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Il perché dell'esistenza e la voce del Padre (...Io non ti ho dato la vita nel mondo perchè...)- 

La futura condizione di esistenza -    

Il perché dell'esistenza e la voce del Padre

 

(1981)

 

 

Abituato alla logica, i cui presupposti derivano dalla realtà del mondo fenomenico e della percezione, l'uomo che cerca di capire il significato della vita oltre l'apparenza, anche se appagato dai concetti che affermano l'esistenza di un ordine e di una giustizia perfetti aventi il fine di far evolvere ogni essere e condurlo ad un supremo stato di coscienza, si domanda il perché dell'esistenza di tutto quanto esiste.    

 

La risposta a questa domanda è contenuta in poche parole, ma il vero senso può essere colto solo individualmente. E' una risposta importante perché pone l'accento sulla giusta interpretazione della Realtà.    

Innanzitutto, farei una distinzione fra perché inteso come ragione o fine, od invece inteso come causa. La ragione, cioè la finalità, può o erratamente far apparire la vita sotto una luce di fatalismo in cui la volontà del singolo non ha effetto oppure far pensare che tutto dipenda dalle scelte individuali, a seconda che si concepisca una realtà del tipo meccanicistico o del tipo finalistico, e così via. La causa, invece, se ne è accertata l'esistenza, è con poche eccezioni identificata in Dio.

 

Come poi sia questo Dio, è discorso a sé stante e non certo unanime.   

Si dice " causa " un accadimento che ne origina un altro detto " effetto ". Noi affermiamo che se si considera " effetto " l'emanato, il manifestato, e " causa " ciò che lo origina, la causa è Dio. Meglio, l'esistenza di Dio.    

 

E qui saremmo portati a riprendere il concetto aristotelico, poi adottato fervidamente da Tommaso d'Aquino, secondo cui

ogni causa che origina un effetto è, a sua volta, originata da un'altra causa; e poiché la serie delle cause non può essere infinita, deve necessariamente esserci stata una prima causa, ossia Dio. 

Questo ragionamento, affascinante per molti versi, ha però i suoi limiti, che sono i limiti dello spazio-tempo.       

 

Credo che, per la prima volta, già nel secolo quattordicesimo si affermò che il rapporto fra causa ed effetto è soltanto frutto dell'esperienza, perciò non razionalmente certo. Tale critica fu ripresa da David Hume, con l'affermazione che il rapporto fra causa ed effetto deriva dall’abitudine che ha l'uomo di considerare costanti i rapporti fra certi fenomeni osservati, ed è perciò un fatto soggettivo. Concetto, questo, condiviso da Kant, che considera la causa una nostra interpretazione della realtà, una categoria dell'intelletto. Che il rapporto causa-effetto sia un postulato lo farebbe supporre anche l'indeterminismo della fisica secondo cui, nel mondo delle particelle, non si può mai dire che cosa è vero o che cosa succede per davvero, ma solo che vi sono probabilità che sia così.

 

Secondo la meccanica classica o analitica, precisamente secondo la dinamica, è possibile conoscere esattamente la traiettoria di un corpo in movimento, cioè la sua posizione nello spazio in un dato tempo, conoscendo la sua massa, la forza ad esso applicata ed altri elementi. 

Alla causa, cioè alla forza ed altro, corrisponde la certezza dell'effetto, cioè la posizione del corpo in un dato tempo. Questa certezza non c'è più quando si tratta di particelle atomiche, tanto che su questo fatto è nata la meccanica ondulatoria. In altre parole, alla causa non corrisponde la certezza di un dato effetto. Naturalmente tutto ciò è detto in termini semplicistici.   

 

A questo punto qualcuno può chiedersi: ma cosa intendono dire questi amici dell'aldilà? Dopo averci presentato il legame fra causa ed effetto addirittura come una legge, cercano forse di rimangiarsi l'affermazione fatta? No! Infatti, anche secondo la spiegazione della realtà che abbiamo data servendoci dell'esempio dei fotogrammi, il legame fra causa ed effetto è costituito da una stessa serie di fotogrammi. 

