Jean Montalbano
Harry Smith, cosmico
John Szwed Cosmic Scholar. The Life and Times of Harry Smith (Farrar, Straus and Giroux 2023)
Per il
biografo di un detestabile Harry Everett Smith (1923-1991) anche i minimi
resti, diventano amabili, sollecitando quelle cure e attenzioni che, dai
padroni di casa in primis, vennero negate al bohemien
autodidatta. Ma le opere lasciate da Smith, film e dipinti soprattutto,
scampate anche ai suoi accessi di furia autodistruttiva che giovamento traggono
dalla conoscenza della sua personalità biografica quando questa risulta essere
un accumulo di storielle e aneddoti più o meno imbarazzanti? Piuttosto che
catalogare relitti e arrendersi all’evidenza del naufragio, il biografo se la
cava con il luogo comune: vivere è stata la sua opera d’arte; o ancora: Smith è
stato l’ultimo mago dell’occidente. Cimentarsi con quella vita implica
l’aggrapparsi alla condivisione di memorie da parte di quanti lo conobbero e
incrociarono negli anni della maturità, ossia principalmente a San Francisco,
negli anni quaranta dei primi beat, e a New York, dal 1951, fino a quando, nel
1991, una messa gnostica dell’Ordo Templi Orientis sembrò sigillarne, in extremis, il rosario di
stravaganze. Tra i tanti, Marc Berger, che lo accompagnò nella spedizione in
Florida presso i Seminole (vellicandone pure l’interesse per le uova pasquali
ucraine dipinte) ne sintetizzò il pessimo carattere: parecchio litigioso,
ostinato, stizzoso, spendaccione, ubriacone, oltre che manipolatore e
distruttivo. L’immagine d’ingrato parassita, affabulatore strampalato,
scroccone, procede inseparabile da quella del raccoglitore di memorie dei
nativi americani, dell’onnivoro collezionista di maltrattati 78 giri,
dell’acquirente compulsivo di libri o del mago e alchimista, trovando molte
conferme e poche smentite in questo tributo al centenario scritto da Szwed, autore già cimentatosi con Billie
Holiday, Miles Davis, Alan Lomax e Sun Ra. Che molto delle tante,
troppe occupazioni di Smith contribuiscano a farne materia inafferrabile, fin
dalle ascendenze familiari (episcopali con interessi massonici e teosofici) è
certo. Se vi aggiungiamo i contraddittori racconti e spunti autobiografici
gettati come briciole avvelenate ai suoi interlocutori o timidi intervistatori,
un primo punto fermo di Szwed consiste nella
convinzione di dover stampare pur sempre una leggenda sotto forma di
documentata biografia. Già da adolescente, casualità e fiuto, spingendolo ad
approfondire le aperture dei genitori, portarono Smith, talentuoso dilettante,
a studiare la popolazione indiana della costa americana del Pacifico
nord-occidentale facendone un rispettato antropologo in erba (persino Vance Packard, travisandolo, andò
a intervistarlo) sintonizzandolo, a sua insaputa, con movimenti di tutt’altra
provenienza: agli stessi anni risalgono i viaggi in quei territori di Kurt Seligmann e Wolfgang Paalen per
conto del parigino Musée de l’Homme
a certificare, con l’introduzione di totem e maschere nelle istituzioni
europee, la pervasività della visione surrealista. Quando Smith si trasferirà
nell’area di San Francisco, sarà cosa altrettanto naturale vivacchiare ai
margini delle istituzioni universitarie e della bohème artistica, facendo in
modo che i suoi primi esperimenti su pellicola e film colorati a mano,
respirassero la stessa aria dell’astrazione animata dei vari Anger, Fischinger e Whitney. Imbucarsi
dove le cose avvenivano, ma osservandole dal basso, ascoltare/collezionare dischi
al di là delle compartimentazioni del mercato, usare il dono del disagio
mentale come componente prezioso del suo lavoro fino a ridurre le stanze (di
amici o d’albergo) in “gabinetti di curiosità”, non lo rendevano un candidato
ideale per i finanziatori e mecenati newyorkesi, ma Szwed
deve comunque registrare che il bricoleur Smith,
rompiballe e insopportabile, riuscì a vivere più di trentanni
senza un lavoro e senza quasi mai pagare un affitto, facendosi notare in una
zona, il Village, che non difettava certo di tipi
stravaganti, pazzoidi e mendicanti più o meno celesti: vite farsesche spesso
concluse in tragedia. Le sparate tipo “Giordano Bruno inventore del cinema con
il suo De innumerabilibus, immenso et infigurabili”, le proiezioni dei suoi film trasformate
in happening (ogni seduta una performance irripetibile, notava Susan Sontag)
annoveriamole tra l’agire velleitario di un’epoca che pure avanzava (con A. Ginsberg e Ed Sanders)
la proposta di esorcizzare il Pentagono facendolo levitare di almeno tre piedi.
Ma in quell’insistito divagare e digredire, fermandosi infine a salvare, per
collezionarli, gli aeroplanini di carta scampati al traffico urbano,
riconosciamo almeno una mente veloce nello scovare persistenti schemi e modelli
degli oggetti studiati e collezionati (fossero maschere, uova o tessuti) e poi
connessioni tra suoni, colori, movimenti, il vecchio sogno delle
corrispondenze.
Per “Fogli di Via”
Sulle nostre pagine si veda anche Carlo
Romano: Harry Smith, american magus (“biblioego”,
circolare 2003)