LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO |
CULTURA |
|
PRIME
TESTIMONIANZE SULLA PRESENZA DI SARAGAT A
SAVIGLIANO SI
RIPORTA QUI DI SEGUITO LA LETTERA CON LA QUALE
LUIGI BOTTA HA DATO RISPOSTA AL SINDACO DELLA
CITTÀ DI SAVIGLIANO CHE, CON SUA MISSIVA,
AVEVA RICHIESTO ALLO STESSO QUALI FOSSERO LE
NOTIZIE IN SUO POSSESSO RELATIVE ALL'ARGOMENTO
«SARAGAT A SAVIGLIANO» (risposta
al prot. 34778 del 19 ottobre 2001 ricevuta il 22
ottobre 2001) Caro
Soave, siccome
la lettera che mi sollecita a documentare il
passaggio del Presidente della Repubblica Giuseppe
Saragat a Savigliano mi è stata inviata in
qualità di Consigliere comunale, ritengo
opportuno dividere in due parti la mia risposta. La
prima investe, appunto, la mia funzione di
Consigliere; la seconda, invece, contempla il mio
ruolo di appassionato, di ricercatore e cultore di
storia ed arte saviglianesi. A conclusione mi
permetto di sollecitare alcune meditazioni
sull'argomento. 1)
Come Consigliere debbo purtroppo lamentare che
l'Amministrazione, forse coinvolta
entusiasticamente nell'ipotesi che il supermercato
Leclerc potesse approdare a Savigliano in tempi
rapidissimi, si è ricordata della mia
segnalazione relativa al rifugio del Presidente
Saragat soltanto nel momento in cui, da
strettamente locale quale poteva originariamente
apparire, tale segnalazione ha assunto i suoi veri
connotati sollecitando interventi ed interessamenti
esterni, anche nazionali (interrogazioni
parlamentari, segnalazioni al Presidente della
Repubblica, al Presidente del Consiglio, al
Ministro per i Beni Culturali, alla competente
Soprintendenza, agli istituti Storici, ecc.). Solo
allora, e cioè da circa un mese a questa
parte, l'argomento è diventato oggetto di
considerazione, di articoli, di lettere, di
interventi più o meno mirati, anche a
livello locale. Ho
sostenuto, e sostengo, che nel corso dell'ultimo
conflitto mondiale il Presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat abbia trovato rifugio a
Savigliano, nel rustico ancor oggi esistente poco
fuori il centro urbano in direzione di Saluzzo.
Rustico che dovrebbe essere abbattuto per far
spazio ad un piazzale destinato al parcheggio auto
del supermercato. Avevo
segnalato la questione nel corso del Consiglio
comunale dell'1 giugno 2000. Non che sperassi che
la pubblica Amministrazione mettesse a disposizione
delle mie ricerche -perché così
sarebbe sicuramente stato fatto, penso ovunque-
alcune delle strutture culturali comunali, visto
che l'argomento poteva risultare di grande
interesse non soltanto locale, ma immaginavo,
almeno, che l'inedito racconto dell'avvenimento che
vedeva protagonista il Presidente della Repubblica
avesse potuto destare interesse e sollecitare una
giusta ed apprezzata curiosità. Con
finalità storico-documentaristica. Invece
sin da subito ero stato additato come visionario e
sognatore. In seguito, poi, ero stato fatto oggetto
di sfottò, canzonature, battutine ironiche,
da parte di alcuni amministratori che vedevano
nella mia azione un serio ostacolo -o meglio
l'ennesimo disturbo ad un'azione che avrebbe dovuto
essere lineare e priva di difficoltà,
perché così presentata più o
meno ufficialmente- all'approdo saviglianese della
Leclerc. Male interpretando -e forse anche con un
po' di malizia e malafede- il concetto che ispirava
la mia battaglia culturale. Fare luce su un
avvenimento importante per la storia della nostra
comunità e del nostro Paese. Taluni, tra il
serio ed il faceto, mi avevano addirittura
sollecitato a spiegare il motivo per cui mi ero
inventato questa vicenda. Altri mi avevano invece
redarguito invitandomi a spiegare perché
prima d'ora nessuno aveva segnalato la questione
(citando per questo le testimonianze dei vari
Viale, Garau, Macchiolo, Petitti, Delzanno, colonne
portanti della socialdemocrazia saviglianese, che
interpellati -secondo quanto riferitomi- avevano
confidato di non aver mai sentito parlare di tale
storia). Altri ancora mi avevano apostrofato
dicendo che soltanto i documenti, quelli
d'archivio, e niente altro, avrebbero potuto far
fede: quasi come se un fuggiasco a rischio della
vita, braccato dalla polizia di regime, avesse
dovuto e voluto preoccuparsi, al suo segreto arrivo
in città, di lasciare tracce documentarie ed
archivistiche da poter mostrare un giorno,
cinquanta e più anni dopo, a chi in modo
incredulo non si sarebbe fidato di nulla e avrebbe
preteso il «nero su bianco». Non
scherziamo! Caro
Sindaco, sappi che in certi momenti -e tu, che sei
un ricercatore di storia contemporanea e che
comprendi cosa significhi sollecitare riscontri ed
essere in qualche modo ostacolato o non creduto,
potrai capirmi- è stato umiliante.
