Cave cavarum

ave! Alla larga! Tradurrebbe subito un latinista. Difatti simile vocabolo lo troviamo in quella famosa scritta che gli antichi romani mettevano sulla porta delle loro case: "Cave Canem!" Guarda che c’è il cane, e quindi stai guardingo, non ti fidare. 

E l’altra: "Cave né Cados!" Basta di non cadere! Ammonimento che lo schiavo dell’antica Roma dava al Trionfatore.

E già che ci troviamo ad arzigogolare sul vocabolo (Cave), mi piace aggiungere altri fatterelli storici.

La nettezza urbana, nei tempi andati, lasciava molto a desiderare, ed era regolata con ordinanze municipali trascritte su appositi marmi e murata agli angoli dei vicoli e strade poco frequentate della città, in cui il fetore delle immondizie non poteva certo giovare alla salute pubblica; e queste ordinanze si praticavano fino al secolo XVIII.

Riandando quindi col pensiero ai tempi più lontani, come ad esempio, dice l’archeologo Matteo Della Corte, e cioè a Pompei, duemila anni e forse più prima, e precisamente all’imbocco di un vicolo, su la parete di una casa, vi si legge tuttora, graffiata accanto all’ingresso: "Circinaeus Crescens ih habitat".                  

Costui era il cittadino che protestava per l’origine di certi miasmi che si effondevano nella sua casa. Forte del suo diritto, Circineo chiamò un letterista (scriptor) e gli dettò l’estratto di un’ordinanza già esposta nel Foro di Pompei. Così scrisse: "Stercorari! A murum progredere! Sì presus fucris, poema patiare necesse est! Cave!" e in altre parole "Spazzino! Va a raggiungere i bastioni delle mura, com’è tuo dovere! Se ti sorprendano ne pagherai la pena! Guardati!".

Quello che a noi colpisce e c’interessa, è la minacciosa apostrofe (Cave!) che italianata significa (Guardati!).

Ma noi di che cosa dobbiamo guardarci, quando, entrando in questa terra, ci fa l’impressione di pensare al contrario?

Non basta quanto finora si è detto; vi è ancora di più: si crede che un frate, leso nei suoi diritti, si scaglia torvamente su tutta la popolazione di Cave denigrandola così:

 "A gente Cavarum Cave

Qui dum tibi dicum ave

Te decipiunt suave suave"

Che tradotto in volgare: "Guardati dai Cavesi, i quali, mentre ti salutano, ti corbellano piano piano".

Cose che fanno ridere! Per tutti questi memorabili detti, entrando in questa terra, si debba avvertire il forestiero: bada dove vai, non ti fidare, poiché ti sarà facile cadere in un agguato, o romperti magari il collo!

Perché dunque sussiste ancora il malevolo detto di quel frate? Un tempo era in dissidio i PP. Agostiniani della locale Parrocchia di S. Stefano con i Preti della Collegiata di S. Maria.

Gli amministratori di S. Maria erano preti secolari e nativi di Cave, e quel frate di quell’ordine Agostiniano, punto dall’ira, volle inveire sarcasticamente con quelle frasi latine. Il frate, deve aver certamente preso lo spunto dal significato mitologico della Sirena che figura sullo stemma del paese e dal significato latino del vocabolo (Cave).

Forse il P. Agostiniano avrà avuto le sue ragioni, come vedremo in seguito, ma egli si sente tradito da un prete nativo di Cave, non doveva tutti i Cavesi porre a tal croce. Quindi lasciamo la questione tra i frati latini e i preti cavesi e diamo il giunto merito, come abbiamo detto, al popolo di questa terra feconda.

L’Arturo Sonetti romano ebbe ad esprimere la sua impressione con questi versi:

 

Cave

Tramezzo a Genazzano e Palestrina

Ce sta un paese bello ch’è ‘n’amore

Ogni donna cavese è una regina

E l’omo sembra un re, un imperatore.

C’è er sole, il verde, er vino e l’aria fina

Tesenti er core allegro e ogni dolore

Lo ammazzi fra l’amichi giù in cantina

Lì fiori poi t’infasceno d’odore.

T’invita er cielo la terra e la natura

Se vienghi poi ‘na vorta a Cave nu lo lassi

Anzi ce magni e bevi e te c’ingrassi.

Vivrai felice come una creatura

Lontano da le pene e da li guai

E qui se Dio vorrà ce morirai!