In altri termini, imboccata una serie, cioè mossa una causa, non si può che percorrere quella serie, ossia avere quell'effetto. Semmai ci sarebbe da chiedersi perché il senso di percorrenza non è reversibile, cioè la freccia del tempo è a senso unico.      

 

Quando si parla di causa e di effetto, si parla del mondo fenomenico, del mondo della percezione, cioè della dimensione soggettiva, e non certo di ciò che è oggettivo, o dell'Assoluto. 

Il rapporto fra causa ed effetto può esistere solo nel tempo, o quanto meno in una successione logica: mai nel non-tempo, nell'eternità, dove Tutto è Uno. 

Perciò affermare che Dio sia la causa del mondo della percezione e di tutta la cosiddetta Manifestazione non può intendersi nel senso che Dio sia la causa e che il manifestato sia l'effetto distinto dalla causa, perché ciò significherebbe dare a Dio una natura temporale. Dio è la causa del Tutto nel senso che tutto trova la sua ragione d'esistenza in Dio, non nel senso che il manifestato prima non c'era, nella Realtà divina, e adesso c'è. La cosa è profondamente diversa: causa ed effetto sì, ma in una sola Realtà, al di là della successione e della separazione.       

 

Certo, il manifestato, la pluralità è una conseguenza nel senso che trae origine dall’esistenza di Dio ed è a Lui legato a tal punto che Dio non sarebbe la completezza assoluta senza di esso. Ma ciò significa forse un rapporto di dipendenza di Dio rispetto al manifestato?      

 

Per rispondere a questa domanda, cioè per capire il perché del manifestato, perché inteso quale fine, dobbiamo esaminare la questione, chiedendoci se il manifestato apporti qualcosa a Dio.

La questione è molto difficile a trattarsi perché i termini possono trarci in inganno. Infatti, se si dice che il manifestato, con la sua esistenza, reca qualcosa a Dio, la conseguenza logica di questa affermazione sembra essere uno stato di dipendenza di Dio rispetto al manifestato; e ciò è in contrasto col concetto di indipendenza, di assolutezza di Dio, di infinità, di completezza, e via dicendo. Tuttavia questa conclusione, che è logica conseguenza nella dimensione della molteplicità, non è più necessariamente vera nella Realtà del Tutto-Uno. 

 

In altre parole più semplici, anche se in fondo più imprecise, tenendo presente che il manifestato è in Dio, nella Realtà divina quale Sua parte anche se oggettivamente in Lui non distinguibile, il concetto di indipendenza e di conseguente limitazione non è più una implicazione logica quale sarebbe se l'emanato fosse staccato da Dio. Intendo dire: tenendo presente che il manifestato fa parte di Dio si può affermare che ha una funzione nell'esistenza divina senza che Dio, da questo, ne venga implicitamente limitato; perché non esiste una dipendenza da fattori estranei a Dio, ma semmai solo da Se stesso: il che è indipendenza.    

 

L'esistenza di ogni manifestato, ossia l'esistenza della pluralità, è il modo in cui è attuato e strutturato il sentire assoluto. Ecco perché la ragione dell'esistenza del manifestato è l'esistenza di Dio. Il manifestato è tutto-uno con la Realtà divina, la sua esistenza è parte integrante dell'esistenza di Dio.

 

Sicché, in ultima analisi, il perché dell'esistenza del manifestato è il perché dell'esistenza di Dio. Ma può Dio avere un perché?    

 

Egli, è Colui che E': affermazione apparentemente senza senso ma la cui profondità è tale che, pienamente intesa, risponde esaurientemente ad ogni perché. Tuttavia, dicevo, nessun fatto di comprensione è così, individuale come questo; perciò nulla di più posso fare se non mettere in evidenza che una siffatta concezione di Dio implica una concezione della Realtà simile ad  un relativo determinismo, ma che in più a questo ha per finalità l'esistenza di Dio.    