Soprattutto quando ho compreso che i miei solleciti
erano inascoltati e che la mia
«battaglia» amministrativa e politica
stava per finire nel dimenticatoio per una scelta
di pericoloso e problematico silenzio da parte di
chi avrebbe dovuto istituzionalmente occuparsi del
problema. Da solo, senza trasferire la vicenda ad
altri livelli, non avrei potuto farcela. Mi sentivo
preso in giro. L'ho capito quando mi è stato
riferito in più sedi che i vecchi
socialdemocratici, interpellati dalla maggioranza e
citati uno per uno, con nome e cognome, avevano
sorriso di fronte alla notizia da me segnalata.
Perché sapevo che nessuno li aveva cercati,
nessuno si era degnato di interpellarli. Due di
essi, addirittura (Petitti e Delzanno), erano morti
il 26 aprile 1999 e il 19 luglio 1999,
rispettivamente tredici ed undici mesi prima che io
rendessi note al Consiglio le mie prime
segnalazioni sul caso. Il citarli come interpellati
era dunque una «balla» astronomica.
Un'invenzione colossale per demotivarmi, sminuire
ed accantonare il mio lavoro. La
storia dei socialdemocratici saviglianesi, quelli
che mi venivano citati, era purtroppo finita quasi
drammaticamente, qualche anno prima, nella
discarica di inerti di via Sanità, tra
terriccio, calce, mattoni, coppi rotti ed intonaci
abbandonati da muratori o cittadini. La bandiera
del «sol levante», l'archivio della
sezione saviglianese, con lettere, tessere,
documenti, mobili ed altro, erano stati consegnati
alla «storia» dell'oblio e dell'abbandono
da chi -rigattiere od impresa- aveva ripulito i
locali della sezione. Ed il sole (quello naturale,
non molto politicizzato) e la pioggia, oltre ad
altri detriti sovrappostisi, avevano decretato
definitivamente la fine politica, culturale e
sociale del nucleo saviglianese facente capo
all'ideologia saragattiana. Una ritardata
segnalazione aveva impedito a me e ad alcuni amici,
accorsi sul luogo, di recuperare anche soltanto un
foglio con il simbolo del partito. Troppe settimane
erano purtroppo trascorse dal giorno del
conferimento in discarica e troppi detriti si erano
sovrapposti alle testimonianze partitiche del
«sol levante», cancellando anche il
più modesto ma tangibile segnale di questo
passaggio. Come
potevo, io, credere che il principio della
conservazione, della «memoria», del
rispetto del trascorso e della trasmissione al
futuro dei segnali di un passato che andava
conservato, fossero presenti in chi -e qui mi
riferisco chiaramente, anche se spiacevolmente,
alla Tua maggioranza- mi aveva risposto che un wc
pubblico poteva anche costruirsi a ridosso del
monumento allo Schiaparelli -il più
importante astronomo del secolo scorso-, in quanto
più utile e significativo del monumento
stesso (perché lo aveva richiesto la
Consulta anziani e perché la maggioranza
aveva i numeri per compiere anche questa scelta), e
un altro wc andava bene fosse ricavato nello
storico muro di cinta della chiesa matrice della
Pieve! Come potevo pensare fosse presente in chi
non sapeva che l'intonaco eliminato in via Pietro
Santa Rosa nascondeva una significativa insegna
graffita di uno speziaro settecentesco, riteneva
sufficiente la fotografia per documentare la
scritta partigiana «Barberis presente»,
che appare su un muro del centro e che rappresenta
