Regia: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier, Björk
Musica: Björk, Sjón & Lars von Trier
Interpreti: Björk, Catherine Deneuve, David Morse, Cara Seymour, Peter Stormare, Udo Kier, Stellan Skarsgard e Jean-Marc Barr 
Origine:  Scandinavia
Anno: 2000
Durata: 2h 15'
Altri Film:
La Settima Stanza

IL CAOS SOTTO CONTROLLO
Pensieri inquieti di uno spettatore di Dancer in the dark

Volete immergervi per un paio d'ore in quel labirinto intricato e intrigante, affascinante e contraddittorio, che è il mondo interiore, il "cuore" dell'uomo europeo di oggi? Se l'avventura non vi spaventa, non saprei consigliarvi niente di meglio dell'ultimo film del regista danese Lars von Trier, Dancer in the dark, che l'anno scorso al festival di Cannes ha vinto la palma d'oro e il premio per la migliore interpretazione femminile. È possibile che, uscendo dalla sala cinematografica, vi sentiate anche voi in the dark, "nel buio", e non abbiate voglia di fare alcun commento. Tutt'al più vi risuoneranno in testa i motivi delle canzoni della protagonista, Selma, interpretata dalla cantante islandese Björk, o si affacceranno alla vostra mente le immagini dei suoi movimenti ora piroettanti, ora goffi e incespicanti fino alla caduta finale. La sensazione di sconcerto naturalmente non è piacevole, il che non vuol dire che il film non vi sia piaciuto. Il problema è un altro: perché un film che racconta una storia tutt'altro che complicata e neppure troppo originale lascia così perplessi e incerti sull'interpretazione e la valutazione del messaggio che l'autore ha voluto comunicare? Se, nel tentativo di dare una risposta a questa domanda, mediterete con più attenzione sul film, lo andrete a vedere una seconda volta o addirittura ne leggerete la sceneggiatura (subito pubblicata dalla casa editrice Minimum fax, insieme a un'intervista col regista e a una sorta di soggetto del film, importantissimo per la sua comprensione, intitolato Il manifesto di Selma), potrete scoprire qualcosa di interessante non solo sull'opera o sul suo autore, ma anche sull'atmosfera culturale e spirituale che tutti ci avvolge (giudei e greci, atei e credenti) e che tutti respiriamo, ce ne accorgiamo o no. Soprattutto ne scoprirete l'inaspettata e spiazzante complessità, tale da ispirare una salutare diffidenza nei confronti di qualsiasi analisi troppo semplice dell'uomo contemporaneo. I luoghi dello spirito, del resto, non sono tali proprio perché altri dai luoghi comuni?
La storia nella sua materialità fa l'effetto di un melodramma o di un romanzo d'appendice ottocentesco. Siamo negli Stati Uniti, più o meno agli inizi degli anni Sessanta. La protagonista, Selma, è un'operaia emigrata dalla Cecoslovacchia insieme al figlio dodicenne, Gene (diminutivo del nome ceco Evzên). Selma lavora tantissimo e ha un'unica passione: il musical. Vive in una roulotte, che ha preso in affitto da una coppia di vicini, Bill e Linda. Una notte Bill confida a Selma il suo segreto: non ha più un soldo e la banca sta per portargli via la casa. È disperato e non sa come dirlo alla moglie, che teme di perdere. Commossa, anche Selma rivela a Bill il suo segreto: sta per diventare cieca a causa di una malattia che anche il figlio ha ereditato. Anche lui diventerà cieco se non sarà operato prima che compia tredici anni. Per questo Selma è venuta negli Stati Uniti e lavora tanto. Tutto ciò che guadagna lo mette da parte per poter pagare l'operazione che consentirà a suo figlio di non perdere la vista. Ormai ha quasi raggiunto la somma necessaria. La confidenza mette in agitazione Bill, che con uno stratagemma ruba i soldi a Selma. Per riprenderli, Selma dovrà lottare con Bill fino a ucciderlo. Viene quindi arrestata, processata e condannata a morte, anche perché Selma non vuole rivelare né il proprio segreto, né quello di Bill. Selma sarà impiccata, ma coi suoi risparmi il figlio sarà operato e non perderà la vista.
