Articolo di Nando Dalla Chiesa

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SULLA STRAGE DI CAPACI UNO SQUARCIO DI VERITA'

Nando Dalla Chiesa

"Il 23 maggio del 1992 cadde di sabato. Sembrava una semplice pausa di fine settimana nel durissimo scontro parlamentare per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Da quella elezione sarebbe dipeso il futuro della vita politico-istituzionale, sulla quale si stavano abbattendo, insieme, l’ondata di sfiducia dei cittadini e l’ondata degli avvisi di garanzia di Tangentopoli. Da settimane si fronteggiavano a Roma due schieramenti: chi cercava i numeri per fare passare un difensore fidato dei vecchi equilibri di potere, e chi cercava di portare al Quirinale un uomo capace di scegliere – davanti a tutto - i valori della legalità repubblicana. Pareva impossibile uscire dal diabolico gioco di veti e controveti che si era scatenato dopo la bocciatura, per un soffio, della candidatura di Arnaldo Forlani. Ma quel sabato, alle 17,30, ci fu la strage di Capaci, il boato terrificante in cui persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre agenti della polizia di Stato. Tre giorni dopo, sulla spinta dell’indignazione e della vergogna, il parlamento uscì dalla palude in cui era finito ed elesse Oscar Luigi Scalfaro. Chi scrive ricorda con esattezza di avere provato, alla notizia dell’attentato, non solo il grande dolore che si prova per la fine orribile di persone care, ma anche la convinzione sgomenta che la strage fosse direttamente collegata alla delicatissima vicenda politica in corso. Che, più precisamente, l’uccisione di Giovanni Falcone rientrasse a pieno titolo nella partita per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Su quella strage ha poi indagato la Procura di Caltanissetta. E il processo relativo, giunto al giudizio di secondo grado, ha visto condannati in via definitiva diversi esponenti di spicco di Cosa Nostra, alcuni dei quali hanno anche scelto di collaborare con l’autorità giudiziaria. Luca Tescaroli è il magistrato che in entrambi i gradi del giudizio ha rappresentato la pubblica accusa. E’ il più classico dei “giudici ragazzini” espressi ciclicamente da una magistratura che sembra ripetere senza interruzione il miracolo di gettare nella mischia delle pigrizie, delle convenzioni e degli accomodamenti, giovani idealisti capaci di affrontare senza paura i problemi giudiziari più complessi nelle situazioni ambientali più infide. Il suo libro, Perché fu ucciso Giovanni Falcone, seleziona i passi più importanti e illuminanti proprio dell’atto di accusa che ha inchiodato gli autori dell’attentato. Si tratta di un documento impressionante, che meriterebbe di avere la massima circolazione possibile poiché non è solo una vicenda di mafia, per quanto spaventosa, per quanto importante, che ne viene tratteggiata; bensì un pezzo cruciale della storia italiana, un ibrido fondo di rapporti tra istituzioni, mondi “coperti” e criminalità. Al punto che anche chi è allenato a indagare con occhio vigile l’amplissimo mondo delle relazioni pericolose del potere rimane sconcertato dai fatti che vengono raccontati e documentati, dalle testimonianze che entrano nel processo come affluenti di una verità che via via si gonfia e si fa limacciosa e straripante. Emergono le ragioni punitive del delitto, che suggellano l’odio ultradecennale coltivato dalle organizzazioni mafiose verso il loro nemico principale, riuscito nella più impossibile delle imprese: impedire l’assoluzione beffarda in Cassazione della Cupola dominata dai corleonesi. Ma emergono anche e soprattutto le ragioni preventive del delitto: ciò che Falcone sta scoprendo, ciò su cui sta investigando, gli appalti, l’ingresso di forze imprenditoriali del nord in Sicilia in esplicito accordo con Cosa nostra, le piste sui tradimenti possibili di uomini delle istituzioni. E sullo sfondo, ma con un bagliore accecante, si staglia la strategia stragista: la scelta di Totò Riina e dei suoi uomini fidati di andare allo scontro frontale con lo Stato, di minacciarlo ancora più di prima una volta caduto il mito della propria impunità e una volta apertosi un varco inimmaginabile nei vecchi equilibri di potere. La rabbia per la condanna in Cassazione e l’incertezza sul futuro. Questo porta a uccidere i nemici storici (Falcone e Borsellino) ma anche gli “amici” che non si sono rivelati all’altezza (Salvo Lima e Ignazio Salvo). Questo porta, sostiene l’atto di accusa, anche a interferire sulla vicenda delle elezioni presidenziali mettendo fuori gioco, con la strage di Capaci, la candidatura di Giulio Andreotti, il vecchio grande amico che si è voltato dall’altra parte. Questo porta, ancora, ad avviare con settori segreti dello Stato una trattativa di cui ancora oggi non sono chiari i contorni, anche se ogni tanto sembrano emergerne tracce traditrici nei provvedimenti di legge caldeggiati o perfino approvati. Tutto questo c’è nel libro-documento di Tescaroli. Che è sobrio, asciutto, intelligente. Che apre la strada a qualche ipotesi o contro-ipotesi in più, come è naturale per questo tipo di libri. Ma che mette sul piatto della storia un intreccio di fatti, di persone e situazioni da mozzare il fiato. Come lo mozzò, dolorosamente, l’annuncio che giunse quel sabato pomeriggio, verso sera, a tutti gli italiani: avevano ucciso Giovanni Falcone".

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