ancor oggi -fin quando non verrà cancellata-
il simbolo della Resistenza saviglianese, e non gli
interessava che si conservasse la grande scritta
mussoliniana -già riprodotta su volumi di
storia, per la quale Tu, pubblicamente, spendesti
parole favorevoli alla salvaguardia- dipinta
sull'arco di via Alfieri! Come potevo io immaginare
-Ti invito a meditare, caro Sindaco- che fosse
presa in considerazione l'ipotesi di conservare
addirittura un edificio rurale la cui estetica
faceva difficoltà a farsi riconoscere, non
era neppure tanto antico (due secoli, o giù
di lì), ma si era trovato per caso ad
insistere su un terreno «salvato» dal
transito ottocentesco della strada e divenuto col
tempo appetibile perché non più
destinato all'agricoltura ma misurabile con il
metro dell'edilizia e dell'investimento
speculativo!? Non
è stato facile continuare a sostenere le mie
tesi cercando di far chiarezza e sollecitando al
dibattito chi non era per nulla coinvolto e
convinto della credibilità delle mie parole.
Come Consigliere comunale -credimi, caro Sindaco-
più volte sono stato tentato di lasciar
perdere e di abbandonare al destino dell'ignavia
l'edificio che ospitò il Presidente della
Repubblica! Pur continuando, per contro, come
studioso ed appassionato di cose locali, a
documentare le circostanze del passaggio
dell'importante personaggio ed indagare, ove
possibile, tra testimonianze ormai difficili e
documenti d'archivio difficilmente reperibili, la
veridicità di un ben preciso e
circostanziato periodo della nostra
storia. La
prima ed unica volta che tra di noi si è
parlato seriamente dell'argomento è stato
quando, non più tardi di una quindicina o
ventina di giorni or sono, Ti ho cercato per
comprendere i motivi della Tua reazione poco
controllata all'interrogazione parlamentare
presentata dall'on. Katia Bellillo. E sono stato io
a chiederTi il perché di un silenzio,
pesantissimo (data la posta in palio), durato circa
un anno. 2)
Come appassionato e cultore di storia ed arte
saviglianesi non ho mai avuto dubbi. Sin dall'epoca
della prima segnalazione mi ero convinto che la
vicenda -così come moltissime altre che ho
indagato nel tempo- andava comunque approfondita e
sviscerata. Per difficile che fosse, ero sicuro:
qualche elemento significativo -se non si trattava
di uno «scherzo» inventato ad arte per
portarmi fuori strada e ridicolizzarmi (ma
così non poteva essere perché la
credibilità delle prime notizie non poteva
essere messa in dubbio)- sarebbe sicuramente venuto
alla luce. E, con il trascorrere del tempo e
l'intensificarsi delle indagini, mi sono convinto
sempre più che il Presidente Giuseppe
Saragat è stato ospitato -non so ancora per
quanto tempo e non so neppure se verrò mai a
saperlo- nella casetta che offre la sua facciata
alla scritta «Duce a noi» e che si trova
sulla strada statale per Saluzzo. Le testimonianze
e le verifiche di conferma sono numerose, non
ancora completate, e l'organizzazione globale
ragionata di tutto il materiale documentaristico
risulta tutt'ora in fase di ordinamento. La
notizia, più di due anni fa, mi era stata
riferita da un saviglianese (che vuol ancor oggi
mantenere l'anonimato), il quale null'altro aveva
saputo dire oltre al fatto che Saragat era stato in
quella casa. Non conosceva ulteriori particolari.