 

Ciò non deve indurre all'errore di credere che sia infondato ogni atteggiamento mistico e che non abbiano valore la volontà dell'uomo e le sue scelte. 

Nella dimensione della pluralità, ove noi esistiamo come singoli apparentemente distinti gli uni dagli altri, ad ogni causa corrisponde  un effetto con la finalità della manifestazione di un più ampio stato di coscienza individuale, che, proprio perché tale, svincola da un cieco, incosciente determinismo. Nell'ambito della relativa libertà conseguita, ognuno opera le proprie scelte, le quali origineranno ineluttabilmente effetti aventi però sempre lo scopo di svelare maggiormente la coscienza, fino all'annullamento di ogni limite e di ogni separazione.

 

Il rapporto fra l'uomo e Dio è perciò il rapporto fra l'uomo e il suo vero Sé, che è il Sé del Tutto-Uno-Assoluto.

Non deve essere quindi un rapporto di tipo masochistico, ma di consapevolezza delle contingenti limitazioni, oltre le quali si disvela la vera natura del proprio essere; un rapporto fondato sulla certezza che, al di là del sapore amaro di certe esperienze, tutto è perfetto, giusto e volto a guidare il nostro sentire all'assoluta completezza; e ciò per l'assoluta completezza del sentire.

 

Una tale concezione ha tutta la logica dei panteismi e l'afflato mistico del teismo: non rifiuta nessuna ideologia poiché tutte errate rispetto alla completezza della Realtà e ciascuna vera per l'esperienza che apporta a chi la vive profondamente.   

 

Quale maggiore sprone all'altruismo, per l'uomo, di una concezione della propria vita secondo lo spiritualismo? In verità la logica, con tutta la sua possibilità di dimostrazione non può, in questo senso, tanto quanto l'irrazionale aspirazione mistica. E come potrebbe sussistere la comunicazione fra gli esseri se la logica, le dottrine razionalistiche e lo stesso empirismo, non avessero creato elementi comuni d'intesa, invece così remoti e precari nel fideismo e nel misticismo?

Se dunque la Realtà è quale l'abbiamo illustrata, essa è perfetta ed ognuno conduce le giuste esperienze che gli sono necessarie, dato che non è tanto importante conoscere la verità - e la Verità vera la conosce solo Dio perché Dio solo è la Realtà -, quanto vivere profondamente e sentitamente anche una fantasticheria.  

Nessuna remora d'ordine logico e razionale può fondatamente non dare senso o impedire di rivolgerci a Chi, con la Sua Esistenza, è all'origine della nostra; a Chi, con questo significato, ma non solo con questo, ci è Padre.

Rivolgiamoci a Colui che è la Realtà del Tutto, dischiudiamoci a Lui che è reale dimensione d'esistenza di ogni essere, e supereremo le contingenti limitazioni.

 

Sì, Padre, nell'esistenza di ognuno c'è un giorno in cui è udita la Tua voce. Non sia che quel giorno essa dica:

 

"Io non ti ho dato la vita nel mondo perché tu portassi la morte.

Non ti ho dato il desiderio perché tu divenissi avido.

Non ti ho dato la mente perché ti rendessi schiavo dei suoi tranelli.

Né ti ho dato la tranquillità perché tu vegetassi, e il progresso perché ti circondassi di cose inutili o perdessi la tua vita nella ricerca di quelle.

Non ti ho dato la grandezza perché tu disprezzassi gli umili. 

Non ti ho dato il potere perché tu opprimessi e operassi ingiustizie.

Non ti ho dato la pace perché tu la distruggessi.

E se ho permesso la guerra, è perché tu apprezzassi l'intesa.

Se ho permesso il dolore che viene dall’egoismo dei tuoi simili, e dal tuo, è perché tu comprendessi lo splendore dell'altruismo.

Se ho permesso l'intolleranza, l'offesa, la schiavitù, è perché tu perseguissi le virtù contrarie.

