibile perché esisterebbe prima che gli eventi si producessero: ma, se ci pensate, diventa impossibile solo per quel " prima ". Allora, siccome nella Realtà più vera quel " prima " non esiste, perché gli eventi esistono tutti simultaneamente, quell'archivio è possibile.

Piuttosto, con questa precisazione, il concetto delle varianti potrebbe sembrare inutile. Infatti, che senso ha l'esistenza delle varianti in un Eterno Presente inteso come archivio dei comportamenti individuali? O c'è una scelta, o c'è l'altra. In altre parole ci dovrebbe essere solo il vissuto. 

 

La risposta a questa domanda si ha proprio da quello che abbiamo detto sulle varianti, e cioè che esse esistono proprio per far coesistere una libertà individuale in una storia - chiamiamola generale obbligata. Da questo punto di vista non vi sono problemi per l'esistenza delle varianti. 

Ciascun essere vive la sua parte della storia e, quando ha possibilità di uscire dalla storia generale, vive una sua storia particolare; e quindi le storie nell'Eterno Presente ci sono entrambe, almeno nel caso in cui l'individuo scelga appunto di fuoriuscire dalla storia generale. 

 

Tuttavia, a ben pensarci, il problema non è risolto. Infatti, tenendo presente che le varianti non riguardano i sentire di coscienza ma solo i sentire in senso lato; cioè sono inserite nel percorso degli avvenimenti che fanno cadere le limitazioni e raggiungere o manifestare un nuovo sentire di coscienza; e tenendo presente che gli avvenimenti sono creati-percepiti dal sentire in senso lato, come può esistere un avvenimento non creato-percepito da un essere ancorché costituisca possibile scelta della sua vita? 

Se le varianti esistono, debbono esistere con tutti i particolari individuali, cioè tutte le emozioni, i pensieri eccetera dell'individuo, e non solo come fatto visto dall’esterno. Non per nulla il cosmo, per quanto riguarda i mondi della percezione, è il dossier di tutte le creazioni-percezioni degli esseri. 

Allora come può esistere il dossier di un evento scartato, non vissuto?      

 

A ben pensarci ciò potrebbe essere oggetto di meditazione da parte vostra. In tal caso, perché privarvi di una simile possibilità? Meditate, meditate.

 

 

 Continua