Affermava, però, che tale notizia non poteva
assolutamente considerarsi riservata -perché
un tempo era insistentemente circolata in alcuni
ambienti cittadini- e che comunque risaliva
all'immediato dopo guerra. Altra
testimonianza anonima più o meno
contemporanea alla precedente -sin qui priva di
ogni conferma, anche se riferita da più
parti e comunemente sottolineata anche in altri
luoghi- osservava che il Presidente Saragat era
stato in Savigliano, prima, durante e dopo il
settennato, in forma riservatissima e privata,
frequentando addirittura un cortile del centro,
dove sarebbe stato visto. Per
più mesi non avevo reperito, pur
interpellando persone che all'epoca avevano assunto
ruoli anche importanti, alcun riscontro a questa
prima significativa segnalazione. Era però
un ex sindaco, in tre distinte
«confidenze» avute a distanza di tempo
l'una dall'altra, ad intervenire nei miei confronti
per: a) confermarmi che il Presidente Giuseppe
Saragat, in fuga da «Regina Coeli», era
stato nascosto nel chiabotto della Vernetta; b)
invitarmi a compiere ricerche catastali
perché il chiabotto in questione apparteneva
al noto esponente socialdemocratico di origine
torinese; c) sollecitarmi ad indagare tra i vecchi
muratori e le imprese cittadine perché
proprio un muratore aveva eseguito, all'interno
dell'edificio, un rifugio segreto e sicuro nel
quale nascondere l'uomo politico ricercato dalla
polizia fascista. La
prima ricerca d'archivio, quella relativa alla
proprietà, non aveva offerto purtroppo
risultati. Il nome di Saragat non era apparso da
alcuna parte. L'immobile, dunque, non era stato tra
le proprietà del Presidente. Risultava
invece ricorrente, anche all'epoca dell'indagine,
il cognome di Marchisone, ancora intestatario
dell'edificio e del terreno circostante: un cognome
che a prima vista non diceva più di tanto ma
che, con un'appendice di ricerche, veniva invece
riferito correttamente a quello della famiglia
materna del Presidente della Repubblica. Che
risultava, come appare evidente dalle ricerche
storiche compiute presso l'archivio saviglianese,
essere proprietaria dell'immobile da circa un
secolo ed aver avuto per buona parte di questo
tempo la residenza proprio in detto
edificio. La
testimonianza raccolta presso l'ultima erede
-direttamente interessata dal «Piano»
presentato in Comune che prevede il cambio di
destinazione di immobile e terreno con insediamento
del supermercato- risultava essere particolarmente
importante. Pur con estrema modestia e senza toni
trionfalistici, dichiarava di essere stata parente
di Giuseppe Saragat. Ricordava che tra le proprie
carte conservava ancora una vecchia fotografia
nella quale «una donnina» -che
riconosceva nella mamma del Presidente, propria
parente, appunto- era seduta nel cortile ed alle
sue spalle appariva la facciata Sud del piccolo
edificio di via Saluzzo. A titolo di
curiosità faceva anche osservare che in
famiglia l'idea e la memoria di questa importante
parentela non era mai nè stata sbandierata
nè stata sfruttata. Raccontava infatti che
quando Saragat ricopriva la più alta carica
dello Stato, in famiglia si era addirittura pensato
di inviargli una lettera di indiretta richiesta di
lavoro. Questa lettera doveva riguardare lei, che,
giovane, stava attendendo ad un primo impiego.