Per narrare una storia tanto patetica, Lars von Trier usa un genere di segno completamente opposto, il musical, nel quale - come dice Selma - "non avviene mai niente di male". Le realtà più terribili, la durezza del lavoro in fabbrica, la cecità, l'assassinio, il processo, l'esecuzione della condanna a morte, diventano materia di stacchi musicali e coreografici, ai quali dà l'avvio un qualche rumore percepito da Selma e subito trasformato in base ritmica. E se il difetto del musical-finzione sta, sempre secondo Selma, nel fatto che con l'ultima canzone il film finisce e si ritorna alla realtà, in questo musical-vita, di cui lei è protagonista, l'ultima canzone è bruscamente interrotta dall'impiccagione. Non si ritorna quindi alla dura realtà della vita quotidiana, ma non perché si resti nel sogno, bensì perché la vita stessa viene soppressa. Trionfo della morte o trionfo del sogno? L'autore ha una risposta (forse l'unica esplicita di tutto il film): è l'ultima canzone solo se lasciamo che sia l'ultima. Si può interpretare in modo molto cristiano: è l'ultima canzone solo se non crediamo che l'amore è più forte della morte (questa, ad esempio, è l'interpretazione di V. Fantuzzi sulla Civiltà Cattolica). E tuttavia, a ben guardare, von Trier non sta dicendo che l'ultima parola o canzone ce l'ha la forza dell'amore. L'ultima canzone semplicemente non c'è. L'amore canta la penultima canzone e l'invito del regista è a fermarsi ad essa senza voler vedere fino in fondo, senza voler ascoltare fino all'ultima canzone. Vedere fino al gesto che ridà la vista a Gene, non fino alla morte di Selma, su cui scende il silenzio e cala il sipario.
Del resto, il sacrificio di Selma non ha solo il senso di un'oblazione d'amore, ma anche quello di un'espiazione. Sulla vita di Selma pesa la colpa di aver dato la vita a Gene, pur sapendo che avrebbe ereditato la sua stessa malattia. Selma sente il bisogno di espiare questa colpa ridando la salute a Gene, ma anche perdendo la sua. Alla luce di questo si comprende meglio perché Selma rinunci a difendersi durante il processo. Come ha dichiarato von Trier nell'intervista citata, "in un certo senso è lei che decide di togliersi la vita, con l'aiuto del sistema giudiziario". Del resto, Selma viene condannata a morte per un omicidio, che in realtà è anch'esso un suicidio. Selma, infatti, uccide Bill perché egli la sta supplicando di farlo, la qual cosa non ha ovviamente alcuna credibilità agli occhi dei giudici. 
Già a un livello narrativo più profondo si scopre dunque la complessità del film: una storia melodrammatica narrata come un musical, che in realtà svela sottofondi di angosce dostojevskiane. Il pensiero va immediatamente a Delitto e castigo, ma ancor di più alla vicenda di Dmitrij nei Fratelli Karamazov (anche lui ingiustamente condannato per omicidio, ma deciso ad affrontare liberamente la pena in spirito di espiazione). Forse anche un'altra analogia si potrebbe istituire col romanzo di Dostojevskij. Accanto al personaggio che generosamente si offre per espiare la colpa, di cui è o si sente in qualche modo partecipe (il che giustifica l'eccessività del suo comportamento), ce n'è un altro assai più misurato, che incarna una bontà semplice, una solidarietà fraterna, fatta di gesti quotidiani, non clamorosi. In Dostojevskij è Alioscia, nel film di von Trier è l'amica di Selma, Kathy (interpretata da Catherine Deneuve). Mentre la generosità di Selma si configura come il gesto estremo dell'artista, che viola le regole e le convenzioni sociali, la bontà di Kathy è più prosaica, fatta di buon senso casalingo e di spirito materno. Lo spettatore è lasciato libero di pensare che in questa forma di carità più ordinaria, minimale, si celi il bene morale più autentico. Kathy è una persona "seria", anche se - le dice Selma - "essere un po' più felice non ti farebbe male". Si direbbe che in Kathy emerga la dimensione etica della vita nella sua forma più elementare, a cui manca però quella profondità estetica (il piacere) e religiosa (la fede), che rende tutto meno semplice e chiaro.
