LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

CULTURA

PRIME TESTIMONIANZE SULLA PRESENZA DI SARAGAT A SAVIGLIANO

SI RIPORTA QUI DI SEGUITO LA LETTERA CON LA QUALE LUIGI BOTTA HA DATO RISPOSTA AL SINDACO DELLA CITTÀ DI SAVIGLIANO CHE, CON SUA MISSIVA, AVEVA RICHIESTO ALLO STESSO QUALI FOSSERO LE NOTIZIE IN SUO POSSESSO RELATIVE ALL'ARGOMENTO «SARAGAT A SAVIGLIANO»

(risposta al prot. 34778 del 19 ottobre 2001 ricevuta il 22 ottobre 2001)

Caro Soave, siccome la lettera che mi sollecita a documentare il passaggio del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat a Savigliano mi è stata inviata in qualità di Consigliere comunale, ritengo opportuno dividere in due parti la mia risposta. La prima investe, appunto, la mia funzione di Consigliere; la seconda, invece, contempla il mio ruolo di appassionato, di ricercatore e cultore di storia ed arte saviglianesi. A conclusione mi permetto di sollecitare alcune meditazioni sull'argomento.

1) Come Consigliere debbo purtroppo lamentare che l'Amministrazione, forse coinvolta entusiasticamente nell'ipotesi che il supermercato Leclerc potesse approdare a Savigliano in tempi rapidissimi, si è ricordata della mia segnalazione relativa al rifugio del Presidente Saragat soltanto nel momento in cui, da strettamente locale quale poteva originariamente apparire, tale segnalazione ha assunto i suoi veri connotati sollecitando interventi ed interessamenti esterni, anche nazionali (interrogazioni parlamentari, segnalazioni al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, al Ministro per i Beni Culturali, alla competente Soprintendenza, agli istituti Storici, ecc.). Solo allora, e cioè da circa un mese a questa parte, l'argomento è diventato oggetto di considerazione, di articoli, di lettere, di interventi più o meno mirati, anche a livello locale.

Ho sostenuto, e sostengo, che nel corso dell'ultimo conflitto mondiale il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat abbia trovato rifugio a Savigliano, nel rustico ancor oggi esistente poco fuori il centro urbano in direzione di Saluzzo. Rustico che dovrebbe essere abbattuto per far spazio ad un piazzale destinato al parcheggio auto del supermercato.

Avevo segnalato la questione nel corso del Consiglio comunale dell'1 giugno 2000. Non che sperassi che la pubblica Amministrazione mettesse a disposizione delle mie ricerche -perché così sarebbe sicuramente stato fatto, penso ovunque- alcune delle strutture culturali comunali, visto che l'argomento poteva risultare di grande interesse non soltanto locale, ma immaginavo, almeno, che l'inedito racconto dell'avvenimento che vedeva protagonista il Presidente della Repubblica avesse potuto destare interesse e sollecitare una giusta ed apprezzata curiosità. Con finalità storico-documentaristica. Invece sin da subito ero stato additato come visionario e sognatore. In seguito, poi, ero stato fatto oggetto di sfottò, canzonature, battutine ironiche, da parte di alcuni amministratori che vedevano nella mia azione un serio ostacolo -o meglio l'ennesimo disturbo ad un'azione che avrebbe dovuto essere lineare e priva di difficoltà, perché così presentata più o meno ufficialmente- all'approdo saviglianese della Leclerc. Male interpretando -e forse anche con un po' di malizia e malafede- il concetto che ispirava la mia battaglia culturale. Fare luce su un avvenimento importante per la storia della nostra comunità e del nostro Paese. Taluni, tra il serio ed il faceto, mi avevano addirittura sollecitato a spiegare il motivo per cui mi ero inventato questa vicenda. Altri mi avevano invece redarguito invitandomi a spiegare perché prima d'ora nessuno aveva segnalato la questione (citando per questo le testimonianze dei vari Viale, Garau, Macchiolo, Petitti, Delzanno, colonne portanti della socialdemocrazia saviglianese, che interpellati -secondo quanto riferitomi- avevano confidato di non aver mai sentito parlare di tale storia). Altri ancora mi avevano apostrofato dicendo che soltanto i documenti, quelli d'archivio, e niente altro, avrebbero potuto far fede: quasi come se un fuggiasco a rischio della vita, braccato dalla polizia di regime, avesse dovuto e voluto preoccuparsi, al suo segreto arrivo in città, di lasciare tracce documentarie ed archivistiche da poter mostrare un giorno, cinquanta e più anni dopo, a chi in modo incredulo non si sarebbe fidato di nulla e avrebbe preteso il «nero su bianco». Non scherziamo!

