Circolo Culturale Albatross: Fedor Michajlovic Dostoevskji
Delitto e castigo

L'idea del romanzo ebbe una lunga maturazione in Dostoevskij. Concepito nel 1865 come un racconto sull'alcolismo dal titolo Gli ubriachi, diventò in breve un romanzo incentrato sull'omicidio, che assimilò un precedente progetto del 1859, Confessione, basato appunto sulla confessione di un delitto.
Delitto e castigo è una delle opere più lineari di Dostoevskij. Alla vicenda centrale, dello studente Raskolnikov (che uccide una vecchia usuraia per impossessarsi del suo denaro e liberare l'umanità da un essere da lui ritenuto inutile e parassitario) si affiancano altri due piani narrativi: la storia della famiglia Marmeladov e quella della sorella di Raskolnikov, Dunja. Queste due storie, benchè possano apparire parallele alla vicenda di Raskolnikov, ruotano, invece, intorno ad essa, trovando in due loro personaggi, Sonja e Svidrigajlov, i punti di contatto con il protagonista. Sonja, la figlia maggiore dei Marmeladov, costretta a prostituirsi per sfamare la famiglia, è colei che conduce Raskolnikov all'espiazione e alla redenzione; Svidrigajlov, invece, uno dei pretendenti di Dunja, è il doppio deforme di Raskolnikov ed è attraverso lui, essere cinico e depravato, che il protagonista prende coscienza della pusillanimità del proprio gesto omicida.
L'idea che culla Raskolnikov si basa sulla giustificazione dell'assassinio per fini superiori. Questo interrogativo era stato analizzato in modo molto approfondito negli anni immediatamente precedenti da un filosofo assolutamente al di fuori della norma come Kierkegaard nel suo Timore e Tremore. Dostoevskij ci si riavvicina in modo nuovo, totalmente legato alla realtà dei fatti: è giusto uccidere una vecchia usuraia, in quanto il denaro da lei accumulato può essere messo al servizio di tutta l'umanità?
Per Raskolnikov gli uomini si dividono in due categorie, quelli "comuni" - tenuti ad attenersi alla morale umana, a ciò che è riconosciuto come bene e male- e quelli "eccezionali", svincolati da ogni obbligo morale. Gli uomini eccezionali, proprio per la loro superiorità, hanno il diritto di uccidere, soprattutto se il loro atto può servire al bene comune. Il concetto di superuomo dostoevskiano anticipa la manifestazione filosofica niciana e l'attuazione pratica d'annunziana: in Delitto e castigo tale concezione del "tutto è permesso" va incontro però alla graduale rivelazione delle contraddizioni di cui è intessuta: l'idea del Superuomo, logicamente perfetta nella sua astrazione, nel momento in cui si muove e si rende vitale, si autodistrugge. E la sua dissoluzione si manifesta nel sentimento di angoscia e sofferenza che attanaglia Raskolnikov. Nulla di grande o di straordinario consegue all'omicidio commesso: il suo atto si è tramutato in un'offesa alla vita che travolge la sua stessa esistenza. Raskolnikov, uccidendo un essere umano in nome del proprio libero arbitrio, nega il valore dell'individuo e, con esso, se stesso e il principio che lo giustifica: la libertà.
La libertà è per l'uomo il bene al quale non può rinunciare senza cessare di essere "ad immagine e somiglianza di Dio"; questa stessa libertà, quando trapassa in puro arbitrio diventa qualcosa di vuoto, di devastante. Per il libero arbitrio non esiste nulla di sacro, tutto viene profanato, diventando sperimentazione di una volontà che resta priva di senso e si dissolve tragicamente.
Raskolnikov si trasforma, così da Superuomo a "pidocchio": il suo orgoglio si trasforma in odio per se stesso e di quella umanità comune alla quale si è abbassato. Capisce il suo fallimento e il tormento di tramuta facilmente e gradualmente in disperazione.
Con tragicità Raskolnikov, una volta diventato conscio della sua follia e del suo errore, incapace di sostenere la propria ribellione, si consegna alla legge.
La via di una libertà che, pur colpevole, non si nega e, anche se con sofferenza, non si disgrega, è rappresentata da Sonja, che alla morale del Superuomo contrappone l'amore. L'amore discerne il bene dal male: Sonja non condanna Raskolnikov, ma lo ama, e a tal punto da farsi carico di un peccato che non ha commesso. Costretta a prostituirsi per sfamare la famiglia, non è disposta a rinunciare alla propria dignità di persona libera, assumendosi la responsabilità della propria degradazione. La sua sofferenza le conferisce una specie di sacralità di fronte alla quale anche Raskolnikov deve inchinarsi. Il tormento di non poter risollevare la propria famiglia dalla povertà si tramuta in adesione al dolore della famiglia stessa, nonostante questa l'abbia costretta a macchiarsi indelebilmente. La vita offesa non viene vissuta come inutile o come luogo di perdizione: l'offesa ne rivela la sacralità, suscitando speranza per la trasfigurazione finale. Animata dalla fede in Cristo, Sonja vede in Dio morto e risorto l'unica possibilità per restituire all'uomo la presenza divina che gli appartiene.
Il romanzo si chiude non nella Pietroburgo grigia e sterile che assiste alle cadute e alle follie umane senza il minimo spiraglio di speranza, ma in Siberia, dove da dietro la recinzione del campo di lavoro, Raskolnikov vede un nuovo orizzonte, la possibilità di redenzione.
È da qui che "comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignorata".


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