Circa l'ipotesi che il Presidente avesse trovato
rifugio nella casa di Savigliano, la proprietaria,
residente a Fossano, diceva di non possedere
notizie. Una
prima importante conferma, dunque, giungeva
indirettamente da questa testimonianza: la
proprietà dell'immobile, come documentato
dai dati conservati presso l'Archivio storico
saviglianese e raccolti in sequenza ragionata, dopo
Giuseppe Giudice, Luigia Barolo vedova Calandra, il
notaio Federico Mussa e l'Ospedale dei Cronici, era
passata da circa un secolo alla famiglia
Marchisone, e più precisamente a Giovanni,
figlio del fu Giuseppe, ed ai suoi successivi
eredi, sino a giungere all'attuale
proprietaria. Senza
riscontro era invece la notizia che un muratore
avesse contribuito attivamente a nascondere in un
rifugio sicuro ricavato nel chiabotto il Presidente
Giuseppe Saragat. Per mesi e mesi, sollecitando
vecchi impresari ed interpellando gli artigiani
saviglianesi del settore, avevo cercato riscontro,
senza trovarlo, alle parole dell'ex sindaco della
città. Sembrava che la notizia dovesse
essere priva di fondamento. Troppi erano stati
coloro che avevano lavorato al servizio
dell'edilizia: forse cento, centocinquanta o forse
anche più persone. Moltissime erano
decedute, tante non abitavano più a
Savigliano e tante avevano lavorato in città
ma provenivano da altri centri. Era un po' come
cercare un ago nel pagliaio. E solo la fortuna
poteva dare una mano concreta. E
così, in effetti, è stato. Nel giugno
2001 un avvocato mi segnalava infatti che un suo
cliente anziano, spontaneamente, lo aveva
interpellato per sapere se era opportuno che mi
contattasse personalmente per testimoniarmi -visto
che ormai questa vicenda era diventata di dominio
pubblico e che nulla dunque risultava più
riservato- quel che sapeva in relazione alla
permanenza saviglianese del Presidente della
Repubblica. L'avvocato faceva osservare che il suo
cliente, stando al racconto che aveva fatto, fino a
cinque o sei lustri fa, era stato a contatto
più volte la settimana, per anni ed anni,
con un muratore nei cui discorsi l'argomento in
questione veniva periodicamente affrontato.
L'artigiano di tanto in tanto gli confidava, con la
massima riservatezza, circa i rapporti, sovente
quotidiani, che aveva con Saragat. E, ciò,
prima, durante e dopo il settennato. Affermava di
averlo aiutato a nascondersi a Savigliano e
pertanto ogni qualvolta era in difficoltà
ricorreva all'illustre politico, il quale gli
ricambiava il piacere fornendogli i necessari
sostentamenti. Il muratore non era sposato. Era un
solitario e viveva in via San Francesco. L'avvocato
faceva rilevare che il suo cliente si era deciso a
parlare perché aveva eliminato ogni dubbio
circa la veridicità o meno dei racconti
fatti a suo tempo dal muratore. In effetti
-raccontava l'anziano testimone- ogni qualvolta
veniva fatto il nome di Saragat, pur nella
discrezione che caratterizzava la figura del
muratore, era naturale chiedersi se credere o no a
quelle parole. Era, sì, una persona seria e
rispettabile, ma la storia che raccontava poteva
apparire esagerata e poco credibile. Quando
avevo poi avuto l'opportunità di sentire
dalla viva voce del testimone l'intero racconto, le
conferme a quanto già anticipato
dall'avvocato giungevano precise. Non soltanto:
l'uomo, pur dichiarando che non aveva mai voluto
approfondire l'argomento con l'interessato, per non
metterlo in difficoltà o comunque sottoporlo
ad un interrogatorio che non sembrava proprio
opportuno, trattandosi di confidenza personale, si
era poi preoccupato di indagare personalmente e,
morto il muratore, aveva voluto sentire e
contattare anche altre persone. Tra queste, in
particolare, coloro che nel periodo del secondo
conflitto bellico, abitando poco distante dal
chiabotto, erano stati praticamente i primi vicini
del Presidente. Persone ch'egli conosceva
abbastanza bene e che oggi non abitano più a
Savigliano. Costoro, pur senza ammetterlo
ufficialmente (quasi si trattasse di un segreto da
mantenere) non avevano mai negato che Saragat fosse
passato e si fosse fermato in quella casa, anche
perché, dichiaravano (confermandolo e
riconfermandolo in tempi e circostanze anche
abbastanza recenti, che il testimone ricorda e cita
[ad esempio un raduno degli Alpini a
Vernante]) che l'edificio aveva a lungo
ospitato, sfollata da Torino, la mamma di Saragat.