Caro Sindaco, sappi che in certi momenti -e tu, che sei un ricercatore di storia contemporanea e che comprendi cosa significhi sollecitare riscontri ed essere in qualche modo ostacolato o non creduto, potrai capirmi- è stato umiliante. Soprattutto quando ho compreso che i miei solleciti erano inascoltati e che la mia «battaglia» amministrativa e politica stava per finire nel dimenticatoio per una scelta di pericoloso e problematico silenzio da parte di chi avrebbe dovuto istituzionalmente occuparsi del problema. Da solo, senza trasferire la vicenda ad altri livelli, non avrei potuto farcela. Mi sentivo preso in giro. L'ho capito quando mi è stato riferito in più sedi che i vecchi socialdemocratici, interpellati dalla maggioranza e citati uno per uno, con nome e cognome, avevano sorriso di fronte alla notizia da me segnalata. Perché sapevo che nessuno li aveva cercati, nessuno si era degnato di interpellarli. Due di essi, addirittura (Petitti e Delzanno), erano morti il 26 aprile 1999 e il 19 luglio 1999, rispettivamente tredici ed undici mesi prima che io rendessi note al Consiglio le mie prime segnalazioni sul caso. Il citarli come interpellati era dunque una «balla» astronomica. Un'invenzione colossale per demotivarmi, sminuire ed accantonare il mio lavoro.

La storia dei socialdemocratici saviglianesi, quelli che mi venivano citati, era purtroppo finita quasi drammaticamente, qualche anno prima, nella discarica di inerti di via Sanità, tra terriccio, calce, mattoni, coppi rotti ed intonaci abbandonati da muratori o cittadini. La bandiera del «sol levante», l'archivio della sezione saviglianese, con lettere, tessere, documenti, mobili ed altro, erano stati consegnati alla «storia» dell'oblio e dell'abbandono da chi -rigattiere od impresa- aveva ripulito i locali della sezione. Ed il sole (quello naturale, non molto politicizzato) e la pioggia, oltre ad altri detriti sovrappostisi, avevano decretato definitivamente la fine politica, culturale e sociale del nucleo saviglianese facente capo all'ideologia saragattiana. Una ritardata segnalazione aveva impedito a me e ad alcuni amici, accorsi sul luogo, di recuperare anche soltanto un foglio con il simbolo del partito. Troppe settimane erano purtroppo trascorse dal giorno del conferimento in discarica e troppi detriti si erano sovrapposti alle testimonianze partitiche del «sol levante», cancellando anche il più modesto ma tangibile segnale di questo passaggio.

Come potevo, io, credere che il principio della conservazione, della «memoria», del rispetto del trascorso e della trasmissione al futuro dei segnali di un passato che andava conservato, fossero presenti in chi -e qui mi riferisco chiaramente, anche se spiacevolmente, alla Tua maggioranza- mi aveva risposto che un wc pubblico poteva anche costruirsi a ridosso del monumento allo Schiaparelli -il più importante astronomo del secolo scorso-, in quanto più utile e significativo del monumento stesso (perché lo aveva richiesto la Consulta anziani e perché la maggioranza aveva i numeri per compiere anche questa scelta), e un altro wc andava bene fosse ricavato nello storico muro di cinta della chiesa matrice della Pieve! Come potevo pensare fosse presente in chi non sapeva che l'intonaco eliminato in via Pietro Santa Rosa nascondeva una significativa insegna graffita di uno speziaro settecentesco, riteneva sufficiente la fotografia per documentare la scritta partigiana «Barberis presente», che appare su un muro del centro e che rappresenta ancor oggi -fin quando non verrà cancellata- il simbolo della Resistenza saviglianese, e non gli interessava che si conservasse la grande scritta mussoliniana -già riprodotta su volumi di storia, per la quale Tu, pubblicamente, spendesti parole favorevoli alla salvaguardia- dipinta sull'arco di via Alfieri! Come potevo io immaginare -Ti invito a meditare, caro Sindaco- che fosse presa in considerazione l'ipotesi di conservare addirittura un edificio rurale la cui estetica faceva difficoltà a farsi riconoscere, non era neppure tanto antico (due secoli, o giù di lì), ma si era trovato per caso ad insistere su un terreno «salvato» dal transito ottocentesco della strada e divenuto col tempo appetibile perché non più destinato all'agricoltura ma misurabile con il metro dell'edilizia e dell'investimento speculativo!?

