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Approccio al concetto di Assoluto - Divenire e essere - Finalità del divenire - A quale Dio credere (maggio 1975)                            

Immanenza e Trascendenza -       

 

Approccio al concetto di Assoluto

 

 

Vi abbiamo fatto un quadro generale di quella che è la realtà che noi riusciamo a vedere, a percepire: questo quadro può essere affrontato da qualunque parte e segue un discorso logico, così come un indumento fatto a maglia non è che un filo lavorato in una certa maniera. Da qualunque parte noi possiamo cominciare ad osservare questo quadro della realtà, c'è un filo conduttore, estremamente logico, che finisce in un concetto principale o ultimo: il concetto di Dio-Assoluto. 

 

Dire Dio-Assoluto implica una serie di altre affermazioni tutte susseguentisi. Voi potete pensare a un Dio diverso da quello che noi vi prospettiamo, siete liberissimi, altri lo fanno: ed allora chiamate quel Dio « Padre », « Altissimo », « Grande Architetto », « Ente Supremo », come vi piace, ma non lo chiamate « Assoluto » perché chiamarlo « Assoluto » significa riconoscere a Lui certi concetti, certi altri principi, l'uno scaturente dall’altro e giù giù fino a ricostruire quel quadro generale che noi abbiamo affrontato dal basso. Infatti abbiamo cominciato col parlarvi della reincarnazione, della legge di causa ed effetto o karma, dei piani di esistenza, della libertà relativa. 

Ma ognuna di queste verità che mano mano andiamo focalizzando sta insieme logicamente, segue all'altra fino ad arrivare al concetto ultimo dell'Assoluto. 

 

Comprendiamo che affrontare questo concetto, per voi che siete abituati a pensare a Dio in certi termini mistici, è molto difficile; è una strada insidiosa che di tanto in tanto vi mette di fronte a delle sorprese, che distrugge certe idee romantiche che vi siete fatte, o che altri hanno costruito in voi: ma pure se vogliamo essere logici fino in fondo non possiamo che seguire questa strada e voi non potete che seguirla.

 

Noi non stiamo parlando per difendere ciò che diciamo: la verità - lo abbiamo detto altre volte - non ha bisogno di difensori, si afferma da se stessa. E' bello dire « la causa della verità », ma ha poco senso. La verità non ha bisogno di chi la imponga: a mano a mano che l'uomo procede si scopre da sola. Galilei scoprì la rotazione della Terra; per pressioni esterne fu costretto a ritrattare, ma nonostante il parere diverso del Papa, nonostante la ritrattazione di Galilei, la Terra girava lo stesso e gira tuttora. Così, ciò che noi vi diciamo si difende da solo; vogliamo unicamente scuotere la vostra attenzione e ricordarvi che se volete seguire questo filo logico fino in fondo, dovete essere disposti a distruggere certe immagini che potevano esservi care e che possono tuttora esservi care come favole ai fanciulli, ma che ad un dato momento non hanno più ragione di essere credute.

 

In linea generale, esaminando un po' tutto quello che il pensiero dell'uomo, le religioni e le filosofie possono averci offerto da quando l'individuo ha cominciato ad usare la mente fino ad oggi - senza occuparci di quelle civiltà che sono scomparse senza lasciare traccia della loro cultura -, quali sono state le configurazioni o i concetti più alti che l'uomo ha avuto di Dio?

 

Tralasciamo tutta la parte che riguarda la forma panteistica e tutta quella che si rivolge alla non esistenza di Dio: tutta quella cioè che fa nascere l'Universo da una fortuita coincidenza o da una spinta che avrebbe la materia di eternare se stessa o di creare qualche cosa che la trascenda, che vada al di là della sua natura. 

 

Tante cose sono scritte e dette, ma noi dobbiamo guardarle oggi con occhi di uomini moderni che vivono in questa epoca e che cercano di intendere le varie interpretazioni con la logica che è propria di questa epoca. 

 

E' vero che questo vostro tempo è il tempo del positivismo, della scienza, ma è anche vero che la scienza non è più negatrice ad oltranza della sopravvivenza dell'anima, o di ciò che non può ancora cadere sotto i suoi strumenti di verifica e di esperienza. Rimane in un atteggiamento di attesa: ed è su un piano tale che considera tanto la probabilità che esista Dio, quanto la probabilità che non esista, sullo stesso livello. Cioè dice: «...siccome io non posso dimostrare l'esistenza di Dio, io non posso credervi ». Ma allo stesso tempo dice: « ... siccome niente può dimostrare che Dio non esiste, altrettanto io non posso dire che Dio non esista ». Questo è l'atteggiamento attuale degli scienziati più avanzati.  

 

Ecco, noi tralasciamo le ipotesi che negano Dio, perché questa visione della materia che emana la vita così per una spinta interiore o per un caso fortuito, è certamente destinata ad essere annoverata fra le teorie o le ipotesi poco probabili o del tutto improbabili. Altre volte lo abbiamo detto: ciò che è frutto del caso non può che essere una cosa così instabile e precaria e fortuita, che non potrebbe creare una catena di cause stabili, ordinate e durature. Potrebbe sì creare qualcosa di vivente ma questo qualcosa di vivente, nella congerie delle probabilità così fortuite che l'hanno originato, cadrebbe immediatamente per non apparire forse mai più e non potrebbe riprodursi secondo un ordine stabilito e così minuzioso fino a creare l'uomo.

 

Allora qualcosa deve esistere che va oltre quello che noi vediamo o che dicono certi scienziati. E' forse azzardato chiamarlo Dio o parlare di Dio, ma certo è che qualcosa che vada oltre ciò che fisicamente si è abituati ad indagare e a sperimentare, esiste. 

Ora, quale figura noi possiamo prospettare ad uno scienziato che appaghi in qualche modo la sua mente e che sia abbastanza vicina alla realtà? Possiamo forse noi prospettare la figura che ci viene dipinta o descritta dalle varie religioni? Tutte, più o meno, parlano di un Dio antropomorfo: già si fece un enorme passo avanti quando dall’Olimpo degli Dei si passò ad un Dio unico. 

Ma questo Dio ha tutte le caratteristiche dell'umano: crea il mondo, in qualche modo si inserisce nelle vicende umane, è con i vincitori ma risuscita i vinti, e così tutte quelle cose che non possono reggere ad una critica logica ed obiettiva, che non possono appagare né una mente scientifica, né una mente razionale.

 

Quale altro concetto di Dio possiamo mostrare a questa mente razionale o scientifica, a questa mente che obiettivamente valuti questo concetto e dica: « E' probabile che sia così ». Chiediamo ausilio alla filosofia, visto che la religione non può esserci di aiuto. La filosofia!... 

 

Anche qui quante cose sono state scritte e dette! Ma forse, dando un rapido sguardo alla storia del pensiero dell'uomo, noi vediamo che un concetto più completo - e più logico in un certo senso - che ci mostra i vari problemi connessi alla figura di Dio, della sopravvivenza, dell'aldilà e via dicendo, noi lo troviamo nel pensiero orientale. Ma, strano a dirsi, nel pensiero degli orientali raccolto dalle menti occidentali. La teosofia, l'antroposofia, la filosofia dei Veda, la filosofia Yoga, ci danno una descrizione della struttura dell'uomo che va al di là del fisico, e illustrando certi problemi che hanno qualcosa di fascinoso che stimola l'intuizione dell'uomo, presentano teorie abbastanza valide, ipotesi abbastanza soddisfacenti di ciò che vogliamo dire.      

 

Ebbene, se noi esaminiamo quello che queste filosofie dicono a proposito di Dio - e che è quindi quanto di più valido l'uomo di oggi sia riuscito ad avere circa la figura di Dio - vediamo che per quanto avanzati questi concetti siano, hanno dei lati non convincenti. 

 

Mentre hanno bene afferrato il concetto di « maya » o di illusione, non hanno spiegato come può essere strutturato questo mondo di illusione per apparire concreto e tangibile: e come può un cosmo nascere, evolvere e morire pur essendo da sempre e per sempre in Dio. Poi, se da una parte danno un concetto di Dio che non è assolutamente un Dio antropomorfo, però è un Dio che diviene.   

 

Si è tentato - sempre secondo queste scuole filosofiche - di dire che Dio crea il cosmo emanandolo da se stesso, per un atto d'amore. Ma voi comprenderete che - a parte questa cosa strana che Dio nella sua completezza ad un certo momento per amare abbia bisogno di crearsi un cosmo - resta sempre il problema del divenire nell'essere. In Dio non vi è trascorrere e non può aver creato il cosmo ad un certo momento della sua esistenza: Dio è immutabile e non può esistere un momento in cui è privo della manifestazione e un momento in cui è completo della manifestazione. Se così fosse, sarebbe un « divenire » e non un « essere »; e non sarebbe la Prima Causa increata, dipendente solo da Se stesso.

 

Certo è che gli scienziati o i mistici che sono riusciti con la loro fede e la loro spiritualità ad avere momenti di comunione con i più alti stati dell'essere, non sanno parlare dell'essere di Dio, di che cosa Egli è, e di come si concilia questo «divenire» del cosmo con l'« essere « che è Dio. Questo è un problema dibattuto da moltissimi anni.      

 

Per aiutarvi a trascendere il modo di pensare che voi avete acquisito vivendo in questa civiltà e per farvi capire che il divenire o - o lo scorrere - e un'errata interpretazione dei vostri sensi limitati, vi abbiamo portato l'esempio dei fotogrammi di una pellicola cinematografica, tutti immobili e tutti presenti contemporaneamente nella bobina. Lo scorrere, il movimento, il tempo e lo spazio del cosmo scaturiscono dalla percezione individuale delle situazioni cosmiche, così come il movimento della pellicola messa nel proiettore scaturisce dal permanere delle immagini nella retina.    

 

Nel piano fisico, nel piano astrale e nel piano mentale esiste questa illusione di tempo e di spazio, sia pure diversa per ogni piano di esistenza (o stato di coscienza).      