E se ho permesso che tu fossi umiliato, sfruttato, incompreso, è perché tu imparassi a non umiliare, a non sfruttare, a comprendere, imperciocché una vita felice ma sterile non è tanto preziosa quanto una tormentata che doni comprensione.

Ma io ti ho dato la vita nel mondo perché tu lo rendessi più bello. 

Ti ho dato l'abbondanza perché ti fosse più facile donare. 

Ti ho dato il benessere perché tu avessi pietà di chi soffre. Ti ho dato la sapienza perché tu creassi.

Ti ho dato il desiderio perché tu desiderassi il bene dei tuoi simili, e la mente perché tu comprendessi che una sola cosa è necessaria, e quella tu scegliessi: quella cosa che ti conduce al di là degli opposti, laddove non v'è separazione, dove causa ed effetto sono una sola Realtà".  

 

 

 

La futura condizione di esistenza

 

(maggio 1982)

 

Ci sono dei pensatori che tentano di spiegare la realtà con gli elementi che hanno a disposizione, o meglio con le idee che la loro visione parziale suggerisce. Ne risultano teorie non solo antropomorfiche ma che nemmeno sono l'espressione della possibilità dell'uomo di pensare in termini generali. 

 

Uno di questi esempi è dato dall'affermazione che il destino dell'uomo, quale essere spirituale, lo assoggetta ad un divenire senza fine. L'essere spirituale continuerebbe in eterno un processo di acquisizione. Tutto questo, poi, non provvederebbe un abbandono della Terra in senso ultra-fisico; cioè la Terra, sì, sarebbe abbandonata, ma l'essere continuerebbe, in altre dimensioni spirituali, una vita di relazione basata sulla percezione, sulla sembianza della realtà. L'essere spirituale sarebbe un uomo divinizzato, idealizzato, e nulla più.

 

E' chiaro che una simile affermazione deriva dalla incapacità di trascendere la propria condizione umana per accedere anche solo a quella intuizione di cui certi uomini si servono per scrivere dei racconti di fantasia. Pensare che il destino dell'essere spirituale lo releghi in una condizione in fondo antropomorfa, significa non solo non intuire la realtà ma addirittura difettare di immaginazione.   

 

Certo, io non sono qua a raccontarvi cose immaginarie, però se per farvi capire quello che voglio dire devo fare appello alla vostra fantasia, ebbene considerate pure quello che dico una favola, ma comprendete!

 

La difficoltà maggiore a capire il destino, la futura condizione di esistenza dell'essere spirituale, è data dal non riuscire a immaginare come egli trascorra la sua esistenza, che cosa faccia. 

Se poi si afferma, come noi facciamo, che l'essere, sperimentata, per manifestare, una coscienza relativa, si identifica nella coscienza assoluta nella quale è abbattuta ogni separazione, ogni limitazione, ogni successione, e gode della plenitudine assoluta, spesso si sente chiedere: e poi?, proprio quale involontaria dimostrazione della incapacità di superare il modo umano di concepire la realtà. Si può parlare di un « poi » in un simile stato di coscienza? 

Un « poi » e un « dove » derivano da una condizione di esistenza limitata in senso spaziale e in senso temporale; da una abitudine a percepire la realtà in successione e in separazione. 

 

Ora, invece, per avvicinarsi a capire un simile stato di coscienza, bisogna riuscire a immaginare uno stato di superamento della separatività, cioè una coscienza che abbraccia tutto quanto esiste, perciò un superamento dell'io e del non io e quindi il superamento del modo di percepire basato sulla separatività. 

Non solo: tutto ciò, pur dando l'idea di una coscienza che non conosce limiti in senso spaziale, non dà ancora l'idea di un superamento dei limiti in senso temporale, che invece c'è nella coscienza assoluta. Se tutto quanto esiste mutasse nel tempo, una coscienza che abbracciasse tutto quanto esiste solo in senso di estensione, di quantità, sarebbe pur sempre limitata in senso di successione temporale, perciò non sarebbe ancora assoluta. Mentre, per essere tale, la coscienza deve comprendere anche le mutazioni.

