dal sito StudioRicerche Sociali

INTERNALIZZAZIONE DEI COSTI

Già all'inizio di questo secolo, alcuni economisti avevano elaborato teorie e studi circa l'importanza dell'ambiente in economia e viceversa. L'inquinamento fu definito come una diseconomia esterna, trasferita dal produttore all'intera comunità (Pantaleoni, 1913). Per bilanciare tale diseconomia, veniva manifestata la necessità di distinguere costi privati di produzione e di consumo e loro costi sociali (concernenti la società come un insieme) in modo tale da imporre tasse appropriate a carico degli inquinatori, come compensazione dei danni opportunamente stimati (Pigou, 1920).

Il principio di Pigou (noto come "chi inquina paga") costituisce il punto di partenza di un approccio generale, sul quale molti concordano, unitamente alla definizione di reddito formulata da Hicks (1946) come differenza tra valore finale e valore iniziale della ricchezza di un individuo o di una comunità in un dato periodo di tempo. Secondo tale definizione, se la ricchezza cresce, il reddito è positivo, corrispondendo così al massimo valore che potrebbe essere consumato senza ridurre la ricchezza posseduta all'inizio di tale periodo di tempo. Questo concetto di reddito (centrato sul capitale prodotto dall'uomo), dovrebbe essere trasferito, secondo Khan (1995), il quale cita un manoscritto di Goodland), alle altre forme di capitale (naturale ed umano) per arrivare ad una definizione di sostenibilità economica.

Il suddetto approccio considera l'internalizzazione dei costi esterni come una misura in grado di prevenire sia distorsioni che fallimenti del mercato, passando da livelli di produzione ottimali solo per il mercato, a livelli ottimali anche da punto di vista sociale ed ambientale, dato che le risorse naturali hanno la caratteristica di essere più beni pubblici che privati (Turner, 1994).

left">A questo fine, Jacobs (1991) suggerisce un processo a due tappe: predisporre basilari obiettivi per proteggere la capacità ambientale; influenzare l'attività economica per rispondere a tali obiettivi. Gli strumenti di tale processo sono quelli classici: meccanismi volontari (persuasione, informazione, cambiamento del contesto legale, iniziative non governative da parte di individui, gruppi, etc.); spesa pubblica; tassazione; incentivi finanziari e sussidi governativi.

Tuttavia, l'uso di meccanismi di mercato (a cui si richiama il principio "chi inquina paga"), come pure il ruolo importante della dimensione politica, non sembrano risolvere alcuni problemi di fondo (come sottolineato, fra gli altri, da Welford, 1995).

In primo luogo ci si domanda quanto sia possibile un'accurata valutazione dei costi addizionali. Esistono consistenti margini di errore, difficoltà implicite e giudizi personali diversi sul valore delle varie componenti del capitale naturale e del capitale prodotto dall'uomo. In questo caso, la metodologia del costo pieno impone di definire la dimensione (cioè l'ammontare e l'estensione) di ciò che dovrebbe essere incluso ed escluso dalla contabilità.

Gli effetti inquinanti diretti potrebbero essere chiaramente determinati, ma molti altri sono meno diretti, come gli impatti interregionali ed intertemporali sulle popolazioni, etc. Inoltre, sebbene i costi esterni debbano essere pagati, i diritti di proprietà di molti beni ambientali non sono così chiaramente definiti o non esistono (aria, oceani, profondità marine, etc.).

Harrison (1993) ha idee chiare a questo proposito, anche se un po' enfatiche: l'interferenza governativa sui prezzi di mercato è giustificata dalla necessità di assicurare che gli interi costi ambientali siano contenuti nel prezzo del prodotto; questo include i costi per la riduzione dell'inquinamento a livelli accettabili, i costi sopportati da coloro che hanno subito l'inquinamento o il degrado, i benefici persi dai futuri utilizzatori, e cosi via.

In secondo luogo, prendendo in considerazione la dimensione politica, nascono problemi su quale sia il giusto e sostenibile livello di produzione e di consumo, e su chi lo dovrebbe determinare.

Entrambe le suddette aree problematiche sono alla base dell'economia. Per esempio, uno degli scopi di A. Smith (1776) è dimostrare che la massimizzazione dei vantaggi individuali (l'interesse individuale a soddisfare i propri bisogni) contribuisce a massimizzare il bene comune, grazie all'esistenza di un ordine naturale superiore ad ogni altro ordine creato dal genere umano (una mano invisibile che investe anche l'inclinazione naturale dell'uomo). Di parere diverso, K. Marx (1859), secondo il quale lo sviluppo della divisione del lavoro e della produttività crea, con la ricchezza materiale, anche i bisogni; essi, pur dipendendo dalla storia, dalla tradizione e dalla cultura delle varie comunità sociali, sono strutturati e ripartiti in ragione del posto occupato dagli individui come componenti di classi sociali all'interno di una società capitalistica.

Soluzioni ai suddetti problemi possono essere cercate con metodi economici, ma questi ultimi devono essere integrati con altre discipline e metodologie. Infatti le relazioni tra bisogno e consumo richiedono una saggia combinazione della gestione del mercato dal lato della domanda e da quello dell'offerta. E non è così semplice distinguere netti confini di azione, giacché un lato influenza l'altro e viceversa, mentre intricata è la rete di relazioni tra impresa e consumatori.

Quello che occorre è, quindi, un approccio economico innovatore, più complesso ma sicuramente più vitale di quello convenzionale, basato ancora sul convincimento che, dopo tutto, la prima motivazione per l'esistenza dell'impresa sia solamente il profitto (Turner et al., 1994).

E' ben nota l'affermazione di A. Smith secondo la quale non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio, o del fornaio, che possiamo aspettarci il nostro pranzo, ma dalla loro attenzione al loro diretto interesse.

Molti autori hanno, ovviamente, criticato questa affermazione, sottolineando la necessità di cambiare tale stereotipo. Per esempio, J. Schumpeter definisce l'imprenditore come un catalizzatore di cambiamento e di innovazione. Questa funzione ha un ruolo qualitativamente differente da quella assegnata dall'ordine esistente, infatti lo sconvolge. La capacità di concepire ed introdurre nuovi prodotti e tecniche (processi di produzione) è di primaria importanza nella gestione dell'organizzazione imprenditoriale; il profitto ne è la conseguenza monetaria e l'assunzione di rischio un modo per migliorarla.

Secondo Senge (1994), l'idea - guida più perniciosa, penetrata nella cultura imprenditoriale occidentale durante gli ultimi cinquanta anni, è che la finalità dell'impresa consiste nel massimizzare il rendimento dell'investimento degli azionisti; non c'è da meravigliarsi dunque se le persone di tali organizzazioni sono disimpegnate, vedono il proprio lavoro come una noiosa routine senza alcuna ispirazione e sono prive di ogni profondo senso di lealtà verso l'organizzazione.