Bruno Tonazzi Ricordando Bruno Tonazzi
di Alessandro Boris Amisich
Contributi



Non posso sostenere di aver conosciuto bene Bruno Tonazzi, né tantomeno di averlo frequentato. In tutto lo avrò incontrato al massimo quattro o cinque volte, sempre nella sua casa di Trieste, in un arco di tempo di pochi mesi; a ciò si aggiunga solo qualche conversazione telefonica. E’ tutto.

Non ho quindi alcun titolo per tracciarne un ritratto: molte persone lo hanno conosciuto sicuramente meglio di me. Eppure, nei miei ricordi occupa un posto rilevante e ben delineato. E quando l’amico Chiandetti mi chiese, forse senza troppa convinzione, se avessi voluto scrivere qualche parola su di lui, mi sembrò di avere comunque qualche cosa da dire, ed accettai subito.

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Agli inizi degli anni ottanta frequento la Facoltà di Lettere dell’Università di Padova con l’intenzione di laurearmi in Storia della Musica; nel 1979 mi ero diplomato in Chitarra al Conservatorio "C.Pollini" di Padova ed avevo cominciato a frequentare a Trivero i corsi estivi di perfezionamento di Angelo Gilardino. Mi sembra normale chiedere ad Angelo un argomento per la mia tesi: "Giulio Regondi!" mi consiglia prontamente, "ma devi sentire assolutamente Ruggero Chiesa e Bruno Tonazzi!"

Chiesa lo sento subito: tornando da Trivero mi fermo a Milano: mi riceve nella sua abitazione, per la prima di una serie di chiacchierate; anch’egli mi dice: "Devi consultare anche Tonazzi. E’ una vera miniera di informazioni."

E così subito dopo l’estate mi decido e telefono: voce gentile, tono basso, gli spiego le mie intenzioni. "Venga a trovarmi: ne parliamo direttamente!" Poche parole: l’indirizzo, l’appuntamento per una mattina di pochi giorni più in là. Questa conversazione sarà l’unica tra noi a svolgersi in italiano.

Prendo il treno a Padova e mi ritrovo a fare il viaggio in compagnia di una collega, cantante lirica, la quale sta andando a Trieste a trovare il fidanzato. E questo fidanzato viene ad attenderla in stazione; lei me lo presenta. Saputo del motivo del mio viaggio a Trieste, lui mi dice: "Ti porto io da Tonazzi: sali in macchina" e durante il breve tragitto, compressi dentro una vecchia Cinquecento, mi spiega che anche lui aveva studiato chitarra col maestro, il quale però non era particolarmente contento: "Non aveva tutti i torti: io la domenica andavo ad arrampicarmi sul Carso, poi andavo a lezione con le mani tutte dure, non combinavo niente di buono, e Tonazzi mi diceva - O la chitarra o la montagna!- e alla fine… è stata la montagna."

Viale D’Annunzio: le vecchie case austroungariche a cinque, sei piani. Senza ascensore. In due puntate arrivo al quinto piano. Mi apre la porta. Ho il ricordo di un ometto piccolo e gentile, dai movimenti silenziosi. Mi fa entrare in casa e subito in uno studiolo, del quale chiude la porta, isolandoci dal resto della casa e della famiglia (non vedrò mai nessun altro in quella casa, anche se ne avverto la presenza). Mi si rivolge in dialetto triestino: "Go de parlarghe in lingua o se capimo anche cussì?" ("Devo parlarle in lingua –italiana, ovviamente- o ci capiamo anche così?") Gli spiego che capisco perfettamente, dal momento che ho una madre istriana e che il mio dialetto non è poi tanto diverso dal suo. "Dal suo cognome l’avrei immaginato". Da questo momento aboliamo l’italiano. Parliamo a lungo, di Regondi, dell’Ottocento chitarristico, del lavoro che intendo fare. Lui mi riempie di informazioni bibliografiche, di indirizzi di biblioteche di tutta Europa ("Qui scriva al direttore, che si chiama ecc. ecc.; gli faccia pure il mio nome. Ah, è uno con gli occhialetti, molto antipatico") e mi traccia un percorso operativo che in realtà poi mi avrebbe permesso di risolvere tutte le mie necessità di ricerca da casa, per posta. Mi mostra anche l’edizione originale dell’op. 23 di Regondi, della quale aveva pubblicato una revisione per l’editore Zanibon. Il mio sguardo cade subito alla fine della prima riga dove un’ignota mano, forse ottocentesca, aveva rotto l’omoritmia di una successione di accordi in crome differenziando con un tratto di inchiostro seppia la nota dell’ultimo basso facendola tardare di un sedicesimo, e questa variante, oggettivamente arbitraria, si trova nella revisione Tonazzi pubblicata da Zanibon. Colgo immediatamente l’arbitrio e guardo Tonazzi con fare interrogativo, forse un po’ stupito. Con la massima ingenuità, come un bambino colto a rubare la marmellata, giustifica il suo comportamento: "Mi piaceva così." Non una parola in più. Mi fornisce articoli da riviste rare e voci da dizionari musicali. "Questi se li deve fotocopiare." Naturalmente non è un prestito a lungo termine: giù per le scale, in strada, a pochi metri c’è un tabaccaio che fa anche le fotocopie. Poi ritorno su. Ancora una volta facendo le scale in due puntate.