 

Oltre il piano mentale, nel piano akasico o della coscienza, esiste solo lo scorrere dei gradi evolutivi individuali che crea un altro tipo di tempo e di spazio, ma che è sempre un « divenire ».      

 

Ma oltre la coscienza cosmica invece - oltre il cosmo - è l'Eterno Presente, è l'Essere, è l'Assoluto, è l'unica Realtà. Ebbene, noi in questi ultimi anni di questo insegnamento vi abbiamo parlato: vogliamo che voi abbiate un'idea di Dio,

dell'Assoluto, la più vicina possibile alla realtà. Quella che meglio di tutte le altre resista alle obiezioni delle menti scientifiche e razionali che vivono in questo tempo.     

 

Dicendo che l'unica realtà oggettiva è Dio, voi potreste pensare che anche quello che noi vi diciamo sia, né più né meno, una visione soggettiva e che quindi, in effetti, sia una semplice opinione confutabile da un'opinione diversa. Il dire che, ad esempio, la realtà cosmica è soggettiva, non significa che per chi si trova nel cosmo non sia esistente. Tutto è soggettività e, in ultima analisi, illusione rispetto all'unica realtà oggettiva: eppure se voi toccate una fiamma, non c'è dubbio che vi scottate. Quindi questo concetto della soggettività va anch'esso inteso nel giusto senso, per non andare oltre ciò che noi vogliamo farvi intendere.

 

Come capire che ciò che vi diciamo ha fondamento? Ascoltandoci, traendo voi stessi le conclusioni: ciò che noi diciamo, lo diciamo per esperienza diretta, non per sentito dire.

 

E se lo diciamo non è perché ci vogliamo mettere in polemica con ciò che altri dicono. Enunciamo ciò che noi stessi constatiamo e voi dovete accettarlo solo se torna alla vostra logica, non perché lo diciamo noi. Ciò che non torna alla vostra comprensione, scartatelo pure, ma chiedete, chiedete chiarimenti. Prima di rifiutare, siate certi di aver compreso ciò che rifiutate: non rifiutate solo perché non torna con quello che sapevate o che altri vi hanno detto.     

Non ancoratevi allo scoglio che fu di salvezza ieri: siate pronti a salire più in alto, a comprendere che la realtà non può essere commisurata in termini di spazio e di tempo. Non rimanete cristallizzati su ciò che credete, siate duttili, rinnovatevi continuamente.   

Questo significa «nascere ogni giorno»!

 

                                                                                                                                                                              DALI E KEMPIS

 

 

Divenire e Essere

 

(marzo 1975)

 

 

Quando vi parliamo della differenza che esiste fra "divenire" ed "essere" voi non ricordate che su questo argomento ci sono state perfino delle scuole filosofiche degli antichi filosofi, per esempio la scuola Eleatica; Parmenide, Zenone, Melisso, i quali, un po' per intuizione e un po' perché aveva no ricevuto una tradizione orale che veniva dall’Egitto e ancora dalla Siria, dalla Babilonia e perfino da Atlantide, avevano capito che la realtà non può che identificarsi

nell'"essere" e che il "divenire" che osserviamo nel mondo che ci circonda scaturisce da una falsa testimonianza dei nostri sensi. Le critiche che si possono fare al pensiero degli antichi filosofi in questo senso, possono essere rivolte a capire unicamente e solo i sistemi da loro pensati per conciliare il divenire con l'essere, ma non l'idea centrale che la realtà si debba identificare con l'essere.  

 

Per esempio gli Atomisti dicevano che l'« essere « è indivisibile - appunto l'atomo - e che il divenire risulta dalla combinazione degli atomi da cui appunto scaturiscono le differenti materie con tutte le loro trasformazioni; non accorgendosi che in questo modo riducevano l'essere alla radice delle cose e davano al divenire una stessa realtà.    

 

Di volta in volta che approfondiamo certi argomenti vogliamo mettere in luce il significato di questi per meglio comprenderli: vi sono certe verità che hanno bisogno di una verifica non nella loro enunciazione, ma nel senso di come sono da voi comprese. 

 

Per esempio, la legge di evoluzione, l'evoluzione spirituale è una verità che non è soggetta a verifiche fino  a che si comprende che lo spirito non può evolvere. Generalmente l'evoluzione è accettata dai più perché riscatta il mondo quale è: si dice che gli orrori, il sangue, tutto quello che arreca dolore all'uomo, esistono perché gli uomini non sono evoluti, ma quando lo diverranno, il mondo tornerà ad essere il biblico Eden.      

Ora, accettare l'evoluzione per il suo lato accomodante la rende oleografica e bisognosa di essere contestata: non solo, ma l'evoluzione spirituale è intesa, dagli spiritualisti, come appartenente ad una visione dell'esistente fatta dal punto di vista del divenire, divenire in meglio. 

 

Noi contestiamo questa concezione dell'evoluzione; il santo non è l'edizione riveduta e corretta del selvaggio, ma è un altro essere, intendo dire che il selvaggio non diviene Santo, ma l'uno e l'altro fanno parte di un « essere « che ha molteplici fasi di esistenza fra cui, appunto, quella di selvaggio e di Santo. Con questo "distinguo", non sto facendo dell'accademia. Sto mettendo a fuoco l'enorme differenza che esiste fra due concetti e vedrete perché.

 

Evolvere quindi non significa « divenire «, ma è il manifestarsi, in successione, di differenti « sentire « corrispondenti a tanti "stati di essere". 

 

E' fondamentale capire ciò. Se l'uomo evolvesse nel senso del « divenire « non giungerebbe mai ad identificarsi in Dio; un tempo perpetuo non basterebbe a comprendere l'Infinito. E se evolvere significasse « perpetuo divenire «, allora « infinito « dovrebbe voler dire, spazio senza limite ed « eterno « tempo senza fine. Ma il tempo e lo spazio non sono valori assoluti, e per il fatto stesso d'essere relativi, non possono essere senza fine.      

 

Vediamo di spiegarci meglio. Dio può essere concepito in vari modi: come causa ed origine del Tutto, come ordinatore di un caos preesistente, come Essere da cui traggono origine tutti gli altri « esseri «, come Essere immanente nella realtà esistente e via via. 

 

Fra tutte le concezioni valide, serie di Dio, esistono dei punti di contatto; questi punti sono costituiti dai caratteri che si riconoscono a Dio e cioè: il carattere di Assoluto, Infinito, Eterno, Immutabile. Ammettendo uno di questi caratteri, non possiamo non ammettere gli altri perché è dire la stessa cosa: cioè, non posso pensare ad un Dio Assoluto, senza pensare che sia infinito, o non ammettere che sia eterno; allo stesso modo non posso credere che Dio sia eterno - cioè senza tempo perché « eterno « significa questo - senza ammettere implicitamente che Dio è immutabile, perché sarebbe una contraddizione in termine pensare a Dio Eterno che mutasse.      

 

Per noi Dio è il Tutto-Uno-Assoluto che E', e ciò significa appunto fra l'altro che Dio è Eterno Infinito ed Immutabile. Dio solo è la Realtà totale, la Realtà assoluta, e solo Dio è eguale a Se stesso. L'emanato, pur essendo parte di Dio in Dio, proprio perché parte, non è la Realtà totale, non è Assoluto, quindi è relativo. Il tempo e lo spazio appartengono all'emanato, quindi sono relativi. 

 

Osservando l'emanato noi lo vediamo in continuo mutare, in continuo trasformarsi. Ora se questa mutazione fosse reale, Dio intero muterebbe e non sarebbe più immutabile e non sarebbe più eterno, più assoluto. Dunque deve trattarsi di un "apparire", ma non "essere"; ora questo apparire ma non "essere" come appare, corrisponde esattamente al contrario di ciò che noi abbiamo definito Realtà (la Realtà è ciò che è e non ciò che appare); per cui possiamo concludere che il mutare, il divenire, sono illusori; e se la Realtà è - e non può essere diversamente - senza durata, e l'illusione suo contrario (che non significa opposto, badate bene), finisce. 

 

L'illusione quindi, che sarebbe l'apparenza di una realtà, parte della Realtà totale, finisce. Sicché il mutare, il divenire, il tempo, lo spazio e il trasformarsi sono relativi, illusori, e finiscono. E non potrebbe essere diversamente! Un tempo ed uno spazio senza fine sono un assurdo.

 

Solo dove tempo e spazio non esistono possono non esistere limiti ad essi, perché tempo e spazio sono il risultato di limiti e non possono esistere senza di questi.    

 

Quando noi diciamo che il cosmo, che è relativo, dura in eterno non intendiamo dire che l'illusione del « divenire « nel

cosmo non abbia fine, ma che il cosmo nell'Assoluto non può avere un reale inizio né una reale fine. Il cosmo esiste in Dio  in tutte le sue fasi di manifestazione, dall’inizio alla fine nell'eternità del non tempo. Perché, ripeto, un « divenire « che duri un tempo perpetuo, cioè che abbia avuto un inizio e non abbia una fine, è doppiamente impossibile: primo perché un tempo senza fine non può esistere, secondo perché in ogni caso dovrebbe trattarsi di un reale « divenire «, che è inconciliabile con l'immutabilità di Dio.

 

Voi mi ricordate che anche Claudio ci parla del «divenire» dell'uomo: certamente, per  farci capire che l'uomo deve sentirsi un « essere «, non un « divenire «. Voi pensate alle fasi successive della vostra esistenza come a delle promozioni in carriera, come un impiegato può passare a diventare capo ufficio o direttore, cambiando le sue mansioni, ma non il suo « essere «. 

 

Non si raggiunge mai un « nuovo essere « col "divenire". "L'essere" è del "sentire", della coscienza: per voi, del corpo akasico; il "divenire" è del corpo mentale. Voi potreste conoscere tutte le cose che conosce un Maestro, ma questo solo non vi renderebbe tali. 