Non è stato facile continuare a sostenere le mie tesi cercando di far chiarezza e sollecitando al dibattito chi non era per nulla coinvolto e convinto della credibilità delle mie parole. Come Consigliere comunale -credimi, caro Sindaco- più volte sono stato tentato di lasciar perdere e di abbandonare al destino dell'ignavia l'edificio che ospitò il Presidente della Repubblica! Pur continuando, per contro, come studioso ed appassionato di cose locali, a documentare le circostanze del passaggio dell'importante personaggio ed indagare, ove possibile, tra testimonianze ormai difficili e documenti d'archivio difficilmente reperibili, la veridicità di un ben preciso e circostanziato periodo della nostra storia.

La prima ed unica volta che tra di noi si è parlato seriamente dell'argomento è stato quando, non più tardi di una quindicina o ventina di giorni or sono, Ti ho cercato per comprendere i motivi della Tua reazione poco controllata all'interrogazione parlamentare presentata dall'on. Katia Bellillo. E sono stato io a chiederTi il perché di un silenzio, pesantissimo (data la posta in palio), durato circa un anno.

2) Come appassionato e cultore di storia ed arte saviglianesi non ho mai avuto dubbi. Sin dall'epoca della prima segnalazione mi ero convinto che la vicenda -così come moltissime altre che ho indagato nel tempo- andava comunque approfondita e sviscerata. Per difficile che fosse, ero sicuro: qualche elemento significativo -se non si trattava di uno «scherzo» inventato ad arte per portarmi fuori strada e ridicolizzarmi (ma così non poteva essere perché la credibilità delle prime notizie non poteva essere messa in dubbio)- sarebbe sicuramente venuto alla luce. E, con il trascorrere del tempo e l'intensificarsi delle indagini, mi sono convinto sempre più che il Presidente Giuseppe Saragat è stato ospitato -non so ancora per quanto tempo e non so neppure se verrò mai a saperlo- nella casetta che offre la sua facciata alla scritta «Duce a noi» e che si trova sulla strada statale per Saluzzo. Le testimonianze e le verifiche di conferma sono numerose, non ancora completate, e l'organizzazione globale ragionata di tutto il materiale documentaristico risulta tutt'ora in fase di ordinamento.

La notizia, più di due anni fa, mi era stata riferita da un saviglianese (che vuol ancor oggi mantenere l'anonimato), il quale null'altro aveva saputo dire oltre al fatto che Saragat era stato in quella casa. Non conosceva ulteriori particolari. Affermava, però, che tale notizia non poteva assolutamente considerarsi riservata -perché un tempo era insistentemente circolata in alcuni ambienti cittadini- e che comunque risaliva all'immediato dopo guerra.

Altra testimonianza anonima più o meno contemporanea alla precedente -sin qui priva di ogni conferma, anche se riferita da più parti e comunemente sottolineata anche in altri luoghi- osservava che il Presidente Saragat era stato in Savigliano, prima, durante e dopo il settennato, in forma riservatissima e privata, frequentando addirittura un cortile del centro, dove sarebbe stato visto.

Per più mesi non avevo reperito, pur interpellando persone che all'epoca avevano assunto ruoli anche importanti, alcun riscontro a questa prima significativa segnalazione. Era però un ex sindaco, in tre distinte «confidenze» avute a distanza di tempo l'una dall'altra, ad intervenire nei miei confronti per: a) confermarmi che il Presidente Giuseppe Saragat, in fuga da «Regina Coeli», era stato nascosto nel chiabotto della Vernetta; b) invitarmi a compiere ricerche catastali perché il chiabotto in questione apparteneva al noto esponente socialdemocratico di origine torinese; c) sollecitarmi ad indagare tra i vecchi muratori e le imprese cittadine perché proprio un muratore aveva eseguito, all'interno dell'edificio, un rifugio segreto e sicuro nel quale nascondere l'uomo politico ricercato dalla polizia fascista.

La prima ricerca d'archivio, quella relativa alla proprietà, non aveva offerto purtroppo risultati. Il nome di Saragat non era apparso da alcuna parte. L'immobile, dunque, non era stato tra le proprietà del Presidente. Risultava invece ricorrente, anche all'epoca dell'indagine, il cognome di Marchisone, ancora intestatario dell'edificio e del terreno circostante: un cognome che a prima vista non diceva più di tanto ma che, con un'appendice di ricerche, veniva invece riferito correttamente a quello della famiglia materna del Presidente della Repubblica. Che risultava, come appare evidente dalle ricerche storiche compiute presso l'archivio saviglianese, essere proprietaria dell'immobile da circa un secolo ed aver avuto per buona parte di questo tempo la residenza proprio in detto edificio.