 

Che cosa sono le mutazioni? Realtà diverse. Che cos'è l'io o un essere? La coscienza limitata ad una parte, o, più precisamente, sentire la realtà in termini di parte. Che cos'è un essere rispetto ad un altro? Un modo diverso di sentire la realtà in termini di parte. E che cos'è un io, una coscienza, un essere, nella successione? 

Ancora un modo diverso di sentire la realtà in termini di parte. 

Non fa differenza: sono tutte realtà diverse. La definizione della differenza dei sentire di un momento, appartenenti ad esseri diversi, calza, è la stessa, per la differenza di sentire di momenti diversi appartenenti ad uno stesso essere. Si tratta di modi diversi di sentire la realtà in termini di parte.     

 

Allora, che cosa sono gli esseri? Se il mio sentire di ora è diverso dal vostro di ora allo stesso modo di come è diverso dal mio sentire di un altro momento, che cosa è che mi fa dire « il mio sentire »? Certo il fatto che io l'ho vissuto. E che cosa è che mi fa dire « io l'ho vissuto »? Certo la memoria, ossia la capacità di conservare in sé, per poter evocare, immagini di cose viste, suoni uditi, sentimenti, stati d'animo provati, idee acquisite. Ma altrettanto certo è che il ricordo, per quanto vivo possa essere, è un'ombra, uno spettro; non è la realtà; non è tornare a vivere l'esperienza.

 

Il ricordo è memoria di un presente che fu. E quel che fu, per avere una esatta collocazione cronologica, deve essere riferito nella memoria a fatti certamente datati; altrimenti non è collocabile, altrimenti è un « non ora » che non si distingue da tutti gli altri « non ora » che la memoria riesce a ricordare. 

Questo perché la coscienza è sempre al presente. 

Una coscienza che sia al tempo passato o futuro è inconcepibile: passato o futuro rispetto a che cosa? Al proprio essere. Ma siccome la coscienza è l'essere, è assurdo per misurare la propria distanza, separazione, disidentificazione, eccentricità, prendere quale punto di riferimento se stessi: il valore sarà sempre zero. 

Perciò la coscienza è sempre al presente, sicché il proprio essere è sempre solo quello del momento presente. Ogni momento siamo un essere diverso e, infine, quale reale condizione di esistenza, siamo un essere totale.

 

Sicché il mio sentire che fu, non mi appartiene più di quanto non mi appartenga il sentire di un mio simile; o meglio mi appartiene come quello di un mio simile. Difatti, se perdessi la memoria, in forza di quale altra facoltà potrei dare la paternità ad un sentire? Certamente nessuna. 

 

D'altra parte, la memoria non è determinante nell'esistenza del sentire. Se si togliesse la facoltà di ricordare, non cesserebbe il sentire: non si avrebbe più cognizione del tempo, si avrebbe cognizione che l'esistenza, la coscienza, è un continuo presente. 

 

Il sentire di ogni istante - o meglio innumerevoli sentire che creano gli istanti - sono completi in se stessi; ciascuno afferma, manifesta una realtà. 

Sicché quel tenue e lacunoso filo che è la memoria, su cui si intreccia ogni rapporto con gli altri; che ci ricorda chi sono, che cosa ci debbono, cosa possiamo pretendere; che volutamente si smarrisce quando ci torna utile fingere di averlo smarrito; quel filo senza del quale non sappiamo chi siamo, qual è il nostro nome, e su cui fondiamo tutta la nostra vita di uomini, se si spezzasse, pur così determinante, non ci toglierebbe la cosa più importante del nostro esistere che si identifica con l'esistenza stessa: il sentirsi vivi, la coscienza di esistere.