Solo il "sentire" appartiene alla realtà dell' "essere". Così, quando osserviamo un'esistenza individuale nelle sue fasi comprese dal selvaggio al superuomo, noi non osserviamo un selvaggio che « diviene» superuomo, ma osserviamo le molteplici fasi di esistenza - cioè di "essere" - di quella individualità, e poiché le fasi si susseguono dal più semplice al più complesso, voi dite che l'individuo evolve. Noi pure lo diciamo, le parole sono le stesse ma ciò che vogliono significare è profondamente differente.      

 

Questo sarebbe meraviglioso in politica, ma  siccome noi politici non siamo, quando parliamo vogliamo significare qualcosa; così, quando diciamo che l'individuo evolve 

non intendiamo dire che l'individuo « diviene «. Un'esistenza individuale è già tutta completa in sé, niente può aggiungersi ad essa. Così evolvere non può significare « crescere «, ma può voler dire solo che i differenti « sentire « di quell'individualità si manifestano, vivono l'attimo eterno dell'esistenza. 

Ciò è incomprensibile se si crede che l'emanato si sviluppi in un tempo oggettivo staccato da Dio, vivente una realtà senza tempo. Ecco l'errore fondamentale che ha afflitto le teologie di tutti i tempi e di tutti i popoli. 

 

L'emanato fa parte integrante di Dio, la sua esistenza fa parte dell'esistenza di Dio! Ecco perché non può esservi un reale « divenire « nell'emanazione.

 

Comprendo la vostra difficoltà ad afferrare questi concetti; il mondo che voi osservate è un mondo che sembra in continuo divenire, la realtà che cade sotto i vostri occhi vi pare una realtà che continuamente divenga; ma dovete tenere presente che questo è quello che appare, non quello che è. 

Ecco che cosa andiamo ripetendovi da tempo: la verità non è che  voi osservate un mondo che « diviene «, ma è che voi avete una visione dinamica di un mondo statico. Non è la pianta che cresce, che continuamente « diviene «, che non è più quella che era, ma siete voi che ne osservate in successione le fasi di esistenza, voi che credete che le fasi già osservate non esistano più. Errore! Esistono nell'eternità del non tempo!

 

Vedete, abbiamo cercato di farvi capire che la realtà è tutta diversa dall’apparenza, che il mondo che cade sotto i vostri occhi è un mondo immobile, statico. Cerchiamo di farvi capire che la realtà non è una che « diviene « ma una costituita da molte che sono. 

« Allora - direte voi - dove nasce il movimento? «. L'illusione del  movimento è originata dalla natura del « sentire individuale «, ma, per comprendere ciò, dobbiamo renderci conto una volta per tutte che noi non siamo creati nel senso generalmente accettato, cioè che Dio ci abbia tratto da Se stesso in Se stesso ad un dato punto, o momento, della Sua Esistenza senza tempo. 

Credere a ciò è quanto meno singolare se si riconoscono a Dio i caratteri di Assoluto Infinito Eterno Immutabile. Dunque noi esistiamo in Lui in eterno e possiamo considerarci Suoi figli solo nel senso che facciamo parte di Lui, della Sua Natura; che siamo una conseguenza della Sua Esistenza. Solo in questi termini  noi discendiamo da Lui.

 

Egli è la realtà assoluta, Egli E' Egli sente, Egli è "sentire assoluto".      

Che cosa è lo « spirito «? E' l'essenza del Tutto, è l'essere del Tutto, è l'esistere del Tutto, è il sentire del Tutto; il sentire Assoluto, inteso come « sentire « dell'insieme comprendente il « sentire delle parti «. Noi siamo il « sentire delle parti», che è un  sentire  relativo e molteplice, che è "akasa". Il "sentire delle parti" nasce dall’illusorio  frazionamento dell'Uno-Assoluto nei "molti". 

Perché  illusorio? Se questo frazionamento fosse reale, il Tutto non potrebbe esistere come Dio, allo stesso modo che un oceano considerabile come un insieme di gocce, non esiste più come oceano nel momento che in queste realmente lo si trasformasse. D'altra parte, se non esistesse la molteplicità, il « sentire assoluto « non sarebbe tale, ma sarebbe un « sentire « unico e solo monolite.  

 

Ma come potrebbe, in questa molteplicità, mantenersi l'unità di Dio se ogni « sentire «, dal più semplice al più complesso, non fosse unito all'altro? E come potrebbe realizzarsi  questa unione, questa continuità se non col fatto che il « sentire « più complesso comprende il più semplice?  

Serie di « sentire «, dal più semplice al più complesso, sono le individualità. Ma poiché il sentire  più complesso comprende il più semplice, nell'individuo inteso come momento di questa serie - cioè in noi quali ci sentiamo - nasce l'illusione di provenire "da" di tendere "a", cioè l'illusione dello scorrere; ma poiché il "sentire" più complesso è il "sentire assoluto" che comprende e riassume in Sé ogni "sentire" fino ai più semplici, questa illusione sfocia nella realtà di Dio.

 

Noi quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, esistiamo solo nell'illusione, nell'illusione della separatività. In realtà esiste solo Lui. Ma poiché Lui è "sentire assoluto" che comprende e riassume in Sé ogni « sentire «, ciò garantisce che la nostra esistenza non finisce col finire dell'illusione. 

 

Ripeto: il fatto che il « sentire « più complesso comprende il più semplice, genera nell'individuo l'illusione di provenire "da" e di tendere "a" e nella sua mente l'illusione del divenire, ma è lo stesso fatto che realizza l'unità del Tutto unendo, come un filo, tante perle in collane: « sentire « elementari corrispondenti  sensitività di piante e di animali, a « sentire « più complessi corrispondenti a visioni limitate e circoscritte della Realtà come sono nell'uomo, e poi a sentire sempre più complessi corrispondenti a visioni sempre più ampie e poi a "comunioni" sempre più estese fin oltre l'ultimo scorrere, l'ultima separazione: l'identificazione in Dio.

 

Come il selvaggio non diviene Santo, ma l'uno e l'altro fanno parte di una stessa individualità, così noi, quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, non comprenderemo mai Dio, ma facciamo parte di un'esistenza che in Lui si identifica. Il rapporto che esiste fra noi e la nostra individualità, è lo stesso che esiste fra la nostra individualità e Lui, e come il "sentire dell'individualità" è il  sentire "tutti i sentire individuali al di là della successione, così il "sentire assoluto" comprende il sentire di tutte le individualità al di là della separazione.

 

Ma il vero senso di queste parole traspare se si comprende che in Lui non può esservi distinzione: "io"-"non io" che in Lui non può staccarsi o giungere o tornare qualcuno perché Egli è in Realtà Eterno ed Indiviso Essere.

 

Come spiegare più chiaramente ciò, Padre? Questo Tuo essere tutti noi che ci conduce a riconoscerci in Te? Come dirlo, se nel momento che Ti chiamo, o quando Ti penso, non chiamo Te e non penso a Te, perché Tu non sei quello che riesco a pensare? Le parole non servono, perché appartengono ad un mondo che si fonda su ciò che sembra e Tu Sei. La nostra mente ci fa credere un "io" separato e Tu sei un Tutto-Uno-Assoluto. Il nostro sentimento ci assoggetta all'illusione del trascorrere e Tu sei la Realtà che non conosce sequenza.

 

Come avvicinarci a questa Realtà, se non abbiamo il coraggio di rinunciare a credere che l' "io " sopravvive? Noi quali ci sentiamo non siamo immortali, la nostra consapevolezza finisce per lasciar posto ad un'altra più grande consapevolezza, fino a che sentiamo che Tu solo esisti, che Tu solo sei la Realtà. Ma neppure questa è l'ultimo "sentire", è l'ultimo dell'illusione. Oltre è l'Eterna Realtà del Tuo Essere, di fronte alla quale solo il silenzio è giusta voce.

 

 

 

Finalità del divenire

 

(aprile 1975)

 

 

Vorrei sottolineare il fatto che per gli Eleati, non solo, ma anche per gli Atomisti e, perché no, per gli Epicurei - visto che gli Epicurei recepivano il pensiero degli Atomisti per quanto si riferiva alla materia - l'essere e il divenire hanno, direi, una stessa dimensione, una stessa estensione. Mi spiego: in qualunque punto l'essere deve in qualche modo apparire come divenire. Ecco, una grande differenza che esiste è che noi diciamo che l'essere - cioè la realtà - comprende il manifestato e il non-manifestato e che il divenire appartiene alla manifestazione. Quindi contesterei, in un certo senso, l'interpretazione del « non essere « eguale « divenire «.      

Un'altra cosa che a parer mio è assai importante e che occorre sottolineare è la finalità del divenire: per noi il divenire ha una grandissima finalità, cioè quella di condurre le creature dall’illusione alla realtà dell'essere, e questo  non ha bisogno di commenti.  

 

Un capitolo a parte lo merita poi lo spazio, al di là dei giochetti di Zenone, che però non debbono essere sottovalutati

perché mostrano ancora chiaramente l'inconciliabilità di due concetti e cioè: quello dell'infinita divisibilità e del movimento. Ora questo concetto dell'infinita divisibilità era all'ordine del giorno dei filosofi di quelle epoche, perché così si ragionava: infinitamente divisibile è eguale « divenire «, è eguale « illusione «, indivisibile eguale

« essere «, eguale realtà. 

Così, per esempio, Anassagora diceva che la materia era infinitamente divisibile, mentre Democrito, o forse Leucippo se è esistito (perché taluno lo pone in dubbio), diceva invece che la materia non era infinitamente divisibile (e questo tutti gli Atomisti) perché, procedendo nelle suddivisioni, ad un certo momento si sarebbe incappati in questa particella - l'atomo, per l'appunto - che era indivisibile, formata di vuoto e di un corpuscolo talmente sottile da essere impercettibile. 

 

Grande intuizione quella di Leucippo, di Democrito, degli Atomisti! Grandissima! Perché, vedete, oggi voi sapete dalla vostra scienza che l'atomo è scomponibile e quindi forse potete pensare che l'intuizione di Democrito sia stata errata; ma noi dobbiamo tenere presente che l'atomo di Dalton o di Avogadro non è l'atomo degli Atomisti. 

