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Piero della Francesca, Paolo Uccello, Francesco di Giorgio Martini, Bramante, Raffaello, Tiziano, Lorenzo Lotto: straordinaria è la serie degli artisti che, nel Rinascimento, lavorarono nelle Marche o per conto dei loro signori, prima i Della Rovere, poi i Montefeltro. Le corti feudali della cuspide settentrionale delle Marche, e specialmente lo spoglio Montefeltro che si incunea nell’Appennino tra Romagna e Toscana, si aprirono ben presto alla cultura che inaugura a Firenze la grande stagione del Rinascimento. Sono i Montefeltro, appunto, ad Urbino, come gli Sforza a Pesaro, in contrasto spesso anche cruento coi Malatesta di Rimini, ad accogliere nelle loro corti e nei loro territori i maestri che vengono di Toscana, rappresentanti della cultura nuova che là si va elaborando. È soprattutto Federico, diventato conte di Urbino nel 1444, a dimostrarsi principe di tipo nuovo, capace di mettere a profitto tutte le sue risorse di capitano di ventura per farsi modello a tutti di signore rinascimentale, e per crearsi quindi il proprio ambiente quale riflesso della sua immensa personalità, dove rifulga non solo il suo valore guerresco, ma altresì la giustizia, clemenza, liberalità, religione, tutte le virtù cioè che si addicono al principe, come ricorda il fregio dedicatorio nel cortile d’onore del palazzo ducale di Urbino. Emblema della stessa civiltà rinascimentale, la dimora ducale di Urbino assorbì tutte le cure di Federico, che si servì delle più interessanti personalità artistiche del Quattrocento, non soltanto toscano, se dalla Dalmazia veniva il massimo artista, Luciano Laurana, impiegato nella fabbrica, e al quale è riconosciuto il merito maggiore nel definirne l’impianto e il carattere essenziale. Ma di qui passarono Piero della Francesca e Francesco di Giorgio Martini, Paolo Uccello e forse il Botticelli e Melozzo da Forlì; i portatori delle prime voci del Rinascimento toscano, ma anche gli epigoni della cultura gotica, come Giusto di Gand e Pedro Berruguete; di qui passarono umanisti famosi come Vespasiano da Bisticci, che raccolse per Federico una delle più importanti raccolte di codici che la storia ricordi; qui si fecero infine il Bramante e addirittura generazioni di artisti, di qui venne al mondo il genio di Raffaello, figlio di quel Giovanni Santi, che si distinse quale pittore e cronista di Federico. Con l’estinzione della discendenza diretta dei Montefeltro, anche la corte di Urbino andò languendo nelle sue pur raffinate espressioni della cultura cortigiana, mentre per tutte le Marche, tra la fine del Quattrocento e il principio del secolo successivo, andavano intrecciandosi le più disparate civiltà: se infatti vigevano ancora le antiche scuole pittoriche marchigiane, coi camerinesi Giovanni Boccati e Giovanni Angelo d’Antonio, col sanseverinate Lorenzo d’Alessandro e il fabrianese Antonio, e nel territorio immediatamente a ridosso della stessa Urbino si affermavano i locali prodotti della scuola del Santi, di Timoteo Viti e del problematico Evangelista di Pian di Meleto, racchiusi in un carattere tutto sommato provinciale salvo qualche scatto peruginesco, la presenza del Signorelli a Loreto nell’ultimo quarto del secolo ne affermava la maniera in artisti minori, in modo esteso pur se non sempre riconosciuto; e contava ancora l’immigrazione veneta, rappresentata soprattutto, dopo il Vivarini, da Carlo Crivelli che, nel margine meridionale della regione, ad Ascoli e nell’ascolano, diffuse la sua maniera ambigua, fatta di asprezze formali e di teneri contenuti, di plateali espressionismi e di sapienze crittografiche, in una formula del tutto caratteristica, che riscosse larga fortuna, influenzando quindi un buon numero di artisti, tra cui quel Vittore che ne ripete il nome e forse gli fu fratello. Un panorama, dunque, che giustifica pienamente la definizione di eterogeneità applicata alla regione, dove nello stesso tempo un sia pur modesto elemento unificante può essere considerata l’attività di architetto e ingegnere militare svolta da Francesco di Giorgio Martini che, a parte i grandi impegni urbinati, costellò città e territori di rocche lievi e immense, di palazzetti dove la rusticità del cotto si combina con la raffinatezza del disegno per dar vita a strutture essenziali ed eleganti. Nei suoi ultimi bagliori è ancora il ducato di Urbino, dove ai Montefeltro erano successi per adozione i Della Rovere, a dar la misura del mutare di gusto, ricorrendo anche qui ad artisti di altre città, come i pittori chiamati a decorare la nuova residenza della Villa Imperiale presso Pesaro, edificata da Eleonora Gonzaga a refrigerio delle fatiche di guerra del marito Francesco Maria I: una preziosa tessitura pittorica ne orna le sale, opera dei Dossi ferraresi e di altri noti pittori, tra cui lo stesso Bronzino che vi lavora tra il 1530 e il 1532, componendo la sua visione manieristica con l’altrettanto raffinata cultura di Girolamo Genga, urbinate, che nell’adattamento delle precedenti costruzioni e nell’ideazione del nuovo corpo della villa, e principalmente del suo paramento ornamentale, crea uno dei complessi più caratteristici per capriccio d’invenzione e sensibilità di forme. Col Genga l’influenza dell’ambiente romano sembra sostituirsi ormai a quella toscana, mentre Venezia rimane sempre per le Marche insostituibile polo d’attrazione. Tale è la città lagunare per la stessa corte urbinate, le cui commesse raggiungono finalmente Tiziano verso il 1530, mentre nella regione a più riprese opera un artista sostanzialmente emarginato, come fu Lorenzo Lotto, che infine trovò nel Santuario lauretano un po’ di requie al suo spirito agitato e nello stesso tempo la possibilità di realizzare le sue composizioni pietistiche, cariche tuttavia del fascino della luce lagunare.
Guida d’Italia. Marche, Touring Club Italiano, Milano 1979. |