La testimonianza raccolta presso l'ultima erede -direttamente interessata dal «Piano» presentato in Comune che prevede il cambio di destinazione di immobile e terreno con insediamento del supermercato- risultava essere particolarmente importante. Pur con estrema modestia e senza toni trionfalistici, dichiarava di essere stata parente di Giuseppe Saragat. Ricordava che tra le proprie carte conservava ancora una vecchia fotografia nella quale «una donnina» -che riconosceva nella mamma del Presidente, propria parente, appunto- era seduta nel cortile ed alle sue spalle appariva la facciata Sud del piccolo edificio di via Saluzzo. A titolo di curiosità faceva anche osservare che in famiglia l'idea e la memoria di questa importante parentela non era mai nè stata sbandierata nè stata sfruttata. Raccontava infatti che quando Saragat ricopriva la più alta carica dello Stato, in famiglia si era addirittura pensato di inviargli una lettera di indiretta richiesta di lavoro. Questa lettera doveva riguardare lei, che, giovane, stava attendendo ad un primo impiego. Circa l'ipotesi che il Presidente avesse trovato rifugio nella casa di Savigliano, la proprietaria, residente a Fossano, diceva di non possedere notizie.

Una prima importante conferma, dunque, giungeva indirettamente da questa testimonianza: la proprietà dell'immobile, come documentato dai dati conservati presso l'Archivio storico saviglianese e raccolti in sequenza ragionata, dopo Giuseppe Giudice, Luigia Barolo vedova Calandra, il notaio Federico Mussa e l'Ospedale dei Cronici, era passata da circa un secolo alla famiglia Marchisone, e più precisamente a Giovanni, figlio del fu Giuseppe, ed ai suoi successivi eredi, sino a giungere all'attuale proprietaria.

Senza riscontro era invece la notizia che un muratore avesse contribuito attivamente a nascondere in un rifugio sicuro ricavato nel chiabotto il Presidente Giuseppe Saragat. Per mesi e mesi, sollecitando vecchi impresari ed interpellando gli artigiani saviglianesi del settore, avevo cercato riscontro, senza trovarlo, alle parole dell'ex sindaco della città. Sembrava che la notizia dovesse essere priva di fondamento. Troppi erano stati coloro che avevano lavorato al servizio dell'edilizia: forse cento, centocinquanta o forse anche più persone. Moltissime erano decedute, tante non abitavano più a Savigliano e tante avevano lavorato in città ma provenivano da altri centri. Era un po' come cercare un ago nel pagliaio. E solo la fortuna poteva dare una mano concreta.

E così, in effetti, è stato. Nel giugno 2001 un avvocato mi segnalava infatti che un suo cliente anziano, spontaneamente, lo aveva interpellato per sapere se era opportuno che mi contattasse personalmente per testimoniarmi -visto che ormai questa vicenda era diventata di dominio pubblico e che nulla dunque risultava più riservato- quel che sapeva in relazione alla permanenza saviglianese del Presidente della Repubblica. L'avvocato faceva osservare che il suo cliente, stando al racconto che aveva fatto, fino a cinque o sei lustri fa, era stato a contatto più volte la settimana, per anni ed anni, con un muratore nei cui discorsi l'argomento in questione veniva periodicamente affrontato. L'artigiano di tanto in tanto gli confidava, con la massima riservatezza, circa i rapporti, sovente quotidiani, che aveva con Saragat. E, ciò, prima, durante e dopo il settennato. Affermava di averlo aiutato a nascondersi a Savigliano e pertanto ogni qualvolta era in difficoltà ricorreva all'illustre politico, il quale gli ricambiava il piacere fornendogli i necessari sostentamenti. Il muratore non era sposato. Era un solitario e viveva in via San Francesco. L'avvocato faceva rilevare che il suo cliente si era deciso a parlare perché aveva eliminato ogni dubbio circa la veridicità o meno dei racconti fatti a suo tempo dal muratore. In effetti -raccontava l'anziano testimone- ogni qualvolta veniva fatto il nome di Saragat, pur nella discrezione che caratterizzava la figura del muratore, era naturale chiedersi se credere o no a quelle parole. Era, sì, una persona seria e rispettabile, ma la storia che raccontava poteva apparire esagerata e poco credibile.