Come ragionò Dalton? Vide la materia, pensò che era composta di sostanze, chimicamente parlando, cioè l'associazione di più elementi chimici, e pensò ancora che, suddividendo, doveva raggiungersi un punto in cui queste sostanze erano scisse negli elementi costituenti. E che dividendo ancora questi elementi doveva raggiungersi un punto in cui la materia fisica - la materia, quella che cade sotto i vostri sensi - avrebbe perduto tutte le caratteristiche fisiche e chimiche organolettiche. 

 

Chiamò allora quel punto « atomo « rifacendosi proprio agli Atomisti. Se poi la scienza atomica ha dimostrato che l'atomo della fisica e della chimica è un atomo che si suddivide ulteriormente, che cosa significa questo? Significa che quello non è l'atomo degli Atomisti. E' chiaro! Non è un sofisma questo ragionamento, e noi non dobbiamo certamente rimanere stupiti di questa grande intuizione, ammesso che sia veramente intuizione. Un'altra mente, grandemente intuitiva, 

 

Einstein, rimase egli stesso meravigliato: in un suo scritto del 1950, così parlava appunto degli Atomisti e diceva: « Come avrà fatto  Leucippo ad avere questa intuizione? Molto probabilmente avrà osservato l'acqua trasformarsi in ghiaccio e poi di nuovo in acqua, senza che queste trasformazioni apportassero - come in effetti è - una trasformazione della sostanza acqua, e di qui avrà immaginato che lo stesso può e deve avvenite per tutti gli oggetti che mostrano caratteristiche  direi quasi costanti nel tempo, immutabili «.

 

E se Einstein avesse continuato sul filo del ragionamento di Leucippo sarebbe certamente incappato nella comprensione, per la sua grande intuizione, della verità dei fotogrammi. - Con questo non vogliamo far dire, a chi non ha detto, cose che noi diciamo -. Solo per mostrarvi quanta ammirazione vi sia stata per queste intuizioni degli Atomisti.

 

Dunque queste due categorie: infinita divisibilità, eguale "divenire", eguale "illusione": indivisibilità eguale "essere".

 

Perché la materia, per Democrito, era divisibile relativamente ed invece - per esempio per Zenone - lo spazio era infinitamente divisibile? E' chiaro: perché lo spazio era considerato « vuoto «, era uno spazio della geometria euclidea. 

Non di quell'Euclide che voleva conciliare l'insegnamento degli Eleati con la moralità di Socrate; l'altro Euclide, proprio quello della geometria, e per questo anche i filosofi successivi della scuola Atomistica dicevano che la materia era certamente, relativamente divisibile, ma lo spazio era infinitamente divisibile perché, appunto, c'era questa concezione dello spazio vuoto. 

 

Allora se dovessimo noi fare un paragone del nostro concetto di spazio, come lo vediamo noi - che incidentalmente corrisponde a come in realtà è - dove collocheremmo questo spazio? Nell'infinitamente divisibile o nell'indivisibile? Dovremmo collocarlo nella categoria della materia, cioè nel relativamente divisibile perché, in effetti, non esiste uno spazio vuoto: lo spazio è un attributo della materia. 

La vostra stessa scienza umana credo che sia orientata in questo senso, passando dal concetto dello spazio vuoto di Euclide al concetto del « campo «, cioè del luogo dove si esercitano le forze, a concetti più complessi. 

 

Voi certo non potete fare il paragone che io ho fatto perché non avevamo mai fornito degli elementi così chiari circa lo spazio. Ma certamente il fine di queste nostre conversazioni è quello di andare sempre avanti e di approfondire sempre più.      

 

Può darsi che l'uomo non possa mai comprendere Dio, tuttavia questa opinione non lo esonera dal meditare su questo argomento, non fosse altro per capire come Dio non può essere. E può darsi anche che questa meditazione non sia di grande valore per l'uomo, ma certo si è che se noi vogliamo capire la realtà nella quale viviamo e che cerchiamo di affrontare da diversi punti di vista ottenendo un bagaglio di pensieri e conoscenze  chiamato cultura, non possiamo prescindere dall’idea di Dio. 

 

Io sono fermamente convinto che l'uomo di media cultura di questa civiltà, con gli strumenti che ha a sua disposizione, cioè le sue conoscenze e la sua intelligenza, possa farsi un'idea di Dio che non sia un oltraggio alla ragione e che, al tempo stesso, sia aderente alla realtà.      

 

Allora, per verificare questa mia convinzione, mi calerò nei panni di un siffatto uomo e cercherò di capire se egli può ragionevolmente credere a Dio. In questa epoca di grande razionalità forse non può esservi la prova provata, palmare, incontrovertibile dell'esistenza di Dio, tuttavia - lo ripeto - voi avete il dovere di capire, sulla base delle vostre conoscenze e con la vostra intelligenza, a quale Dio potete credere. Non dovete più dire: « Io credo perché ho fede! «. Dovete certamente conservare la vostra fede, ma dovete, per quanto possibile, documentarla con argomenti ragionevoli, che resistano ad una logica critica. 

 

Allora, siccome a Dio si fa risalire l'origine di tutto quanto esiste, prima di credere che Dio esista è lecito che io, uomo di questa civiltà, mi domandi se l'Esistente ha avuto un'origine, oppure non sia esistito da sempre; che parta cioè dalla posizione dei cosiddetti atei e mi ponga come ipotesi di lavoro che la realtà nella quale siamo immersi sia perfettamente materiale e che non sia stata originata, cioè sia esistita da sempre. 

E' chiaro che in questo caso non avrebbe una fine, perché ciò che fosse esistito da sempre non potrebbe cessate di esistere. Io posso immaginare che una civiltà distrugga se stessa ma non che la materia, posta  come unica realtà esistente, cessi di esistere.  

 

Se invece posso ragionevolmente credere che il cosmo - ossia l'insieme degli universi - finisca consumato dalla sua stessa esistenza, allora è chiaro che ha avuto un'origine, e se ha avuto un'origine è altrettanto chiaro che tutto quanto è esistito, esiste, esisterà, non è tutto in senso assoluto, perché, oltre quello, esiste per lo meno una causa generatrice, cioè una causa che era prima che l'esistente fosse. Vedremo poi quali considerazioni potrò fare su questa causa.     

 

Allora, so che le osservazioni sistematiche degli astronomi moderni hanno portato alla constatazione che viviamo in un cosmo in espansione, cioè che gli universi si allontanano gli uni dagli altri e da un centro dello spazio, centro ideale, ovviamente. Sulla base di questi dati di fatto incontrovertibili, sono nate due principali ipotesi per spiegare l'origine e lo sviluppo del moto di traslazione degli universi: entrambe le ipotesi concordano sull'origine che sarebbe la conseguenza di un'esplosione avvenuta in questo punto ideale, in questo centro ideale del cosmo. 

 

Esse divergono, invece, sullo sviluppo. Infatti, secondo la prima, la materia che compone i corpi stellari, quando questi hanno raggiunto una velocità critica di allontanamento dal centro si smaterializzerebbe e causerebbe così la graduale, ma totale fine del cosmo astronomico.      

 

Ora per pochi istanti mi sia consentito tornare nei miei panni  di disincarnato, per osservare che questa ipotesi è perfettamente azzeccata, come lo dimostra la formula einsteniana - azzeccata anche quella - secondo cui la massa di un corpo in movimento è eguale alla massa dello stesso corpo a riposo, diviso la radice quadrata di uno, meno il quadrato della velocità a cui è sottoposto il corpo, diviso il quadrato della velocità della luce. Einstein chiama questa velocità critica "velocità della luce". 

La pone, la identifica, non ha importanza. Pone che la velocità a cui è sottoposto il corpo - nel nostro caso la velocità di traslazione di questi sistemi stellari che si espandono - raggiunga la velocità della luce, ossia una velocità critica e vedete, voi matematici, che cosa succede della massa del corpo in movimento secondo questa formula. Tenga presente ciò l'astrofisico Allan Sandage che ipotizza un cosmo in perenne espansione, in barba alla matematica.      

 

Detto questo, chiudo la parentesi e torno nei panni di incarnato a esaminare le ipotesi di cui dicevo. Secondo l'altra ipotesi, invece, gli universi - raggiunto un punto dello spazio - invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi neI punto ideale dal quale partirono e dove, a seguito di una nuova esplosione, nuovamente ripartirebbero e così via. 

 

Ora, noi intanto possiamo osservare che il limite dove, secondo la prima ipotesi, la materia che compone i corpi stellari si smaterializzerebbe, o, nell'altra ipotesi, che gli universi invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi nel punto ideale centrale, sarebbe in ogni caso un limite al Cosmo, anche se lo spazio fosse di tipo euclideo, cioè infinito e indipendente dalla materia. 

 

Dunque secondo l'una e l'altra ipotesi, il Cosmo sarebbe limitato e necessariamente di forma sferoidale (anche secondo la teoria della relatività generale, si perviene a pensare che lo spazio sia curvo). 

Ora, ciò che è limitato non può avere una durata illimitata, e questo mi basterebbe per concludere che se il cosmo finisce, è chiaro che ha avuto un'origine e quindi una causa. 

Ma io preferisco invece proseguire nell' esame delle due ipotesi per vedere se mi conducono ad una diversa conclusione. 

 

Ripeto: secondo la prima, il destino del cosmo astronomico sarebbe la graduale ma totale fine per smaterializzazione; secondo l'altra sarebbe una sorta di moto perpetuo,  di andirivieni dal centro alla periferia di questi corpi celesti, di questi universi.  

 

Ora, se io mi reputo un ateo serio e coerente, debbo prendere in considerazione solo la seconda ipotesi perché, come ho detto prima, se ammetto la prima ammetto la fine del cosmo e quindi l'inizio e quindi la causa; debbo invece vedere se posso ragionevolmente credere che il cosmo sia una sorta di perenne « pulsazione «, un moto perpetuo di questi corpi celesti, oppure una trasformazione continua della materia che lo compone. 