 

Ma pure, questo sentire di istanti è legato in una catena, non solo per effetto di quel fragile ed evanescente filo che è la memoria; al di là di ciò che possiamo ricordare e del potere condizionante del ricordo, gli innumerevoli sentire che con la memoria creano gli istanti si chiamano, si susseguono, si legano in virtù di qualcosa che non può essere apparente e caduco perché è la forza di coesione che crea l'essere, che fa di tante parti un sol tutto. 

 

Che cos'è che tiene uniti gli atomi della materia se non una forza che promana dall'atomo stesso? In modo analogo, la forza che unisce gli atomi di sentire che compongono la coscienza, scaturisce dalla natura stessa del sentire. E dalla natura stessa del sentire dipende l'ordine secondo il quale i sentire sono uniti, e quindi la successione secondo cui si manifestano; o meglio, sembrano manifestarsi in quella successione perché, in quell'ordine, sono concatenati.      

 

Dalla natura stessa del sentire relativo nasce l'ordine secondo cui esso è disposto e quindi secondo cui è disposto tutto quanto esiste: infatti le situazioni del mondo fisico, emotivo e intellettivo sono strettamente unite ad un relativo sentire, tanto che all'apparenza è impossibile dire se siano quelle situazioni ad essere come sono perché discendono da quel sentire, oppure se il sentire è quello che è in conseguenza di come sono le situazioni fisiche, emotive e mentali. In effetti, c'è un legame secondo il quale le coscienze del momento, i sentire, si legano, ed è il legame logico.    

 

Paragoniamo il sentire iniziale di coscienza di una incarnazione ad una equazione impostata: i sentire successivi, quelli in senso lato, logicamente legati all'iniziale, sono rappresentati dai vari passaggi che conducono alla soluzione dell'equazione. La soluzione rappresenta la caduta di una limitazione del sentire e l'ampliamento della coscienza. Lo stesso legame logico esiste fra l'impostazione di una equazione e l'impostazione delle equazioni successive. Ne risulta un sistema di equazioni in cui tante sono le incognite quante le equazioni, perciò un sistema risolvibile. Ossia tutte le limitazioni cadono, tutte le incognite sono conosciute.      

 

Un'altra domanda che frequentemente viene fatta è « che necessità ci sia che ogni essere nasca da Dio e a Dio ritorni, cioè che compia tutta una trafila così complessa e, in fondo, faticosa ». Prima di rispondere non si può fare a meno di dire che se la faticosa trafila è il prezzo per dare all'essere la coscienza assoluta, è molto più quello che si ha di quello che si paga. Tuttavia una simile domanda è frutto di una errata concezione della realtà perché non tiene conto del fatto che al di là di ciò che appare, nella successione e nella separazione - cioè nell'illusorio divenire - nessuno si stacca da Dio o a Dio ritorna o giunge: tutto è sempre in Lui.

 

Se mai la domanda giusta è « che funzione hanno gli esseri nell'esistenza divina », e, più giusta ancora, « qual è la funzione della coscienza del sentire relativo, nella coscienza assoluta ». Rispondo che la coscienza assoluta è una nel senso di unica e unitaria, però non nel senso di avente una sola qualità, anzi in questo senso è molteplice e poliedrica. L'Unità è realizzata con la comunione degli elementi, cioè in uno stato di esistenza in cui, per esempio, la vita che un uomo vive in successione è sentita simultaneamente nel non tempo, ossia in qualcosa che non ha né prima né dopo, né perciò durata, ed è sentita simultaneamente alla vita di tutti gli esseri.    

 

Tutto questo non significa che la coscienza assoluta sia uno stato d'essere frazionario, di confusione, nel quale tutto si accavalli e confonda. 

Già la coscienza umana - che pure è relativa - è unitaria. Ogni momento del sentire che origina gli esseri, è presente nella coscienza assoluta identicamente a come gli esseri lo sentono. Non potrebbe essere diversamente da così, dato che il sentire che origina gli esseri è lo stesso sentire contenuto nella coscienza assoluta. Non è uno identico, è lo stesso. 

