Uscito a puntate nel 1865 nella rivista Epocha, il romanzo costituisce
il punto di svolta della vita artistica e spirituale dello scrittore
russo.
Sulla scena dostoevskiana compare una figura singolare di ribelle
non riconducibile a quelle descritte fino ad allora. Si tratta di
un individuo smarrito tra la propria angosciosa ricerca di una verità
che illumini davvero la vita, e un vuoto tra gli stessi e la "maledetta
realtà" che nulla riesce a colmare. Tale personaggio
rappresenta un alfiere delle sue convinzioni più preziose,
e al contempo il ricettacolo di vizi, depravazioni e debolezze.
Il libro è diviso in due parti. La prima, strettamente filosofica,
ci porta nella mente e nell'anima del protagonista, un modesto impiegato
statale che vive in un costante malessere e disgusto per la vita
quotidiana, per la società nella quale nulla è come
vorrebbe e nella quale non può e non vuole realizzarsi. Non
è un cattivo, è un "uomo malato" come egli
stesso afferma. È una persona che vive di piccole rivincite,
di dispetti che hanno come unico scopo il farsi malvolere, il farsi
emarginare da un mondo che già lo disprezza.
È un uomo che combatte una guerra personale che sa di aver
perso in partenza, ma che serve a tenerlo in vita. Egli non si piace,
sa che dal male che fa agli altri non può ricevere altro
che umiliazioni e disprezzo, ma l'agire in questo modo abietto serve
a tenerlo in vita, serve a renderlo presente agli altri, seppur
in modo negativo.
Nella seconda parte il protagonista ci conduce praticamente nel
suo personalissimo modo di pensare la vita: egli si presenta, non
invitato, a una festa di commiato per un compagno di studi, con
il quale non esisteva alcun rapporto di amicizia, in procinto di
partire. Sa di non essere desiderato e di rovinare l'atmosfera con
la sua presenza, ma rimane fino alla fine, umiliando sé stesso
soltanto per disturbare i presenti. E quando poi, alla fine della
serata, il gruppo decide di recarsi in una vicina "casa chiusa",
anche non volendo egli lo segue, pensando che in tal modo sarebbe
risultato maggiormente come "elemento di disturbo".
Lì conosce una ragazza; con lei parla dei valori umani, della
futilità della sua esistenza e in uno dei suoi slanci di
generosità decide di cercare di convincerla ad abbandonare
la degradante vita che costei sta conducendo.
Le buone intenzioni, come del resto tutta la vita di quest'uomo,
rimangono però, incompiute quando, il giorno dopo, la ragazza
si presenta da lui chiedondogli aiuto a cancellare il passato. Il
protagonista si rifiuta, la caccia via, dicendole che oramai è
troppo tardi per ritrovare una vita serena e degna di essere vissuta.
L'uomo capisce che rinnegando l'aiuto promesso la sera precedente
condanna la ragazza, la quale illusa di poter essere salvata da
una triste fine scopre di non poter uscire dalla sua miserabile
condizione, ma non può fare altrimenti: il sottosuolo, nel
quale egli vive è il solo luogo in cui può portare
a termine le sue intenzioni e la sua esistenza.
Lettera a Natalija Dmitrievna Fonvizina
Omsk, fine gennaio - 20 febbraio 1854
[...]
Sono ormai quasi cinque anni che io vivo in permanenza sotto sorveglianza,
oppure in mezzo alla folla, e non sono stato solo neppure per un'ora.
Stare un po' da solo è un'esigenza perfettamente normale,
come bere e mangiare, altrimenti in questa comunanza forzata si
finisce per diventare misantropi. La continua frequentazione degli
altri uomini diventa un veleno e un contagio, ed è proprio
di questo insopportabile tormento che io ho sofferto più
di qualsiasi altra cosa in questi quattro anni. Ho avuto dei momenti
in cui odiavo chiunque mi capitasse d'incontrare, sia colpevole
che innocente, e li consideravo tutti tutti come dei ladri che mi
derubassero impunemente della mia vita. La sofferenza più
intollerabile la si prova quando si diventa ingiusti, malvagi, disgustosi,
ci si rende conto di tutto ciò, ci si rimprovera anzi per
questo, eppure non si trova la forza di vincersi. Io questo l'ho
provato, ma sono convinto che Iddio Le abbia tisparmiato questo
tormento. Credo che in Lei, come donna, vi sia molta più
forza per tollerare e perdonare.
[...]
Lettera a Michail Michajlovic Dostoevskij
26 marzo 1864
Ma che gli ha preso a quelli là, ai censori, cos'è,
sono in congiura contro il governo, adesso? (...) sarebbe stato
meglio non pubblicarlo affatto il penultimo capitolo (che è
il più importante, quello appunto in cui viene appunto fuori
l'idea centrale), piuttosto che pubblicarlo così com'è,
con tutte quelle frasi strappate a metà, e quelle continue
contraddizioni (...). Quei porci di censori: là dove mi beffavo
di tutto quanto e bestemmiavo persino, talvolta, ma soltanto per
mostra, loro hanno lasciato correre, mentre là dove da tutto
ciò deducevo la necessità della fede e di Cristo,
hanno proibito...
Lettera a Michail Michajlovic Dostoevskij
Mosca, 9 aprile 1864
[...]
Amico mio, tu probabilmente hai ricevuto la mia ultima lettera.
In essa ti scrivevo che, a quanto mi sembrava, il racconto non sarà
finito a tempo. E ora te lo ripeto, Misa: io sono sottoposto a una
tale tortura, sono così schiacciato dalle circostanze e mi
trovo attualmente in una situazione così tormentosa che non
sono in grado di rispondere nemmeno delle mie forze fisiche e della
mia capacità di resistenza al lavoro. Attendo ansiosamente
la tua risposta. Ma ecco quel che ti dico adesso: il racconto cresce
continuamente. Forse arriverà a cinque fogli a stampa, non
lo so; e comunque, anche sforzandomi al massimo, è materialmente
impossibile che lo finisca in tempo. E allora cosa fare? Si potrebbe
pubblicarlo non finito? È impossibile. Non è possibile
dividerlo in due parti. E, tra l'altro, non so nemmeno cosa ne verrà
fuori: forse sarà una porcheria, ma io, per quanto mi riguarda,
ripongo in esso grandi speranze. Sarà una cosa forte e sincera;
sarà la verità. Anche se, mettiamo, non verrà
bene, comunque certamente farà sensazione. Questo lo so.
E forse sarà una cosa molto buona.