Il « nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma «, sembrerebbe confermare questa ipotesi.

 

Ora io so che il principio della conservazione della massa, dichiarato universalmente valido dalla meccanica classica, ed il principio di conservazione dell'energia - visto che si è scoperta la relazione che lega la massa all'energia - sono stati invece smentiti - direi in modo dirompente - dalla scoperta dell'energia atomica. Non solo, ma anche più recentemente, dall’esame di certi fenomeni che avvengono nello spazio intergalattico. 

 

Ora, la mia cultura, non specialistica, di uomo medio di questa civiltà, non mi consente di addentrarmi con osservazioni scientifiche nell'esame di eventi cosmici, è chiaro. Però posso  capire dai fatti con cui mi scontro tutti i giorni, un principio molto importante per me, e cioè che per fare un lavoro ci vuole energia, e che nessuna macchina e nessun sistema produrrà mai più energia di quanta ne consumi, altrimenti il moto perpetuo non sarebbe un assurdo meccanico.

 

Vedete, noi possiamo immaginare in teoria, che so... un moto rettilineo uniformemente accelerato che prosegua all'infinito; oppure immaginare un gas che non divenga mai l'omonimo liquido a qualunque pressione e raffreddamento sia sottoposto, il gas vero di Gay Lussac. Oppure credere nello spazio come lo postula la meccanica classica che abbiamo rammentata prima: cioè uno spazio tridimensionale, infinito, vuoto, permeabile dalla materia, indeformabile e tutto quello che volete. Ma tutte queste sono favole, non corrispondono alla realtà fisica perché la realtà fisica è diversa dal mondo delle astrazioni.       

 

Lo spazio sembra più simile - quello esistente, s'intende - a quello postulato dalla teoria della relatività generale che nega l'esistenza di uno spazio vuoto, infinito, indeformabile, immutabile; che nega che il tempo e lo spazio siano assoluti ed oggettivi e pone che lo spazio sia una sorta di emanazione della materia e che il tempo sia la quarta dimensione dello spazio. Tanto che le scoperte scientifiche che via via si registrano, sembrano confermare questa teoria; difatti, alle leggi della meccanica classica la scienza umana non dà più un valore assoluto, ma semplicemente un valore di prima approssimazione.

 

Allora, tornando alla mia teoria, mi pare che io possa pensare  con ragione che se anche questo moto di va e vieni dal centro alla periferia dei sistemi stellari si ripetesse indefinitamente, l'energia necessaria a questo moto - ancorché si rigenerasse in qualche modo, magari a spese della massa della materia - non si rigenererebbe mai in misura totale, per cui a lungo andare sarebbe la stasi, cesserebbe il moto del cosmo.

 

Che poi questa stasi riguardi il divenire della materia o la materia in se stessa, per l'aspetto che mi sono posto del problema non fa alcuna differenza perché pervengo a concludere che se il divenire cessa, vuol dire che ha avuto un inizio ed una causa e questo mi basta. 

 

Tuttavia mi sembra più logico pensare che, se cessa il moto in seno al cosmo, non cessa solo il moto di traslazione degli universi, ma cessa il moto delle particelle e dei corpuscoli in seno alla materia, e quindi cessa la materia, e cessa lo spazio emanazione della materia, e cessa il tempo dimensione dello spazio. 

Dunque tutto mi pare che mi porti ragionevolmente a credere che il cosmo, per quanto immenso possa apparire, è limitato e destinato a finire, con la materia che lo compone, con lo spazio ed il tempo in cui sono localizzati gli eventi cosmici. Se il cosmo finisce è chiaro che ha avuto un inizio e se ha avuto un inizio è chiaro che deve esistere una causa generatrice. 

Vedremo la prossima volta quali considerazioni possiamo fare su questa causa.     

 

Detto questo, torno allora nella mia più comoda posizione di disincarnato per dire alcune cose che mi sono tornate in mente - come si suol dire - mentre vi parlavo poco fa. E cioè, voi sapete che noi abbiamo parlato del cosmo come dell'ambiente l'ambiente della manifestazione, e che la manifestazione comprende due momenti: l'emanazione ed il riassorbimento. 

 

Quand'è che finisce l'emanazione e comincia il riassorbimento? Noi possiamo fissare convenzionalmente questo momento quando è manifestato l'ultimo piano, il più denso, il piano fisico. E noi abbiamo visto che l'inizio del cosmo, quindi del piano fisico, è nato con un'esplosione della materia nel centro ideale dell'ambiente cosmico-astronomico. Da quel momento noi possiamo cominciare a fissare convenzionalmente l'inizio del riassorbimento.

 

Quand'è che cessa il riassorbimento nel piano fisico? Quando l'ultima materia del piano giungerà al limite massimo dell'area cosmica e l'ultima materia sarà smaterializzata.

 

Intanto debbo dirvi che questo che io sto dicendo è la storia che si vede leggendo i fotogrammi che riguardano la vita macrocosmica ma che non sono assolutamente eventi oggettivi.      

Adesso, in questo momento, noi stiamo seguendo la vita macrocosmica leggendo i relativi fotogrammi e vediamo questa storia. Ecco, allora viene fatto di domandarci: « Come mai gli astronomi che sono così avanti nelle loro osservazioni, che giungono a percepire energie che da Nova, da altre fonti lontanissime nello spazio stellare, non percepiscono l'enorme energia che si dovrebbe manifestare in questo limite alla circonferenza del cosmo? «.   

 

Possiamo fare tre ipotesi:   

Prima ipotesi: che ancora nessuna materia, cioè nessun corpo stellare, nessun universo, sia giunto, abbia raggiunto quella velocità critica necessaria alla smaterializzazione e quindi abbia raggiunto il limite esterno del cosmo fisico.    

 

Seconda ipotesi: che qualche universo abbia raggiunto quel limite, ma che questo limite sia tanto lontano dalla nostra Terra che ancora l'onda che dovrebbe portare l'energia, la percezione di questo fenomeno grandioso, non sia arrivata ancora alla Terra.     

 

Terza ipotesi (che è quella vera): che quando la materia si smaterializza per il raggiungimento della velocità critica di cui parlavo prima, l'evento oltrepassa la dimensione fisica, oltrepassa lo spazio fisico: siamo in un altro mondo e quindi, dal punto di vista del piano fisico, è il silenzio. Cioè, sparisce la materia, sparisce lo spazio, sparisce la possibilità di comunicare da quell'evento a chi è nello spazio antecedente.      

 

Che cosa accade, quindi, nel piano astrale che è la dimensione immediatamente più sottile ? Noi abbiamo visto che il riassorbimento nel piano fisico consiste nella migrazione della materia dal centro alla periferia del cosmo; nel piano astrale il movimento è perfettamente l'opposto; dalla periferia l'energia si ritrae, si concentra nel centro ideale.    

Il piano mentale è analogo al piano fisico: la mente che si spersonalizza, si espande, raggiunge la periferia.

Il piano akasico è simile al piano astrale, cioè la rifrazione del « sentire « in un unico punto.     

Nel piano spirituale, il  Logos - centro di questo piano - che si espande, torna nell'indifferenziazione.

 

Vedete come, in fondo, questi movimenti caratterizzino un po' il destino degli individui: la mente che si spersonalizza, l'energia che si ritrae, il sentire che si fonde in una comunione unica, il Logos che torna alla vastità del Tutto.       

 

Dopo aver detto tutte queste cose, ho il dovere di avvertirvi e di dirvi che per farci capire da voi noi ci serviamo di immagini di comodo, salvo poi a mettere in evidenza tutti i limiti.    

 

Una di queste è il cosmo presentato come un'enorme sfera,  contenente tutte le materie di diversa sottigliezza che costituiscono i piani di esistenza, coesistenti senza possibilità di interferenze dannose, in un ambiente in qualche modo oggettivo.

 

Questa immagine serve molto bene per farci capire la coesistenza dei piani di esistenza, per farci capire come il grossolano possa compenetrarsi con il sottile e come i piani di esistenza non siano differenti ubicazioni spaziali, ma diverse identità materiali comprendenti tutte le forme di vita che sono proprie alle singole densità. Tuttavia questa immagine non rende tutta la verità, anche se può sembrarlo. 

Se voi domandaste ad un'entità del piano astrale che stesse ascoltandoci questa sera, dov'è, essa vi direbbe che è qui fra voi, in un dato punto della stanza, confermando in qualche modo con questa sua asserzione, l'esistenza di uno spazio oggettivo, contenente in tutti i punti della sua estensione i diversi piani di esistenza.

 

Io vorrei invece farvi capire che se un' entità rivestita di un corpo astrale - e qui uso ancora un immagine di comodo - vi potesse vedere, ciò non sarebbe dovuto al fatto che divide il vostro spazio e quindi, potendo percepire il più sottile necessariamente dovrebbe percepire il più grossolano, ma per un'altra ragione. 

Infatti se voi, abitanti del piano fisico, aveste la possibilità di vedere la materia al livello più sottile, livello atomico, voi non vedreste più gli oggetti che vedete, ma vedreste unicamente un ammasso di atomi come un cielo stellato in una notte serena. 

E non basterebbe la diversa densità spazio, il diverso numero di atomi fra gli atomi che costituiscono l'aria e gli atomi che costituiscono i corpi a farvi percepire gli oggetti: difatti la scarsa visibilità degli ambienti nebbiosi non è dovuta ad una variazione del rapporto consueto, ma è dovuta semplicemente alla circostanza che l'atmosfera diventa opaca alla luce, per cui una  visione a livello atomico si arresterebbe su una muraglia di atomi. Così come se voi foste, nelle vostre attuali condizioni, immersi in una fittissima nebbia, la vostra visione si arresterebbe sulle infinite minutissime gocce di vapore acqueo; così sarebbe la visione, immaginate poi la visione nel piano astrale. 

 

Con tutto questo intendo dire che se una entità del piano astrale può percepire il piano fisico, non è - ripeto - perché condivida lo stesso spazio, ma per un'altra ragione che questa sera non ci interessa esaminare.