Se tale sentire non esistesse nella coscienza assoluta non esisterebbero né gli esseri, né la coscienza assoluta. Dunque l'esistenza degli esseri appartiene all'esistenza di Dio e la ragione della loro esistenza risiede nella completezza, nell'assolutezza della Realtà divina. Il sentire di coscienza che ciascun essere manifesta è un elemento costituente della coscienza assoluta, dove esiste in un eterno presente, al di là dell'illusorio manifestarsi in successione temporale. Ciascun sentire è un momento, un elemento dell'essere relativo, come ciascun essere è un elemento dell'organico Essere assoluto.  

 

Questa concezione della Realtà esistente, rendendo partecipe della Divinità tutto quanto esiste, spiega come niente e nessuno possa essere considerato reiétto, escluso, perduto. 

Tuttavia, mentre conforta con la certezza che nessuno può perdersi definitivamente - anzi ognuno è destinato fatalmente alla massima gloria dell'esistenza assoluta - può indurre a credere che non abbia alcun valore cercare di mutare gli avvenimenti, migliorare le situazioni e le persone essendo già tutto esistente al di là del tempo e della volontà dell'uomo. 

 

Una simile errata conclusione è evitata tenendo presente che, siccome tutto quanto è percepito da ciascun essere, costituisce uno stimolo alla sua evoluzione, alla costituzione e rivelazione della sua coscienza - ed anche se la percezione è comune a più esseri rappresenta per ciascuno un'esperienza personale - ne risulta che tutto quanto esiste è come se esistesse solo ed esclusivamente per ciascun essere, solo per la costituzione-rivelazione della sua coscienza, come se ciascun essere fosse al centro di uno spettacolo vitale concepito solo per lui ed egli fosse l'unico essere ad esistere. Mentre, in realtà, innumerevoli sono gli esseri, pure essendo ciascuno unico e irripetibile. Perciò ciascun essere - essendo come se fosse l'unico ad esistere è come se fosse l'unico a partecipare, manifestare, far esistere la coscienza assoluta.  

 

Allo stesso modo siccome la realtà colta da ciascun essere è percepita in successione, in divenire, è come se la realtà fosse tale, cioè stesse ora sviluppandosi, prendendo corpo, mentre in effetti la Realtà esiste già nella sua completezza. Tuttavia non potrebbe esistere se non si manifestasse così come ciascun essere la percepisce e la manifesta. Perciò nel momento in cui il sentire è sentito è come se fosse il momento in cui prende esistenza; da qui l'importanza della propria esistenza e della propria volontà.   

 

Ciononostante, per la vostra mentalità di uomini inseriti in una realtà di apparente divenire, in cui impera il principio di causa e d'effetto differito, resta difficile capire che senso abbia, per esempio, aiutare un vostro simile se egli, per la legge karmica, non abbia via di uscita; oppure lottare per far volgere gli eventi in un certo modo quando, nel piano divino, fossero stabiliti in modo diverso. 

 

Una simile incomprensione ha le sue radici in una coscienza della realtà che è già molto se riesce a stimolare l'uomo ad agire con la promessa di un risultato; una concezione della realtà tutta esteriore; mentre in effetti quello che è considerato mondo esterno è importante nella misura in cui si trasfonde in esperienza interiore; sicché il   dare o il fare non sono tanto importanti per la riuscita quanto per il proposito, quanto per l'intenzione del soggetto.  

Guardiamo più nel dettaglio l'articolazione di tale verità.

 

Esiste una storia generale dell'umanità che è data dalla cronologia degli eventi umani di carattere politico, sociale, economico, religioso e via dicendo. Tale storia è immutabile, non può essere variata; in essa si intessono le storie individuali, personali degli uomini. 

Storie particolari, che possono avere - sia pure in misura limitata - varianti. 

Non si deve credere che laddove la storia particolare può essere variata - cioè laddove esiste una possibilità effettiva di scelta - tutto sia lasciato nella nebbia dell'indefinito. Tutt'altro: nell'Eterno Presente delle situazioni cosmiche esistono già definite tutte le alternative alla scelta possibile. Se, ad esempio, due sono le possibilità che la scelta offre, due sono i rami della storia tracciati. 