Quando avevo poi avuto l'opportunità di sentire dalla viva voce del testimone l'intero racconto, le conferme a quanto già anticipato dall'avvocato giungevano precise. Non soltanto: l'uomo, pur dichiarando che non aveva mai voluto approfondire l'argomento con l'interessato, per non metterlo in difficoltà o comunque sottoporlo ad un interrogatorio che non sembrava proprio opportuno, trattandosi di confidenza personale, si era poi preoccupato di indagare personalmente e, morto il muratore, aveva voluto sentire e contattare anche altre persone. Tra queste, in particolare, coloro che nel periodo del secondo conflitto bellico, abitando poco distante dal chiabotto, erano stati praticamente i primi vicini del Presidente. Persone ch'egli conosceva abbastanza bene e che oggi non abitano più a Savigliano. Costoro, pur senza ammetterlo ufficialmente (quasi si trattasse di un segreto da mantenere) non avevano mai negato che Saragat fosse passato e si fosse fermato in quella casa, anche perché, dichiaravano (confermandolo e riconfermandolo in tempi e circostanze anche abbastanza recenti, che il testimone ricorda e cita [ad esempio un raduno degli Alpini a Vernante]) che l'edificio aveva a lungo ospitato, sfollata da Torino, la mamma di Saragat. Il rifugio in quella casa da parte dell'uomo politico ricercato nulla era se non un momentaneo ritorno dalla genitrice, quindi, praticamente, un ritorno a casa. Riferendosi al muratore aveva raccontato di alcune sue abitudini -utili per approfondire ulteriormente l'argomento- ricordando, siccome lo conosceva abbastanza bene, il ritmo della sua giornata e i luoghi della sua quotidianità, sino agli ultimi anni della sua vita.

Il problema, dunque, era quello di cercare conferme circa la veridicità dei ripetuti racconti del muratore e la serietà delle sue affermazioni. Indagando innanzitutto i suoi ambienti di lavoro, gli ex vicini di casa, il caffè che frequentava e coloro che, seppure con obiettive difficoltà, avevano potuto essergli stati amici.

Un ex partigiano lo ricorda come persona integerrima, mal disposta allo scherzo, solitaria e sensibile. Abbastanza anonimo e riservato, non sempre in sintonia con gli amici del caffè, sovente chiacchieroni e sbruffoni. Non solo non gli aveva mai raccontato del suo intervento a favore del Presidente Saragat, ma nel modo più assoluto non rivelava mai ad alcuno i suoi fatti personali. Interrogato, questo ex partigiano, circa la veridicità della notizia della permanenza saviglianese di Saragat dichiarava che all'epoca non poteva esserne al corrente perché era stato avviato all'attivismo di combattente per la libertà proprio nei giorni della fuga del premier politico dal carcere di Roma, e pertanto tale notizia, anche se potenzialmente conosciuta nei suoi ambienti, gli veniva tenuta segreta. Faceva però sapere che a Savigliano il suo gruppo partigiano era allertato perché un personaggio importante, del quale conoscevano soltanto l'indicazione del codice cifrato, trovava rifugio in città. Che fosse Saragat non lo può giurare. Affermava però che, dopo la guerra, la notizia che l'esponente socialdemocratico si era nascosto a Savigliano era di pubblico dominio negli ambienti degli ex combattenti.

La conferma diretta giungeva dalla testimonianza di un altro ex sindaco, anch'egli partigiano, attivo in una località diversa da Savigliano. Faceva osservare che quanto si diceva in giro in periodo post bellico ed in alcuni ambienti cittadini, era un fatto anche precedentemente noto tra i componenti della sua squadra. I partigiani che operavano con lui sul finire del '43 sapevano che Giuseppe Saragat si trovava ospite fuggiasco di Savigliano.

Gli ex vicini di casa del muratore ne parlavano particolarmente bene, come pure gli impresari ed i muratori con i quali aveva avuto a che fare. Veniva da tutti descritto come persona seria, anche se solitaria. Non partecipava, ad esempio, ai festeggiamenti ed ai pranzi organizzati annualmente dalla categoria e non sempre versava la sua quota di tesseramento. Non amava le compagnie chiassose e neppure l'imposizione del divertimento a tutti i costi. Sarebbe stata proprio la solitudine -e la pessima abitudine di un'alimentazione sbagliata- a portarlo prematuramente a morte (avvenuta non si sa bene perché ad Orbassano) a metà degli anni Settanta.