 

Questa immagine del cosmo come un'enorme sfera, dunque, se ha il pregio di farci capire che i piani di esistenza non sono tanti cieli o inferni danteschi, ha tuttavia il difetto di lasciarci credere in uno spazio oggettivo. 

 

Ora noi abbiamo ricordato questa sera che qualcuno considera lo spazio come una sorta di emanazione della materia; ciò è molto se riesce a staccarsi dal concetto del vecchio spazio euclideo, quello della geometria e della meccanica classica. Ma non è abbastanza se, per capire che non esiste uno spazio vuoto, noi pensiamo ad uno spazio tutto pieno di materia. Allora vogliamo servirci di un'altra immagine di comodo, un altro esempio. 

Supponiamo che voi siate in un ambiente lontano da questo, completamente al buio, e che invece siate collegati con questo ambiente - in quel momento perfettamente illuminato - con una macchina modernissima che riproduca attorno a voi, in tre dimensioni, questa stanza. 

Dopo qualche tempo voi avreste la netta sensazione di trovarvi qui, esattamente nel punto dove sarebbe collocato l'elemento sensibile per riprendere la scena. 

Ancora una volta i vostri sensi vi avrebbero tratto in inganno. Un inganno irrilevante nei rapporti fra voi e i presenti in questa stanza, ma un inganno che occorrerebbe svelare ed esattamente ridimensionare nel momento in cui noi volessimo comprendere la realtà di ciò che è.

 

 

 

A quel Dio credere

 

(maggio 1975)

 

 

Avete parlato questa sera del problema degli atei da noi introdotto. Sì, in effetti possiamo dire che non molti degli uomini che sono incarnati sulla Terra sono degli atei. Ma vi sarebbero da dire molte cose a questo riguardo che occuperebbero gran parte della possibilità nella nostra comunicazione. 

Voglio solo farvi riflettere su un'affermazione e precisamente quella « Io credo che vi sia un solo Dio «. Ma il credere questo e l'affermare questo, comporta necessariamente una serie di altre, conseguenti nella logica e nella necessità, affermazioni. 

Dire: « Io credo in un solo Dio», significa dire: « Io credo in una sola realtà «. Cioè che può esistere un'unica Realtà e che tutto quanto esiste non può che far parte di essa, cioè di Dio.

 

Lo stesso mondo nel quale voi e noi viviamo, fanno parte di questa Realtà, perché nel momento che ne fossero avulsi, non vi sarebbe più una sola Realtà, ma più di una. A meno che noi non ammettessimo che le molte realtà che possono esistere, in effetti sono parti di una stessa Realtà ed è proprio quello che noi vogliamo affermare. Dire quindi che esiste un

solo Dio significa, necessariamente, ammettere che esiste una sola Realtà e necessariamente ammettere che Dio è illimitato, infinito, completo, perfetto. 

 

Vedrò di spiegarmi meglio, se è possibile.      

Nel mondo che voi percepite, un oggetto è distinto da ciò che non è l'oggetto, ma nel momento che io facessi sparire tutto quanto esiste - tranne un solo qualsiasi oggetto ed ovviamente me compreso - l'oggetto diverrebbe l'unica realtà esistente e non esistendo alcuna cosa che lo limiterebbe, diverrebbe illimitato. E se lo spazio fosse un attributo dell'oggetto,  l'unico spazio che esisterebbe sarebbe quello occupato dall’oggetto; perciò l'oggetto, occupando tutto lo spazio esistente, diverrebbe infinito.

 

Se noi ci soffermiamo sul concetto dell'unica Realtà e con la nostra mente cerchiamo di capire che cosa esiste oltre, questa unica Realtà, la nostra mente abituata a ragionare in un certo modo, ci fa rispondere automaticamente: il nulla. Ma in effetti la domanda non ha senso perché esula dal postulato, e cioè che la realtà sia l'unica cosa esistente.  Quindi, se non si pone la domanda, non possiamo chiederci che cosa esiste oltre quella realtà. E' l'unica cosa esistente. 

 

Allo stesso modo Dio, se è l'unica realtà esistente, è necessariamente illimitato ed infinito e, per la stessa ragione, Egli è indivisibile. Se infatti si dividesse realmente, la Sua creazione non sarebbe più l'unica Realtà esistente e Dio non sarebbe più illimitato perché verrebbe limitato dalla Sua stessa creazione. Cioè esisterebbe Dio ed esisterebbe la Sua creazione che in qualche modo lo definirebbe, lo delimiterebbe.         

 

A meno che, ripeto, non veniamo nell'affermazione che noi stessi vogliamo enunciare, e cioè: che ogni realtà, in effetti, fa parte di una sola Realtà: Dio. 

 

Perciò il percepire noi stessi ed il mondo nel quale viviamo come avulsi da Dio, è una percezione errata, illusoria. Ma anche nel gioco di questa illusione, ogni parte risultante da un non reale frazionamento di Dio, non può che essere limitata e finita. E se Egli è l'Assoluto assolutamente indivisibile, ogni Sua parte risultante da un virtuale frazionamento, non può che essere il relativo, relativamente divisibile. 

Perciò ogni Manifestazione cosmica è relativamente divisibile. Ciò è vero per il tempo, lo spazio, la materia, gli esseri della Manifestazione. 

 

Infatti, se per esempio lo spazio fosse assolutamente indivisibile, si identificherebbe con Dio; e se fosse infinitamente divisibile si identificherebbe con il "vuoto", con il "nulla".  

Ma il concetto di spazio è legato al concetto di estensione, ed il concetto di estensione è legato al concetto di materia, perciò non può esistere uno spazio che non sia legato in qualche modo alla materia; non può esistere uno spazio vuoto assolutamente, perché se anche questo spazio esistesse non potrebbe avere alcuna dimensione, alcuna concretezza, alcuna entità.    

 

Lo stesso principio di relativa divisibilità fa sì che gli esseri della manifestazione cosmica, cioè noi, siano:

1) - nella loro teoria di « sentire « susseguenti l'uno all'altro in numero finito: cioè i vari sentire che sono noi, che sono il nostro essere, sono in numero finito e ciò garantisce l'identificazione in Dio di tutti gli esseri.

 

2) - se gli esseri della manifestazione cosmica sono in numero finito, neppure le manifestazioni sono infinite, né come numero né come estensione perché, se lo fossero, Dio sarebbe unicamente manifestazione e noi sappiamo che Egli è il manifestato e il non manifestato; perciò, se noi potessimo sommare tutti gli esseri di ogni manifestazione - e non è possibile perché nel momento in cui io prendo in considerazione una manifestazione quella e quella sola esiste - il numero che si otterrebbe sarebbe un numero indefinito, cioè suscettibile di accrescersi fino a che continuassi a sommare, ma mai infinito.

 

Di infinito non c'è che Lui, cioè Dio.

Questa sera voi avete parlato della formula di Einstein che si riferisce alla determinazione della massa di un corpo in movimento. Lo dico anche perché, secondo taluni, la massa di un corpo in movimento diverrebbe infinita quando la velocità del corpo divenisse eguale ad una posta velocità critica. 

 

Ecco, noi possiamo dire invece con certezza che a mano a mano che crescerebbe, o che cresce, la velocità a cui è sottoposto il corpo, la massa tende all'infinito, ma nel momento in cui dovrebbe divenire infinita, cioè nel momento in cui la velocità a cui è sottoposto il corpo si identifica con la velocità critica che Einstein pose nella velocità della luce - ma non è necessariamente quella -, in quel momento la formula si traduce in una forma indeterminata della matematica, quale per esempio: zero diviso zero, infinito meno infinito, uno all'infinito, è vero? Cioè una di quelle formule dette « indeterminate «. 

 

Il De L'Hopital cercò, con un suo artifizio, di riportare a valori determinati certe forme indeterminate, ma questo non ci interessa. Certo è che il cosmo, per quanto immenso possa  apparire, è limitato e finito come ogni frazionamento virtuale dell'Assoluto; e ciò che è limitato e finito non può contenere alcunché di infinito. 

Perciò abbandoniamo il concetto dell'infinita emanazione di « spiriti « in Dio, buono a farci capire la vastità, l'incommensurabilità dell'Assoluto, ma non a farci intendere che l'atto di creazione di Dio sia in effetti  un continuo « divenire «, un continuo manifestarsi. 

Sappiamo che ciò che noi vediamo muoversi, accrescersi, avere un inizio ed una fine in realtà non è un evento oggettivo, è un evento illusorio. 

 

Perciò un'altra immagine distrutta e un altro velo  sollevato. Non so se avete fatto caso che il nostro parlare assomiglia in qualche modo alla « danza dei veli «. Un primo velo cadde quando vi parlammo per spiegarvi che l'apparente confusione, ingiustizia, dolore del mondo nel quale vivete, in realtà facciano parte di un ordine sommo, di una mirabile perfezione: l'evoluzione, la legge di causa e di effetto, di reincarnazione sono tutte verità sulle quali poggia il perfetto equilibrio dell'Esistente.  

 

Ma chi credesse di appagare la sete di sapere degli uomini dando loro le risposte a certe domande che si fanno, sarebbe un ingenuo e questo è una fortuna per tutti perché assicura un progresso. Così se alcuni interrogativi vennero subito soddisfatti, altri ne sorsero, perché vi chiedeste: « E come è conciliabile la mutabilità dei mondi sensibili con l'immutabilità dell'Assoluto? «. E via, da qui la necessità di alzare un altro velo.      

 

Parlammo allora della non contemporaneità che esiste fra certi « sentire « legati ad una stessa serie di fotogrammi. Contemporaneità che esiste in assoluto fra « sentire « analoghi, e non potrebbe essere diversamente.

Ciò che è analogo e che esiste al di là del vostro tempo e del vostro spazio, vibra simultaneamente e in modo indipendente  da questi. E se tale verità non appare nei piani fisico, astrale e mentale, appare invece in modo inequivocabile nel piano akasico o del « sentire «.