Cerca, nel darmi aiuto, di essere il più completo possibile. Anche a suo svantaggio. Nel fornirmi la bibliografia per le ricerche su Regondi mi passa anche un paio di suoi articoli da L’Arte Chitarristica: sono articoli scritti in un italiano alquanto particolare, specie per ciò che concerne l’uso degli ausiliari (tanto che il mio relatore penserà ad errori miei e … mi correggerà le citazioni). Con grande onestà Tonazzi mi consegna questi articoli ma, lo vedo bene, un po’ se ne vergogna, ne minimizza l’importanza, mette – come si dice –le mani avanti: "Sa, li ho scritti tanti anni fa…". A casa, leggendoli con calma, vedrò che aveva espresso un giudizio negativo sull’opera di Castelnuovo Tedesco, giudizio di cui evidentemente si era pentito.

Parliamo più volte di revisioni; ha le idee piuttosto chiare: "Eh, Tizio non sa assolutamente diteggiare…". Tizio è un nome importante, una figura preminente nel mondo dell’editoria chitarristica italiana e mondiale, ma mi sia concesso di non renderne esplicito il nome.

E’ alla fine del nostro primo incontro, sono già sulla porta del suo studio, che mi ferma dicendo: "Devo mostrarle una cosa." Mi fa tornare indietro, apre uno scaffale, ne trae delle fotocopie e mi si avvicina, come se in mano avesse una reliquia. Un articolo in croato. Ancora più sottovoce del solito, come un cospiratore: "Lei, con quel cognome, saprà certamente capire cosa c’è scritto in questo articolo." Ivan Padovec: è la prima volta che sento quel nome. "Il più importante chitarrista croato dell’Ottocento; sto raccogliendo del materiale, tra Lubiana, Vienna, Zagabria ed altre biblioteche." Purtroppo non sono in grado di aiutarlo direttamente: "No, maestro, non so tradurre dal croato, ma mio padre è di madrelingua croata; se le fa piacere, chiederò a lui di riassumere i contenuti di questo articolo." Mio padre, in realtà, si appassiona al personaggio di Padovec e traduce l’intero articolo, così che in una delle mie visite successive a Trieste ho modo di riportare a Tonazzi l’articolo con la relativa traduzione, completa.

Una volta vado a trovarlo con quella che poi sarebbe diventata mia moglie. Ci fa accomodare, come al solito, poi si preoccupa di offrirci qualcosa da bere. "Acqua e menta va bene?" Va bene: si alza, esce, chiude la porta, va in cucina a dare istruzioni, ritorna. "Adesso arriva subito." Non è vero, passa quasi mezz’ora e non arriva niente: "Ah, l’acqua e menta!" si rialza, va a ricontrollare in cucina. Succederà due o tre volte. Finalmente la moglie si avvicina alla porta dello studio, bussa con estrema delicatezza sul vetro. Lui si alza, esce e rientra finalmente con l’acqua e menta su un vassoio. La moglie non la vedrò mai. E ho la sensazione che la menta l’abbia mandata ad acquistare.

Questi pochi incontri con Tonazzi hanno segnato la mia attività per circa un ventennio: su Regondi ho sviluppato la mia tesi di laurea e poi una serie di articoli per Il Fronimo, un volume per le edizioni Ottocento di Ancona, un inserto monografico su Guitart. Il progetto che Tonazzi aveva su Padovec è stato interrotto dalla scomparsa del maestro. A me è sembrato normale subentrare a lui col desiderio di riqualificare il chitarrista croato e di riproporne l’opera. Ho dapprima pubblicato sul Fronimo ciò che era contenuto nell’articolo che avevo ricevuto da Tonazzi, ho continuato le ricerche, ho inciso un CD con le cinque Fantasie su temi belliniani, ho avuto contatti con la Società Croata di Musicologia, che nel 2000 mi ha invitato –unico italiano- a Zagabria per un convegno internazionale su Ivan Padovec nel bicentenario della nascita. Gli atti del convegno stanno per uscire in Croazia, ma molti dei contributi sono in via di pubblicazione sulla rivista Guitart.

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Più di così farei fatica a trovare elementi da ricordare: le nostre esistenze in effetti si sono incrociate per un periodo molto breve e su argomenti piuttosto limitati: non so se queste poche righe possano avere un significato per qualcun altro, oltre che per me. Io le ho scritte volentieri nella speranza che possano contribuire a mantenere viva la memoria di un personaggio che ricordo con estrema gratitudine per ciò che ha saputo trasmettermi nella più assoluta gratuità in termini professionali ed umani.

 

Alessandro Boris Amisich

Padova, 6 novembre 2001

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