Ai fasti di quegli anni seguì il periodo
bellico e la totale paralisi dell’industria mineraria, impossibilitata ad
esportare il carbone per la scarsa sicurezza del mar Tirreno, totalmente
controllato dagli Alleati.
Fu il carbone ad attrarre l’interesse degli
Americani nel dopoguerra, quando Carbonia contava poco meno di 50 mila abitanti,
tutti in attesa di poter riprendere la vita di sempre e quindi il benessere
garantito dalle miniere. Dopo la ripresa però la concorrenza dei carboni
inglesi e americani si fece sentire, e sulle miniere attorno a Carbonia si
affacciarono tutti i limiti tecnologici derivanti dagli scarsi investimenti.
Iniziò la costruzione di centinaia di nuovi
alloggi nella città, che cominciò ad assumere un carattere nuovo con più
servizi, centri sportivi e commerciali.
L’attivazione nell’area di Portovesme di
varie industrie, fece confluire nuove figure professionali, provenienti da molte
parti d’Italia.
La città del fascismo perse i colori della
fuliggine e del fango, per assumere le mille colorazioni di una città attiva
nei servizi del terziario, continuando comunque
a sperare nella riattivazione del bacino del Sulcis, l’unico della nazione a
disporre di 500 milioni di tonnellate di carbone, una grande risorsa dal futuro
sempre incerto.
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