 

Mi rimane un ultimo argomento da concludere, quello che iniziammo la scorsa volta: io espressi la mia convinzione che  

l'uomo di media cultura della vostra civiltà, con i mezzi di cui dispone, cioè la  sua intelligenza e le sue conoscenze, può credere a Dio senza fare alcuna affermazione fideistica; e per controllare questa mia convinzione mi calai nei panni di un siffatto uomo. 

Naturalmente le mie sono affermazioni ipotetiche, ma se esse si fondano su dati di fatto e sulla logica, posso tenerle in considerazione fino a che non siano smentite in qualche modo; ciò non è contrario né alla ragione né alla scienza positiva. 

 

Per convincersi di questo basta pensare che la concezione atomica della materia è un'ipotesi di questo tipo e voi tutti siete a conoscenza di quanta strada sia stata fatta dalla scienza positiva con  questa concezione.      

Se io identifico la « prima causa « con Dio, potendo credere che l'Esistente ha una causa come vedemmo la scorsa volta, fino da ora potrei ammettere l'esistenza di Dio. 

 

Però preferisco ragionare su questa « causa « per vedere  in quale Dio posso credere. Voi udrete cose già dette - non è la prima volta che parliamo di Dio - ma se le ripetiamo è per dimostrare in qualche modo che, anche stando nella vostra posizione, si può pervenire a quella idea di Dio alla quale perveniamo noi con diverso metodo. Perciò facciamoci coraggio e proseguiamo. Eravamo rimasti alla  « causa «.

 

La « prima causa «, antecedente al tempo, allo spazio, alla materia, deve essere necessariamente diversa da tutto quanto cade sotto la nostra attenzione nel mondo del finito, del limitato, del transirorio. Posso immaginare che il rapporto che esiste fra questa prima causa e il causato, non è lo stesso che esiste fra causa ed effetto nello spazio-tempo. 

Anche senza addentrarci in considerazioni sul rapporto che esiste fra causa edeffetto, nella realtà fisica - che per altro, badate bene, è messo in dubbio da taluni che non lo ritengono realmente esistente, ma lo ritengono frutto della nostra abitudine a considerare costanti i legami  fra certi fenomeni osservati -, posso capire che causa ed effetto, azione e reazione quali la scienza li coglie, sono eventi spazio-temporali, che appartengono cioè ad un dato tipo di realtà, ma che di tutt'altra natura deve essere il rapporto che lega questi tipi di realtà con ciò che ne ha determinato l'esistenza. 

 

Perciò io, solo per comodità di linguaggio chiamo « prima causa « la realtà antecedente alla Realtà Esistente, tenendo presente che il rapporto che esiste tra queste è tutto da determinare. Allora, con questa premessa, posso continuare nelle mie considerazioni.  

 

La causa del Tutto, cioè la « prima causa «, deve essere indipendente da tutto. Non deve dipendere da alcunché; cioè deve essere la "prima causa increata", altrimenti dovrei spostare il mio esame fino a trovare la causa esistita da sempre. 

 

Ora, poiché siamo al di fuori del tempo e dello spazio, mi pare opportuna una precisazione, cioè sostituire l'avverbio di tempo « sempre « con un vocabolo più adatto e questo è: « eternamente «, perché nel linguaggio comune - io non voglio improvvisarmi filologo - ma nel linguaggio comune si confonde il significato di « eterno « con quello di perpetuo e di perenne.

Noi intendiamo per "eterno": senza tempo. Mentre perpetuo è qualcosa che ha avuto un inizio e che continua in un supposto tempo senza fine: perenne che non si esaurisce mai, è vero? Intendiamoci sui vocaboli!  

 

Dunque la "prima causa" è eterna. Se è eterna - cioè senza tempo perché ovviamente siamo al di là del tempo e dello spazio - è immutabile, perché se mutasse avrebbe in qualche modo  una successione. Poi deve essere assoluta, cioè indipendente da tutto altrimenti non sarebbe "prima causa".

 

Se è eterna, immutabile, assoluta, deve essere una. Se è una è tutto quanto esiste, occupa tutto quanto esiste: allora è illimitata. Se è illimitata, vuoI dire che niente la limita, e quindi posso affiancate a questo concetto l'altro concetto: è infinita.

 

Se è infinita non esiste un punto ove essa non sia, quindi è onnipresente, e poiché è eterna è l'eterna-onnipresenza. Se allora è eterna, immutabile, assoluta, illimitata, infinita, eterna, onnipresente e se confronto i caratteri di questa "prima causa" con quelli universalmente riconosciuti dalle filosofie e dalle religioni a Dio, vedo che posso chiamare questa mia "prima causa" Dio. Salvo poi a vedere quali altri caratteri posso attribuire ad essa.   

 

Se è onnipresente è a contatto del Tutto, niente quindi può esserle ignoto; allora è onnisciente. Ora se guardo con quanto ordine e intelligenza si svolge la vita naturale del creato, non posso non credere che altrettanto ordine, equilibrio, intelligenza non sia in ciò che ne è stato la causa. 

 

Per cui questa "prima causa" - o Dio -, deve necessariamente essere per lo meno tanto intelligente, e quindi sapiente, della totalità di ciò che ha generato. 

E proprio il "generato" mi conduce a fare un'altra considerazione, e cioè che non posso pensare che tutto quanto esiste sia stato tratto dal o nulla , ma che l'unica conclusione alla quale posso logicamente pervenire è che Dio l'abbia tratto da Se stesso, cioè che sia stato "emanato". 

Non solo, ma non posso pensare all'"emanato" come a qualcosa di staccato da Dio, che ne viva autonomamente, senza negare a Dio il Suo carattere Assoluto, perciò l'emanato deve rimanere in Dio.

 

E se è così, non posso pensare a Dio completo dell'emanazione, del creato, di quello che volete, ed a Dio privo della Sua creazione, come a due momenti diversi della Sua Esistenza, perché negherei a Dio il Suo  carattere immutabile ed eterno. Perciò l'emanato, non solo deve restare in Dio, ma deve esservi sempre arato.

 

Se allora  causa e causato sono una Realtà unica, quell'inizio e quella fine che ho ricercato e ritrovato nell'Esistente, non sono eventi oggettivi, sono illusioni, sono apparenze. Allora quanto noi percepiamo non è la Realtà, è l'apparenza di essa. Sono congetture che la nostra mente costruisce su informazioni  che le pervengono dai sensi, ma non è la Realtà di ciò che è. 

La Realtà è ciò che è e non ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere che sia.

 

Allora, come è conciliabile questa apparenza con una Realtà diversa? Certo deve esservi un modo comprensibile che concilia questi due aspetti del problema ed è proprio da questa spiegazione che debbono scaturire i valori antropologici, non il contrario. Cioè, errato sarebbe da valori umani immaginare la Realtà di Dio e su quello creare un'etica; e mi pare che proprio questo errore sia stato fatto: cioè, partendo da ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere realtà, gli uomini abbiano tratto tutte quelle concezioni del divino che ne fanno un Essere antropomorfico, se non nell'aspetto, per lo meno nel comportamento. Invece mi pare più proprio pensare che Egli sia la « causa « di tutto, e che  « causa « e « causato « siano un'unica Realtà.

 

Oppure Lo posso immaginare come un ordinatore di un caos preesistente ma se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la Sua Natura immutabile ed eterna.

O Lo posso immaginare come Essere da cui traggono origine tutti gli altri esseri, ma se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la Sua Natura infinita ed indivisibile. Allora, che cosa significa?

 

Significa che io posso immaginare Dio come più mi aggrada, come più mi fa piacere, ma per essere veramente tale Egli non può che essere l'unica Verità, l'unica Realtà, perché solo così Egli è: immutabile, infinito, indivisibile, eterno, perfetto, completo, onnipresente, onnisciente, Assoluto. Questo è il Dio al quale posso credere senza far torto alla mia ragione!      

 

 

 

 

Immanenza e Trascendenza

 

(gennaio 1976)

 

 

Gli argomenti dei quali ci stiamo interessando fanno un curioso effetto, fanno assumere alle parole un significato e talvolta tutto l'opposto; perciò voi non dovete adontarvi se io metto alla prova ciò che avete inteso, ultimamente, invitandovi a riflettere su questo: l'uomo possiede  una visione limitata della Realtà, ma esatta nei suoi elementi posseduti, oppure no? E, se aumentassero le possibilità di perfezione dell'uomo, si aggiungerebbero altri elementi precisi, in modo da formare un tutto omogeneo e più vasto, oppure la nuova visione sarebbe del tutto diversa? A queste domande risponderete con comodo, perché c'è del tempo.

 

Dicemmo una volta che l'uomo è « oggetto « e « soggetto « della creazione. Per capire che cosa intendiamo con questa affermazione, pensiamo un istante a Dio in termini panteistici. La natura, nel suo complesso, compreso l'uomo, sarebbe l'oggetto della creazione, mentre l'uomo - con la sua possibilità di conoscenza - costituirebbe il mezzo attraverso al quale la natura prende coscienza di se stessa. Se Friedrich Schelling avesse pensato a questo, evidentemente non avrebbe definito la natura come « un pensiero privo di coscienza «. 

 

Povero Schelling, aveva cominciato così bene, con il suo Assoluto, per naufragare poi miseramente quando si trattò di spiegare la molteplicità dei mondi rispetto all'unità dell'Assoluto! Allora non  seppe trovare niente di meglio che pensare ad un distacco di questi mondi dall’Assoluto, cioè una specie di storiella degli  angeli caduti in chiave variata.       

 

Dicevo che l'uomo - oggetto della creazione - crea a sua volta: e non già nel senso materiale, perché allora più proprio sarebbe dire distrugge, demolisce; ma nel senso che ha, del mondo che percepisce, una personale concezione, una particolare esperienza, e vi assicuro che se anche le esperienze possono sembrare simili sono tuttavia diverse, uniche ed irripetibili per ogni individuo.

 

Questa affermazione potrebbe farci pensare a Dio in termini diversi da quelli che comunemente abbiamo conosciuti.