Non era solito legarsi allo stesso datore di lavoro e sovente, per un senso di libertà che riteneva probabilmente uno degli scopi della sua vita e che viene narrato un po' da tutti come un suo elemento di caratterizzazione, non esitava ad abbandonare uno stipendio sicuro per ricercare altrove nuovi e più consoni ambienti di lavoro. Era anche stato dipendente dell'Amministrazione comunale, con l'incarico, appunto, di muratore.

La circostanza di questo impiego non è «trasparente» e rappresenta un'altra importante tessera destinata a far chiarezza circa il ruolo avuto dallo stesso, in periodo bellico, nel nascondere in Savigliano l'importante uomo politico. Una lettura attenta dei documenti conferma che il suo operato fu probabilmente premiato con l'assunzione presso la struttura municipale. Ad occuparsene personalmente, evitando il rispetto delle regole che erano e sono rigorose, era stato quasi certamente proprio il sindaco della Liberazione, Mario Franco, il quale era sicuramente stato messo al corrente dell'azione intrapresa dal suo concittadino. Nell'ottobre del 1945 il muratore, infatti, risulta dipendente del Comune. Messo a busta paga senza concorso e senza delibera di Giunta (come invece avveniva ed avviene per tutti). In pratica risulta in organico presso l'Amministrazione senza mai essere stato assunto. E non si tratta di un errore o della sparizione di documenti dalla cartella personale. È così, e l'archivio impone una chiave di lettura che non può essere diversamente interpretata. La conferma, infatti, giunge con la disamina del materiale cartaceo che si riferisce agli inizi del 1949, quando il muratore si licenzia e la deliberazione di Giunta che accetta le dimissioni non fornisce notizia della sua assunzione (come invece avviene con tutti gli altri dipendenti). Si limita a documentare soltanto l'avvio del servizio, che non corrisponde neppure a quello reso noto in dichiarazione dallo stesso dipendente. Ciò significa che egli entrò nell'Amministrazione senza formalità, lavorò senza immediata pretesa di stipendio e venne messo a libro paga soltanto successivamente.

Altre ulteriori conferme si aggiungevano alle già citate, confermando molti passi della storia in questione. Altre, ancora, sono in fase di raccolta. La lettura ragionata dell'intera documentazione conferma la perfetta veridicità e credibilità della vicenda. Il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat trovò rifugio a Savigliano, nella casetta situata in regione Vernetta, sul lato sinistro della strada che conduce a Saluzzo. La casetta che fu già dei suoi avi.

È chiaro che tutto quanto qui precedentemente raccontato è documentato da testimonianze (soltanto due anonime, ma ormai superate e non più determinanti). Che sono in via di ordinamento. Nel momento in cui l'indagine si riterrà conclusa sarà mia premura trasmettere l'intero dossier completo di tutta la documentazione.

3) Ci si può chiedere quale valore la nostra città debba attribuire ad un fatto apparentemente di non molta importanza avvenuto nel pieno della Resistenza clandestina al regime fascista.

Il fatto è che nel nostro territorio sono assolutamente mancanti le testimonianze visibili delle lotte che gli oppositori al fascismo condussero nel periodo più buio del secondo conflitto mondiale. Se si dovessero additare ai nostri giovani le tracce materiali e simboliche di questa guerra interna, che tanto costò in lutti e lacrime, ben poco ci sarebbe da mostrar loro. Neppure le scritte sui muri, neppure i monumenti, neppure le lapidi. Se non le due o tre risalenti all'immediato dopo guerra, assolutamente insufficienti per comunicare qualsiasi messaggio relativo alla complessità della nostra recente storia.

Per questo motivo attribuire alla permanenza del fondatore di un grande partito popolare, di un uomo dal coraggio e dall'intelletto eccezionali, di un Presidente della nostra Repubblica di statura internazionale, di un Padre della nostra Costituzione, un significato che trascenda la modestia dell'episodio saviglianese, rappresenta una scelta di cultura di elevato livello.

È un dovere, quindi, per un sindaco come Te, certo sensibile ai valori lasciatici dalla Resistenza, saper cogliere con la dovuta sensibilità questa occasione di mostrare che Savigliano non ha dimenticato il messaggio trasmessoci dai combattenti per la libertà, anzi, si è fatta voce forte e coerente per impedire l'oblio che da tempo sta purtroppo coprendo i fulgidi anni della Resistenza.

Cordialità

luigi botta

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