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Sono note le mie simpatie per Michele Alboreto. È un giovane che guida tanto bene, con pochi errori. È veloce, di bello stile: doti che rammentano Wolfgang von Trips, al quale Alboreto assomiglia anche nel tratto educato e serio. Oggi ho la certezza che è fra i sei migliori della Formula 1 Enzo Ferrari |
Tutto cominciò venticinque anni fa, sulla pista Junior di Monza. Pochi soldi, tanta passione, talento da vendere. Gli amici della scuderia Salvati seppero subito vedere in Michele Alboreto un potenziale campione. Forse senza di loro, è giusto dirlo, Michele Alboreto non sarebbe arrivato dove tutti sappiamo.
Nel 1976, Michele era un ragazzo coi capelli neri e riccioluti, molti più lunghi di come li avrebbe avuti in seguito. Su una monoposto che si doveva rivelare storta, dopo accurate verifiche eseguite in seguito, si distingueva per il coraggio e la determinazione in staccata.
Riservato, quasi timido, mostrava una decisione eccezzionale. All'interno della scuderia lo adoravano e ci fu chi mise mano al portafogli per permettergli di andare avanti, di correre in F.Italia.
Devo approfittare di ogni occasione, perchè non so se ci sarà una seconda possibilità, diceva spesso.
Prima ancora che gli altri se ne rendessero conto, Alboreto era già in Formula 3, a sfidare "quelli grandi", spiati spesso da dietro le reti. E a vincere subito, al primo anno. La prima intervista "importante" la fece proprio con chi scrive, sulle pagine di questo settimanale.
Nemmeno cinque anni dopo i primi giri di ruota con la F.Monza, Alboreto era già in F.1.
C'è chi ha detto e scritto che Michele non si arrabbiava mai. Questo non corrisponde al vero. Quando le cose giravano per il verso sbagliato, poteva diventare furibondo. Solo che aveva la grande capacità di incanalare, in modo positivo, tutta la sua aggressività per andare più forte, per non cedere, per non arrendersi mai. Sono inc... nero, diceva. E si poteva scommettere che, qualche ora o il giorno dopo, tanta rabbia si sarebbe trasformata in decimi in meno nei tempi sul giro.
Nadia, la fedele e tranquilla compagna sino dai giorni di scuola, allora lo accompagnava sempre, se poteva. Michele, da parte sua, era inarrestabile.
L'occasione con la Tyrrell venne a Imola, nel 1981. Un'altra chance da prendere al volo e che non gli sfuggì, complice l'aiuto di un mecenate che già aveva aiutato, tra gli altri, proprio Ronnie Peterson.
E che si aggiunse all'elenco degli amici. Impossibile citarli tutti (per non dimenticare nessuno) ma, di ciascuno di loro, Alboreto si è sempre ricordato fino agli ultimi giorni. In ogni caso, sapeva bene dove voleva arrivare: Non voglio sembrare presuntuoso, ma ho programmato il mio arrivo in Formula 1. Potevo riuscirci o meno, ma quelle erano le tappe da percorrere.
Le vittorie con la Tyrrell colsero di sorpresa molti, ma non chi lo conosceva bene. Poi, tra McLaren e Ferrari, scelse il fascino del cavallino rampante e la grande sfida di Maranello. L'approdo fu difficile, nonostante la stima del "Drake" e l'amicizia con Piero.
Per forza di cose, divenne più riservato e diffidente, complici anche alcuni malintesi con la stampa. L'aiuto agli amici, tuttavia, non è mai venuto meno, giornalisti compresi.
Nel 1985 fu il suo anno migliore, ma il grande sogno di diventare campione del mondo sfumò insieme ai turbo Garrett scelti dalla Ferrari per il finale di stagione. Era nero, Alboreto, in quelle settimane. Forse presagiva che non avrebbe avuto più occasioni simili. Invece di andare alla Williams (al posto di Mansell), volle rimanere a Maranello anche per non abbandonare la squadra. L'avvento del suo più grande nemico, John Barnard, pose fine alla lunga aprentesi ferrarista. Il sabato pomeriggio del Gran Premio di Germania 1988, in una camera dell'Holiday Inn di Walldorf si era accordato per correre, finalmente, con la Williams. Un'unione siglata a parole che, però, non ebbe seguito. Ci rimase molto male, anche se della cosa non si seppe molto in giro. Il ritorno alla Tyrrell fu ancora più amaro e concluso anzitempo a causa di un cambio di sponsor dei tabacchi. Seguirono begli sprazzi, soprattutto con la Footwork e l'Arrows, che erano poi la stessa squadra.
Ma il sedile per vincere in F.1 non l'ebbe mai più. L'incidente di Senna lo scosse, soprattutto perchè vide Ayrton, il sabato della morte di Ratzenberger, turbato e quasi cosciente della fine in arrivo. In tribunale, da vero uomo, lo difese sino in fondo dalle menzogne di chi avrebbe detto qualunque cosa, pur di avere una monoposto vincente.
Ma non smette di correre. Dal campionato turismo tedesco alla Irl e Indianapolis, finì con l'approdare alle Sport. Delle corse sugli ovali disse che "gareggiare là è come andare in guerra in Vietnam", cosciente che ormai aveva rischiato abbastanza per non andare oltre.
Nadia lo implorava, mese dopo mese, di smettere. Negli ultimi anni, gli affari lo assorbivano a tempo quasi pieno. Il resto era dedicato alla famiglia e all'Harley Davidson, con un occhio di riguardo agli aerei, una delle sue grandi passioni.
La vittoria a Le Mans, fu il coronamento di un sogno, cullato sino dai tempi in cui aveva visto Steve McQueen al cinema su una Porsche nel celebre lungometraggio sulla 24 ore. Si sentiva sicuro sulle Sport, così sicuro che il pensiero di smettere non lo sfiorava nemmeno. Ai vecchi compagni di avventura, da Berger a Patrese, da Arnoux a Laffite, diceva sempre di andare a correre con lui...
(r.g.)
Articolo apparso sul numero 18 - anno XLI - 1/7 Maggio 2001 di AutoSprint.