democrazia “consolidata” home Calvo Sotelo
STORIA DELL’ANTICO GHETTO
EBRAICO GENOVESE
a passeggio lungo i “carruggi”
del centro storico del capoluogo ligure alla riscoperta dei luoghi del confino
della comunita’ israelitica di origine iberica
Passeggiando per vico del
Campo, piccola arteria dell’ingarbugliato centro storico genovese, non è
difficile notare sulle facciate di alcuni palazzi seicenteschi strane nicchie
vuote. Ci troviamo nel cuore dell’antico ‘ghetto’ ebraico della Lanterna, luogo
di pittoreschi ed oscuri ricordi, memoria edilizia trascurata che riemerge da
un lontano passato. In un periodo come quello che stiamo vivendo,
caratterizzato da fenomeni di razzismo ed antisemitismo, andare a rivisitare il
‘Campo degli Ebrei’ serve forse per meglio comprendere la storia della comunità
ebraica genovese e i rapporti che questa ebbe nei secoli, con il resto della
città.
cantiere nella ex piazza dei
Tessitori a Genova
Le nicchie polverose e ormai vuote di cui si diceva racchiudessero
un tempo i Crocifissi sotto i quali gli ebrei genovesi del ghetto erano costretti
sottostare: forma di vessazione simbolica ma efficace imposta dal governo della
Repubblica nel 1660 per ribadire – semmai ce ne fosse stato bisogno –
l’assoluto primato cristiano all’interno delle mura cittadine. Per amore di
verità bisogna subito aggiungere che imposizioni simboliche come quella dei
Crocifissi a quel tempo non rappresentavano certo un’eccezione genovese. In
quasi tutte le città italiane, per non parlare di quelle spagnole, francesi,
tedesche o russo-polacche, l’affissione di ‘moniti’ scultorei all’entrata o
all’interno dei ghetti ebraici era la norma.
.
interno di una casa di commercianti ebrei a Genova XVIII
sec.
La Repubblica di Genova, all’indomani dell’Editto dei sovrani di
Castiglia del 1492, che sancì l’espulsione degli ebrei dalla penisola iberica,
aprì le sue porte ad un certo numero di esuli ‘sefarditi’. Questa immigrazione
venne accolta dai genovesi con sentimenti contrapposti: pregiudizio religioso
(non certo etnico, o peggio, biologico) e pragmatismo socio-economico turbarono
non poco i sonni dei vecchi genovesi. Gli ebrei ‘sefarditi’ (in ebraico Sepharad
vuol dire Spagna) erano infatti noti per la loro ricchezza ed abilità
commerciale; essi potevano rappresentare dunque un ‘innesto ‘ ideale e
necessario per un’economia, come quella genovese del Seicento, già attanagliata
da una gravissima crisi. Crisi che si era fatta particolarmente acuta in
seguito alla grande pestilenza del 1656 che aveva ridotto della metà (da
180.000 a 92.999) gli abitanti della città.
interno di una casa di commercianti
ebrei a Genova XVI sec.
Ma era possibile per dei buoni cristiani venire a patti con una
stirpe sulla quali gravava l’infamante e terribile accusa di deicidio? A
dimostrazione che non vi è mai nulla di nuovo sotto il sole, la ‘pubblica
amministrazione’ genovese di quel tempo elaborò un salomonico compromesso che
permise ai ai primi trecento ebrei giunti in nave, nel 1493, da Barcellona di
insediarsi in un piccolo quartiere comprendente la zona di vico del Campo, vico
Untoria e piazzetta Fregoso, quella che, a partire dal 1660 divenne il ghetto
vero e proprio. La zona venne recintata con alte cancellate e dotata di due
varchi sorvegliati dai massari, uno speciale corpo di guardia
repubblicano al quale era affidato il compito di sbarrarli ‘da un’hora di
notte fin al far del giorno’, onde evitare il contatto ‘commerciale o
sessuale’ tra ebrei e cristiani. La Repubblica concesse però alla comunità
giudaica di edificare una sinagoga; questa, di cui non si ha più traccia, trovò
spazio probabilmente in un edificio situato tra vico del Campo e Vico Untoria.
Secondo alcune stime, nel 1662, la comunità ebraica genovese ammontava a 203
unità, mentre nel 1674, anno in cui il ghetto venne trasferito negli edifici di
piazza dei Tessitori, scese a 174. Il calo è da imputarsi, forse, ad un certo
irrigidimento del Governo della Repubblica nei confronti della comunità
ebraica, accusata paradossalmente di saper incrementare troppo i suoi guadagni
in un periodo in cui l’intera città era colpita dalla recessione. In quegli
anni, alcune famiglie israelite si trasferirono a Livorno e a Casale dove
prosperavano due grosse comunità correligionarie. Ma al di là
dell’atteggiamento ufficiale delle autorità condizionato da una forma di
antisemitismo più ‘economico’ che religioso, quali erano i rapporti fra
cristiani ed ebrei genovesi? Secondo gli studi più recenti ed attendibili,
relativi al periodo compreso tra il XV e il XVII secolo, la cittadinanza
genovese non dimostrò nei confronti degli ebrei un atteggiamento dissimile da
quello verificatosi in altre città della penisola. Entro le mura della Superba,
è vero, non si verificarono mai sanguinosi episodi di violenza, ma è
altrettanto vero che agli israeliti furono spesso riservate alcune ‘attenzioni’
non certo cortesi. Per loro era obbligatorio ascoltare i sermoni (senza molto
successo, dal momento che parecchi israeliti usavano riempirsi le orecchie di
cera prima di varcarne l’entrata) all’interno della Chiesa delle Vigne o in
quella di San Siro, per poi essere costretti ad uscire, spintonati da mercenari
tedeschi (strana coincidenza), per poi subire le ingiurie di una folla popolana
che li bersagliava con torsi di cavoli, pomodori, uova marce e, non di rado,
pietre.
Vico del Campo a Genova
Alberto
Rosselli Nato A Genova nel 1955, si
è laureato in scienze politiche, è giornalista e collabora a diverse testate nazionali,
come studioso di storia contemporanea e militare ha scritto diversi saggi fra i
quali “Il Conflitto Anglo-Francese in Nord America 1756-763” pubblicato dalla
casa editrice Erga di Genova, e
“I Quaderni Carlo Rosselli” per la Fondazione Carlo Rosselli di Firenze