Dino Buzzati pubblica Il deserto dei Tartari, suo terzo romanzo, nel
1940, mentre l'Europa freme sotto i colpi di una guerra dentro la quale
anche l'Italia inizia a muovere i primi passi.. Lo stesso scrittore/giornalista
(dal 1928 collabora con "Il Corriere della Sera") si imbarca,
quell'anno, come corrispondente per il suo giornale.
E' l'anno in cui Hemingway pubblica Per chi suona la campana, Alvaro,
Incontri d'amore e Comisso Felicità dopo la noia. Dino Buzzati
potrebbe essere definito, per comodità e convenzione, lo "scrittore
dell' assurdo-reale", ovvero di quell'assurdo che diviene realtà
sotto gli occhi di chi, vivendo, scruta ogni piega della propria esistenza
e di ciò che lo circonda. E' lo scrittore che non dà lezioni
sullo scrivere, né postula teorie, che ama il suo lavoro di giornalista,
al pari della Letteratura, attingendo dal reale per sognare e far sognare.
Sogno che, tuttavia, non è alienazione dalla realtà.
Ed il suo è uno stile onirico, fatto di lucide visioni, di ombre,
di sussulti e di misteri, di miti avulsi da qualsiasi condizionamento
storico, universali perché fuori da ogni tempo e attuali sempre.
Uno stile sapientemente sottratto alle mode, alle etichettature, che
segue un filo interno, coerente, fatto di temi ricorrenti, talvolta
ossessivi: l'attesa, il trascorrere del tempo, il senso della morte,
l'illusione e la delusione, il vuoto e l'ansia di colmarlo, le infinite
sfaccettature del vivere.
E ancora, la montagna che diviene spesso personaggio, la solitudine
che accomuna e divide l'intera umanità
nelle opere di Buzzati
tutto diviene tangibile, anche l'irreale. Le etichette che la critica
gli affibbiava, sembravano lasciarlo impassibile, sia che lo si accomunasse
a Kafka o a Bontempelli, sia che lo si accusasse di fuga dalla realtà,
di surrealismo. L'attività del gruppo fiorentino "Solaria",
cui collaborano critici quali Debenedetti e Solmi, aveva già
delineato, negli anni trenta, due precisi filoni narrativi: quello di
tipo saggistico/memorialistico e quello realistico: Buzzati non rientrava
in nessuno di loro. Ne Il deserto dei Tartari, attraverso metafore,
più o meno velate , analogie, sottili processi allusivi ed evocativi,
Buzzati segue la vita/non vita di Giovanni Drogo, dal suo arrivo, appena
ventunenne, alla Fortezza Bastiani, fino alla sua morte.
La Fortezza è un avamposto al confine con un deserto, in passato
teatro di rovinose incursioni da parte dei Tartari: sperduta, sulla
sommità di una montagna, retta da regole ferree, microcosmo minacciosamente
affascinante che "strega" i suoi abitanti impedendo loro di
abbandonarla. I zelanti militari che la abitano e le danno vita sono
retti da un'unica speranza, che diviene ragione pura del loro esistere:
vedere sopraggiungere i Tartari da quei confini, per combatterli, acquisire
gloria, onore, diventare, insomma, eroi. Le vite si consumano, dunque,
in questa sterile attesa, cullate dalla pigra abitudine, scandite dall'ignaro
trascorrere del tempo.
Giovanni Drogo, che arriva alla Fortezza convinto di ripartirne subito,
si trova avvinto, immediatamente, dalla sua malia: è sicuro di
sé, sa di avere tutta la vita davanti, di poterne disporre a
suo piacimento, aspettando la grande occasione. Avverte subito, tuttavia,
una contraddizione ragione/cuore: la prima gli fa desiderare di andar
via, convincendolo che nulla di buono verrà da quel confine,
il secondo continuerà a presentire, fino alla fine, "cose
fatali". Così Giovanni si adatta alla vita della Fortezza,
consegnando nelle mani della Disciplina militare, sempre uguale, sempre
regolare, la propria esistenza. Trascorreranno quindici anni prima che
egli inizi a rendersi conto che il tempo è fuggito, prima che
riesca ad individuare, a ritroso, perfino l'attimo esatto in cui la
giovinezza gli è sfuggita di mano : "la prima sera che fece
le scale a un gradino per volta".
Da quel momento tutto diviene troppo veloce, perfino il ritmo della
scrittura del libro accelera (basti pensare che in ventuno capitoli
vengono descritti quattro anni, e negli ultimi nove, se ne avvicendano
più di venticinque!), per giungere alla fine di tutto, all'amara
constatazione che la vita stessa sia stata "una specie di scherzo":
mentre, infatti, i Tartari, tanto attesi, attaccano davvero , Giovanni
Drogo, minato da una grave malattia, è costretto a lasciare la
Fortezza per andare a morire, da solo, in un'anonima stanza di locanda,
in città. Ma non è nella disperazione che muore : superata,
infatti, la rabbia, la delusione, la tentazione di rinnegare tutta la
sua vita, egli si convincerà che la Missione Suprema è
proprio quella che sta affrontando: la morte "esiliato fra ignota
gente", solo ed abbandonato.
L'intero romanzo è caratterizzato, oltre che dai temi buzzatiani
e da un ritmo alquanto variabile di narrazione, dal continuo mutare
di prospettiva del narratore. Talvolta questi assume il punto di vista
del protagonista, altre volte narra di lui in terza persona, allontanandosi;
oppure interloquisce con i personaggi; in alcuni casi sembra seguire
un proprio pensiero, un flusso di coscienza ininterrotto che prelude
a quelle che saranno poi le riflessioni dello stesso Giovanni Drogo.
Vale la pena di leggerlo, per riflettere, per guardarsi dentro.