Il rifugio in quella casa da parte dell'uomo
politico ricercato nulla era se non un momentaneo
ritorno dalla genitrice, quindi, praticamente, un
ritorno a casa. Riferendosi al muratore aveva
raccontato di alcune sue abitudini -utili per
approfondire ulteriormente l'argomento- ricordando,
siccome lo conosceva abbastanza bene, il ritmo
della sua giornata e i luoghi della sua
quotidianità, sino agli ultimi anni della
sua vita. Il
problema, dunque, era quello di cercare conferme
circa la veridicità dei ripetuti racconti
del muratore e la serietà delle sue
affermazioni. Indagando innanzitutto i suoi
ambienti di lavoro, gli ex vicini di casa, il
caffè che frequentava e coloro che, seppure
con obiettive difficoltà, avevano potuto
essergli stati amici. Un
ex partigiano lo ricorda come persona integerrima,
mal disposta allo scherzo, solitaria e sensibile.
Abbastanza anonimo e riservato, non sempre in
sintonia con gli amici del caffè, sovente
chiacchieroni e sbruffoni. Non solo non gli aveva
mai raccontato del suo intervento a favore del
Presidente Saragat, ma nel modo più assoluto
non rivelava mai ad alcuno i suoi fatti personali.
Interrogato, questo ex partigiano, circa la
veridicità della notizia della permanenza
saviglianese di Saragat dichiarava che all'epoca
non poteva esserne al corrente perché era
stato avviato all'attivismo di combattente per la
libertà proprio nei giorni della fuga del
premier politico dal carcere di Roma, e pertanto
tale notizia, anche se potenzialmente conosciuta
nei suoi ambienti, gli veniva tenuta segreta.
Faceva però sapere che a Savigliano il suo
gruppo partigiano era allertato perché un
personaggio importante, del quale conoscevano
soltanto l'indicazione del codice cifrato, trovava
rifugio in città. Che fosse Saragat non lo
può giurare. Affermava però che, dopo
la guerra, la notizia che l'esponente
socialdemocratico si era nascosto a Savigliano era
di pubblico dominio negli ambienti degli ex
combattenti. La
conferma diretta giungeva dalla testimonianza di un
altro ex sindaco, anch'egli partigiano, attivo in
una località diversa da Savigliano. Faceva
osservare che quanto si diceva in giro in periodo
post bellico ed in alcuni ambienti cittadini, era
un fatto anche precedentemente noto tra i
componenti della sua squadra. I partigiani che
operavano con lui sul finire del '43 sapevano che
Giuseppe Saragat si trovava ospite fuggiasco di
Savigliano. Gli
ex vicini di casa del muratore ne parlavano
particolarmente bene, come pure gli impresari ed i
muratori con i quali aveva avuto a che fare. Veniva
da tutti descritto come persona seria, anche se
solitaria. Non partecipava, ad esempio, ai
festeggiamenti ed ai pranzi organizzati annualmente
dalla categoria e non sempre versava la sua quota
di tesseramento. Non amava le compagnie chiassose e
neppure l'imposizione del divertimento a tutti i
costi. Sarebbe stata proprio la solitudine -e la
pessima abitudine di un'alimentazione sbagliata- a
portarlo prematuramente a morte (avvenuta non si sa
bene perché ad Orbassano) a metà
degli anni Settanta. Non
era solito legarsi allo stesso datore di lavoro e
sovente, per un senso di libertà che
riteneva probabilmente uno degli scopi della sua
vita e che viene narrato un po' da tutti come un
suo elemento di caratterizzazione, non esitava ad
abbandonare uno stipendio sicuro per ricercare
altrove nuovi e più consoni ambienti di
lavoro. Era anche stato dipendente
dell'Amministrazione comunale, con l'incarico,
appunto, di muratore. La
circostanza di questo impiego non è
«trasparente» e rappresenta un'altra
importante tessera destinata a far chiarezza circa
il ruolo avuto dallo stesso, in periodo bellico,
nel nascondere in Savigliano l'importante uomo
politico. Una lettura attenta dei documenti
conferma che il suo operato fu probabilmente
premiato con l'assunzione presso la struttura
municipale. Ad occuparsene personalmente, evitando
il rispetto delle regole che erano e sono rigorose,
era stato quasi certamente proprio il sindaco della
Liberazione, Mario Franco, il quale era sicuramente
stato messo al corrente dell'azione intrapresa dal
suo concittadino. Nell'ottobre del 1945 il
muratore, infatti, risulta dipendente del Comune.