Certo che fra l'idea teistica - cioè di Dio inteso come un'entità antropomorfa, distinto dalla Sua creazione - e l'idea panteistica, non esiterei a definire più aderente alla realtà quest'ultima che non la prima.     

 

Da sempre abbiamo detto che Dio è in tutto e che tutto è in Dio; perciò il concetto panteistico sembrerebbe avvicinarsi molto al Dio vero; tuttavia, nel momento stesso che affermiamo che Dio è oltre il mondo, oltre il manifestato ed oltre la totalità del Tutto, riconosciamo al panteismo solo una piccola parte di verità: Dio è al tempo stesso immanente e trascendente la manifestazione.  

 

Quali rapporti vi sono, in realtà, fra Dio e l'esistenza? Ancora una volta siamo di fronte ad un concetto che deve essere approfondito.    

 

Dalle nostre affermazioni appare, lapalissianamente, che noi respingiamo il concetto di « creazione «, inteso come l'atto con cui Dio trae dal nulla tutte le cose rimanendo separato dalla sua opera; e perciò respingiamo anche l'ampliamento di questo concetto operato da Tommaso d'Aquino secondo cui la vita stessa del creato è un continuo atto creativo. 

 

Dalle nostre affermazioni appare più logico pensare all'emanatismo, cioè credere che la molteplicità degli esseri derivi, per emanazione, dall’Uno Assoluto, e che per successiva condensazione si giunga alla materia; tuttavia anche questo concetto non è aderente alla realtà se con esso crediamo che Dio rimanga distinto dalla emanazione, se pensiamo alla emanazione come ad un evento oggettivo. Infatti, ne deriverebbe un Dio non certo atemporale ed in continua mutazione.

 

E' vero che i neoplatonici affermano che la « quiete perfetta di Dio « non viene minimamente turbata dalla continua emanazione, ma è altresì vero - e voi dovreste convenirne con me - che questo concetto, così com'è enunciato, può essere accettato dalla logica solo se pensiamo all'emanato come a qualcosa di distinto da Dio: cosa assurda perché, vedete, noi non respingiamo tanto il concetto di creazione perché, secondo questo, Dio trarrebbe dal nulla tutte le cose, quanto perché esso ammette l'assoluta separazione fra Dio ed il creato. 

 

Di pari respingiamo il concetto di emanazione, se pensiamo che l'emanato abbia una sua esistenza oggettiva; se ci figuriamo che Dio crei i principi e gli elementi - che potrebbero essere gli esseri ed i mondi - e che poi questi abbiano un'esistenza indipendente ed indeterminata rispetto a Dio, spettando agli esseri creare nei mondi una sorta di Repubblica ideale come quella vagheggiata di Platone.

 

Ora, è chiaro che, affermando che Dio trascende la totalità del Tutto, ne consegue logicamente che il mondo umano non ha incidenza nel divino; ma questa affermazione non deve farci  pensare ad una trascendenza di Dio rispetto al manifestato eguale a quella concepita, per esempio, dall’idea teistica: la non relazione fra la mutabilità dei mondi e l'immutabilità di Dio, ha un'altra spiegazione, e voi lo sapete. Infatti abbiamo  cercato di farvi capire come il Tutto Uno Assoluto, cioè Dio, ancorché assurdamente considerato come l'insieme di parti, i mondi, in continua mutazione, in effetti non muta affatto.

 

Questo perché ciò che noi vediamo mutare, in realtà è immutabile, è un insieme di situazioni - chiamiamole così - fisse nell'eternità del non tempo; e la mutazione nasce dalla percezione in successione di queste mutazioni, così come la storia narrata in un libro acquista vita e svolgimento solo nella mente del lettore ed in funzione di essa. 

Da ciò si comprende come creazione o emanazione o non è mai avvenuta o è sempre stata; cioè è un evento che si coglie nel gioco illusorio della percezione soggettiva e perciò non incide sull'oggettività di Dio. Questa è  la vera ragione per cui creazione o emanazione non tocca la Realtà di Dio.

 

Ora la verità di questa affermazione, per chi non abbia possibilità di verifica, può essere confortata dalla convergenza di conclusioni derivanti da altre considerazioni: per esempio, possiamo pensare che Dio tragga dalla manifestazione un utile, nel senso che essa sia necessaria a Dio? Invero, non essendo un evento oggettivo, nulla porta a Dio né Dio muta in conseguenza dell'apparente svolgersi dei mondi. 

Perciò, siccome creazione o emanazione non tocca la realtà di Dio, ne consegue logicamente che non può esservi un perché della manifestazione a livello di Dio.

D'altra parte, se è vero che il divenire dei mondi, non essendo un evento oggettivo, non tocca la realtà di Dio - nell'ambito di ciò che appare ma non è realmente - questo non vuol dire che il divenire non abbia un fine, cioè che sia privo di significato per gli esseri che vivono questo divenire.  

 

V'è dunque una duplice valutazione della manifestazione: l'una sul piano soggettivo, ed è che la vita dei mondi da cui traggono esistenza gli esseri conduce gli esseri a Dio; l'altra sul piano oggettivo, ed è che su questo piano la manifestazione non rileva nulla né porta né trae a Dio.      

 

Solo in questo senso, perciò, possiamo accettare l'affermazione dei neoplatonici circa la "quiete  perfetta di Dio".     

Sul piano assoluto, oggettivo, non esiste né creazione, né emanazione, né manifestazione, né esseri, né mondi. Esiste solo Dio, ed è quindi assurdo cercare il perché della manifestazione sul piano assoluto.  

 

Guardate, gli stessi orientali, che però hanno intuito molto della realtà oggettiva, hanno commesso l'errore di voler cercare un perché della manifestazione. 

 

Non si deve credere, infatti, che l'irrazionalità sia patrimonio delle teologie occidentali. A parte il fatto che queste nulla dicono in proposito, voi dovrete convenire con me che l'opinione degli orientali al riguardo è alquanto amena, o sono alquanto amene perché ve ne sono più di una, tanto che forse meglio sarebbe stato il silenzio. 

C'è infatti chi dice che la manifestazione null'altro sarebbe se non « un sogno di Dio «, e qua mi rendo conto perfettamente che essendo voi consapevoli del fatto che i sogni non sono volontari, solo per questo siete trattenuti dal bestemmiare. 

 

Altri dicono, non per spiegare un concetto ma per dire che realmente è così, che la manifestazione è « un pensiero di Dio «, e forse più proprio sarebbe dire « è un pensiero per l'uomo «, è vero? 

 

Ma c'è di peggio: c'è chi afferma che tutto avviene per divertire Dio, e che noi altro non saremmo che dei burattini nelle mani di questo bambino che sarebbe Dio. C'è chi dice che Dio è ammalato di solitudine e che allora emana un cosmo dopo l'altro. Poi c'è chi dice che Dio è « amore « e che quindi ha bisogno di crearsi degli oggetti da amare.     

 

Insomma, anche tralasciando questo comportamento così infantile di Dio, voi dovete convenire con me che la manifestazione non può essere conseguenza di un atto di volontà di Dio, anzi non può essere conseguenza di alcunché. Ed è chiara la ragione: la vita di Dio è eterna, cioè senza tempo: non è uno scorrere, così non può esservi un momento in cui Dio crei o emani qualcosa, o in cui in Lui si sia determinata la ragione che ha dato origine al Tutto. 

Se così fosse, vi sarebbe un preciso punto di riferimento in Dio, che sarebbe giusto l'inizio della manifestazione. Allora vi sarebbe un Dio privo di manifestazione ed un Dio completo di manifestazione, cioè la manifestazione sarebbe in realtà  oggettiva, cosa che non è. 

 

Ma se anche lo fosse dovrebbe avere la stessa natura di Dio, per esempio essere atemporale, ossia  non avere inizio, né svolgimento, né fine, cioè non avere variazione nei confronti di Dio, proprio come sempre vi abbiamo detto.     

 

L'unica cosa che c'è da dire - sottolineo: non che possiamo dire, ma che c'è da dire - è che tutto è per la natura di Dio, cioè che Dio stesso, in Sé, è la causa del Tutto, e come non c'è una ragione all'esistenza di Dio, così se ammettiamo che la manifestazione non incida su Dio - e non può essere diversamente altrimenti si tratterebbe di un Dio mutabile - ne consegue che non può esservi un perché della manifestazione a livello di Dio. Così come, quando durante la notte sparisce la  luce del sole, ciò non dipende dal sole.  

 

Sul piano relativo, tutto quanto esiste - possiamo chiamarlo creato, emanato, manifestato o come volete - non esiste per un atto di volontà di Dio, che Dio non ha atti di volontà: esiste unicamente in dipendenza della natura di Dio.

Sul piano assoluto - ripeto - non possiamo parlare né di creazione, né di emanazione, né di manifestazione, né di esseri, né di mondi. Esiste solo Dio. E non dobbiamo confondere ciò che gli uomini hanno intuito di Lui e che hanno cercato di appellare in qualche modo, con Lui.

 

Egli non è il Dio di Abramo, né di Confucio; non è Brahma, non è il « Padre « del Cristo, né l'Allah di Maometto. Non è né bene né male, non è amore contrapposto all'odio, non è Giustizia, ma non è parzialità; non è Misericordia ma non condanna. 

Egli è al di là del gioco dei contrari, ma essendo la "somma pienezza" è tutto ciò che vi manca: amore per chi non è amato, beatitudine per chi soffre, Tutto per chi nulla è. 

Egli è l'Uno che appare come molteplice, ma non è l'apparenza, perché è "ciò che E'". E' infinito perché l'Unico, eterno perché immutabile, in realtà indivisibile perché in realtà è il solo che esiste.

Egli è completo perché è il Tutto che tutto comprende, ma non è il Tutto perché il tutto trascende. Egli è assoluto "sentire" ed "essere", nostra reale condizione di esistenza. Invoco lo spirito che è in voi, il solo capace di dare senso al mio misero balbettare.   

 

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