Più si approfondisce l'analisi del film, più sfuggente si rivela il senso dell'opera. È normale che lo spettatore si ponga la domanda: ma l'autore che cosa voleva dire? Che cosa voleva realizzare? Nel passare dal mondo dell'opera al mondo dell'autore si scopre che al centro dell'interesse del regista non c'è la storia materialmente raccontata, quanto piuttosto la tecnica con cui è narrata. Sotto questo aspetto, Dancer in the dark, nonostante le apparenze ostentatamente tradizionali, è un film sperimentale d'avanguardia. Estremizzando il discorso, si può dire che per Lars von Trier non contano le cose che fa vedere, ma come le fa vedere. Anche uno spettatore ignaro di tecnica cinematografica noterà che il film è stato girato con la macchina da presa usata a mano. Tutto è continuamente in movimento perché il regista va letteralmente dietro agli attori. Solo nelle scene musicali, di danza, è stata usata la videocamera fissa, anzi ben cento videocamere fisse. L'intenzione del regista è di non "inquadrare" la scena, inserendola in una cornice fissa artificiale, ma di coglierla nel suo movimento naturale "puntando" verso di essa. Per von Trier "inquadrare è delimitare, prendere le distanze da qualcosa, puntare è andare verso qualcosa". Sembrerebbe la tecnica adatta per girare un documentario più che un film, e in effetti, secondo il regista, l'anima del film del futuro è appunto la documentazione della vita vera. Ancora una volta ci troviamo spiazzati. Ci viene raccontata una storia romanzesca, melodrammatica, utilizzando un genere del tutto alieno dalla vita reale come il musical, eppure l'autore ci confida che a lui interessa soltanto una cosa: catturare immagini reali, trasmettere una vita in movimento, una live performance. Non a caso l'immagine scelta per il manifesto del film è il volto sfocato di Selma in movimento, coi capelli al vento. Questo è precisamente ciò che l'autore ha voluto farci vedere: il movimento come tale, nella sua spontaneità. Anche se per cogliere il movimento senza ingabbiarlo in una forma artificiosa è necessario mettere in opera una tecnica enormemente complicata (le cento videocamere fisse!), un controllo esasperato della scena, un montaggio elaboratissimo. Perché tutto questo sforzo tecnico? Forse perché l'autore ritiene che oggi sia dato solo questo all'artista, come al pensatore: compiere rigorose operazioni tecniche per vedere ciò che realmente c'è da vedere, che non sono gli "oggetti" visibili. Dietro le cose ferme c'è la vita in movimento. Ma per vedere il movimento bisogna vederlo in un modo diverso da come si vedono le cose. 
Tirando le somme, non si è forse troppo fuori strada se si dice che Dancer in the dark è un film sul "vedere" o più ampiamente sul percepire. La "malattia" di Selma forse non è altro che un modo di vedere la realtà diverso da tutti gli altri, il modo dell'artista o della veggente, che vede ciò che gli altri non vedono. Selma, ormai quasi del tutto cieca, canta in una delle scene più riuscite del film: "Ho visto tutto […] Ho visto ciò che ho scelto e ho visto ciò di cui ho bisogno e mi basta. Volere di più sarebbe avidità. Ho visto ciò che ero e so ciò che sarò. Ho visto tutto, non c'è nient'altro da vedere". Selma vede "dettagli", "frammenti", percepisce rumori insignificanti, immagini casuali, di cui riesce a gioire e con cui gioca costruendo delle forme artistiche. Dal caos della realtà scaturisce come per magia il suo mondo controllato dalla musica e dalla danza. In esso si può essere felici, dalla sua esperienza estetica si può trarre la forza per ritornare nel caos morale della vita. Per questo Selma, pur avendo visto poche e piccole cose, ha visto "tutto". Ha visto ciò che le serve per poter muovere qualche passo di danza nel buio. Il resto non conta. Forse, per dirla biblicamente, è solo vanità.

P. Saverio Cannistrà

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