Messo a busta paga senza concorso e senza delibera
di Giunta (come invece avveniva ed avviene per
tutti). In pratica risulta in organico presso
l'Amministrazione senza mai essere stato assunto. E
non si tratta di un errore o della sparizione di
documenti dalla cartella personale. È
così, e l'archivio impone una chiave di
lettura che non può essere diversamente
interpretata. La conferma, infatti, giunge con la
disamina del materiale cartaceo che si riferisce
agli inizi del 1949, quando il muratore si licenzia
e la deliberazione di Giunta che accetta le
dimissioni non fornisce notizia della sua
assunzione (come invece avviene con tutti gli altri
dipendenti). Si limita a documentare soltanto
l'avvio del servizio, che non corrisponde neppure a
quello reso noto in dichiarazione dallo stesso
dipendente. Ciò significa che egli
entrò nell'Amministrazione senza
formalità, lavorò senza immediata
pretesa di stipendio e venne messo a libro paga
soltanto successivamente. Altre
ulteriori conferme si aggiungevano alle già
citate, confermando molti passi della storia in
questione. Altre, ancora, sono in fase di raccolta.
La lettura ragionata dell'intera documentazione
conferma la perfetta veridicità e
credibilità della vicenda. Il Presidente
della Repubblica Giuseppe Saragat trovò
rifugio a Savigliano, nella casetta situata in
regione Vernetta, sul lato sinistro della strada
che conduce a Saluzzo. La casetta che fu già
dei suoi avi. È
chiaro che tutto quanto qui precedentemente
raccontato è documentato da testimonianze
(soltanto due anonime, ma ormai superate e non
più determinanti). Che sono in via di
ordinamento. Nel momento in cui l'indagine si
riterrà conclusa sarà mia premura
trasmettere l'intero dossier completo di tutta la
documentazione. 3)
Ci si può chiedere quale valore la nostra
città debba attribuire ad un fatto
apparentemente di non molta importanza avvenuto nel
pieno della Resistenza clandestina al regime
fascista. Il
fatto è che nel nostro territorio sono
assolutamente mancanti le testimonianze visibili
delle lotte che gli oppositori al fascismo
condussero nel periodo più buio del secondo
conflitto mondiale. Se si dovessero additare ai
nostri giovani le tracce materiali e simboliche di
questa guerra interna, che tanto costò in
lutti e lacrime, ben poco ci sarebbe da mostrar
loro. Neppure le scritte sui muri, neppure i
monumenti, neppure le lapidi. Se non le due o tre
risalenti all'immediato dopo guerra, assolutamente
insufficienti per comunicare qualsiasi messaggio
relativo alla complessità della nostra
recente storia. Per
questo motivo attribuire alla permanenza del
fondatore di un grande partito popolare, di un uomo
dal coraggio e dall'intelletto eccezionali, di un
Presidente della nostra Repubblica di statura
internazionale, di un Padre della nostra
Costituzione, un significato che trascenda la
modestia dell'episodio saviglianese, rappresenta
una scelta di cultura di elevato
livello. È
un dovere, quindi, per un sindaco come Te, certo
sensibile ai valori lasciatici dalla Resistenza,
saper cogliere con la dovuta sensibilità
questa occasione di mostrare che Savigliano non ha
dimenticato il messaggio trasmessoci dai
combattenti per la libertà, anzi, si
è fatta voce forte e coerente per impedire
l'oblio che da tempo sta purtroppo coprendo i
fulgidi anni della Resistenza. Cordialità luigi
botta |
Torna a casa |