Quindi, non indefinizione, ma doppia definizione. 

Non si deve neppure credere che la storia generale sia più importante delle particolari; infatti da un certo punto di vista non è che la risultante di quelle, perciò da quel punto di vista sembrerebbe subordinata ad esse. 

Ma così non è, tant'è vero che la storia generale è costituita in funzione delle storie particolari, ma non in dipendenza di quelle. Cioè la storia generale è costituita in funzione delle esperienze evolutive dei singoli individui e quindi in funzione delle esperienze che essi debbono compiere; ossia non è l'uomo che segue un destino già tracciato, è l'inverso: il tracciato è quello che è per offrire all'uomo le esperienze che vuole e che deve avere.     

 

Tuttavia, laddove le scelte individuali andrebbero ad influire nella storia generale - cioè la storia generale diventerebbe dipendente dalla particolare -, perché ciò non avvenga il problema è risolto attraverso alla « variante », alla doppia definizione degli avvenimenti: l'una è quella che gli altri vedono e che per loro costituisce un passaggio obbligato - la storia generale -; l'altra è quella vissuta personalmente quale frutto di una possibilità  di scelta che si discosta da quello che gli altri debbono necessariamente vedere e vivere e che costituisce la libertà del singolo nella necessità della collettività. In altre parole, allorché la scelta di un singolo si ingerisse nella vita degli altri in modo contrario alla loro necessità evolutiva, la scelta - attraverso ad una variante - sarebbe vissuta da lui solo, proprio per evitare l'interferenza.  

 

Supponiamo che un capo di stato sia posto di fronte al dilemma di porre il suo popolo in guerra o no. Chiaramente la guerra è un evento generale e quindi invariabile, perciò se il capo di stato avesse la libertà personale di sottrarsi alla guerra - cioè la possibilità di non dichiararla per vivere in pace -,  a scelta operata lui solo vivrebbe la pace, mentre tutto il suo popolo vivrebbe la guerra. L'esempio, ovviamente, è radicalizzato, portato agli estremi limiti, paradossale; però spero che se anche è irreale, serva a farvi capire la realtà. Già sento qualcuno di voi concludere: « Se la guerra è un avvenimento predestinato, è inutile pregare o manifestare perché non avvenga ». 

 

Ed eccoci tornati al nocciolo del problema. Secondo voi, che il capo di stato firmi o non firmi la dichiarazione di guerra, è lo stesso? Spero che riusciate a capire che se anche la guerra deve scoppiare, è estremamente importante che il capo di stato scelga la pace: l'atto investe la sua persona, la sua intenzione e quindi la sua comprensione, la sua evoluzione, la sua coscienza - che si tratta di avere o non avere, che c'è o non c'è. Vi pare poco?      

 

Certo, ai fini collettivi la decisione del singolo non può mutare ciò che gli altri debbono avere o non avere, ma al fine individuale quanta importanza ha che si faccia o non si faccia una cosa indipendentemente da quello che sarà il risultato!       

Se pensate che sia inutile cercare di aiutare i vostri simili perché comunque voi facciate le cose andranno come è scritto che vadano, vi dico che in ogni caso una cosa importantissima verrà a mancare: quella per la quale tutto esiste e vive, per la quale si succedono i giorni, le vite, le storie: la vostra coscienza, quella coscienza che è la manifestazione di un Dio nell'essere e in forza della quale esistiamo e per mezzo di cui nulla, infine, può rimanerci estraneo, dandoci essa la plenitudine assoluta.  

 

Sicché, pregate o manifestate per la pace; anche se non potete cambiare le cose che non possono essere cambiate, potrete cambiare voi stessi e con voi stessi il mondo, la realtà nella quale vivete. Se anche il vostro operare altruistico non raggiungerà lo scopo prefissato, voi, operando, vi potrete dalla parte giusta. E questo vi pare poco o inutile?

Continua