La arte corteggia la psicosi

Malintesi di lunga durata nei rapporti tra l'inconscio e le opere dell'intelletto Arte e psicoanalisi condividono una prospettiva comune. Entrambe sono pratiche simboliche che mirano a raggiungere il reale, a sottoporsi ai suoi urti, senza che questo incontro risulti mortifero e catastrofico. Ma, almeno in termini estetici, il reale può essere raggiunto solo attraverso un equilibrio linguistico-formale.


Conosciamo il giudizio severo di Freud sulle avanguardie storiche, diretto in particolare verso coloro, come i surrealisti, che alla psicoanalisi e alla sua opera guardavano, invece, con grande interesse. Il metodo della «scrittura automatica» - teorizzato da Breton e dai suoi amici - vive dell'illusione secondo la quale è sufficiente attingere direttamente all'inconscio per realizzare un'opera d'arte, quasi essa fosse l'equivalente di un sogno. Ma un'opera - è Freud che lo afferma nel Poeta e la fantasia - ha inizio solo a partire da una «velatura» dell'inconscio e non da un suo dispiegamento immediato. Cosa intende Freud, e cos'è, in altre parole, un'opera d'arte alla luce della psicoanalisi? La domanda è niente affatto scontata perché sposta il fuoco dell'attenzione dalla psicologia dell'artista al valore dell'opera d'arte; mentre quel che di solito si verifica è la riduzione dell'opera d'arte alla dimensione patologica del sintomo.

Tra le pagine ancora attuali che evidenziano gli effetti mortificanti di questo genere di applicazione, quelle di Adorno nella sua Teoria estetica restano tra le migliori: la violenza interpretativa della psicoanalisi, non avendo consapevolezza della categorie formali che organizzano un'opera d'arte, incentiva un'ermeneutica dei contenuti che finisce per smarrirsi in una psicologia dell'autore, di dubbio gusto. Qual è dunque il rapporto tra l'opera d'arte e l'inconscio? Due sono le soluzioni storiche, entrambe parziali, a questo problema. Quella di matrice surrealista riduce il rapporto alla forza positiva di una equivalenza: l'opera è una formazione dell'inconscio. Mentre nella lettura più tradizionale, rappresentata da Gombrich e dalla sua scuola, l'opera d'arte è un esercizio sublimatorio dell'io che canalizza simbolicamente la forza pulsionale dell'inconscio. In questa prospettiva, l'opera d'arte è sempre il prodotto dell'attività di mediazione dell'io. In realtà, l'estetica freudiana classica trova in questa biforcazione la tensione profonda che la anima: l'opera è una formazione enigmatica dell'inconscio; è una colonizzazione dell'inconscio da parte dell'io.

L'opzione di Freud è quella di non escludere l'una o l'altra di queste prospettive, per provare, invece, ad annodarle insieme. Del resto, la formazione stessa di Freud risente tanto del positivismo assorbito alla scuola di Meynert e di Brucke, del suo spirito ateo, del suo razionalismo illuminista, quanto della sua passione per i grandi poeti, per i misteri dell'antico Egitto, per i filosofi antichi (il presocratico Empedocle e il «divino» Platone tra tutti). Del resto, non a caso il giudizio di Foucault nella sua Storia della follia mette a fuoco, in Freud, colui che contribuisce a ricondurre l'irrazionale della follia al linguaggio nosografico della psichiatria, e d'altra parte colui che è in grado di inventare un linguaggio capace di ospitare l'alterità della follia, di darle parola. Anche il nostro grande poeta, Andrea Zanzotto individua proprio in Freud il solo in grado di tenere insieme le due anime che segnano la storia della poesia: l'anima vulcanica, irrazionale e viscerale, corporea e dionisiaca - per la quale il linguaggio come tale è già un «tradimento dell'essere» - che trova il suo paradigma in Artaud; e l'anima formale, linguistico-simbolica, immateriale ed apollinea - per la quale la poesia è il regno dell'ordine significante - che trova in Mallarmé il suo antitetico paradigma.

Ebbene, in questa schematizzazione Zanzotto colloca la parola freudiana proprio sul crinale che separa e unisce queste due grandi tensioni contraddittorie. Da un lato, infatti, Freud sa accostare l'essere dell'inconscio nella sua irruenza pulsionale, dall'altra sa anche ricondurre, senza cancellarne l'alterità, questo essere ad un ordine simbolico-linguistico, ad una trama significante che possiede una sua propria coerenza formale: come mostra il grande lavoro freudiano dell'Interpretazione dei sogni. Quello che dunque vediamo emergere da queste coppie antitetiche non è altro che il carattere perturbante (Unheimlich) che abita l'opera d'arte come tale. Da una parte, infatti, essa è un'esperienza di estasi, di ebbrezza dionisiaca, di perdita di controllo (è questa in effetti la verità di struttura che emerge nella cosiddetta Sindrome di Stendhal, che può colpire i fruitori delle opere d'arte); per altro verso essa è una ricomposizione dei conflitti, un ordinamento del caos, una velatura apollinea dell'inconscio.

L'estetica freudiana ci lascia dunque in eredità più che una psicologia dell'autore la problematica assolutamente aperta di come preservare la dimensione formale dell'opera e, insieme ad essa, l'incandescenza della forza pulsionale; come mediare, direbbe in altri termini Lacan, il registro simbolico con quello del reale (non a caso segnala - nel corso del suo X Seminario inedito, dedicato all'angoscia - l'esperienza del perturbante come centrale per ogni estetica psicoanalitica).

La potenza intrinseca a un'opera d'arte è votata a realizzare il trauma dell'incontro col perturbante, ovvero il trauma dell'incontro con qualcosa che introducendosi in una cornice di familiarità ci sorprende e ci trascina via, in un altro mondo. L'opera d'arte è, in questo senso, come direbbe Heidegger, il trauma della rottura e dell'apertura del mondo. Un'estetica orientata dalla psicoanalisi non può che essere un'estetica dello Stoss, dell'urto, dell'incontro traumatico col reale, ovvero con ciò che nel corso abitudinario della nostra esperienza del mondo tendiamo invece ad evitare. In Roland Barthes, nel suo celebre studio sull'arte della fotografia, è la differenza che separa lo studium dal punctum, ovvero il carattere convenzionale e culturale della «posa» a cui si piega l'immagine, dal suo carattere incodificabile che «mi punge».

L'opera d'arte sa spezzare l'incatenamento alla familiarità più prossima, sa scuoterci dal sonno dell'io per risvegliarci al reale. Ma il problema consiste nel come operare questo risveglio, ovvero nel come realizzare questo urto perturbante col reale. Mentre la dimensione freudiana del perturbante non distrugge la dimensione della mediazione simbolica - in questo senso essa non è mai un'estetica della repulsione - attualmente in molti campi dell'arte la critica del bello si è rovesciata nel suo contrario simmetrico, ovvero nell'apologia del brutto, dell'orrore e del disgustoso.

È, per esempio, il caso emblematico di Orlan che utilizza il suo corpo reale come strumento di performances narcisistiche: il corpo dell'artista diventa, allora, il teatro di una serie continua di manipolazioni che suscitano orrore. È anche il caso di Stelarc che si appende nel vuoto con dei grossi ami da pesca infilzati nel petto. Ma la lista degli esempi potrebbe essere lunghissima.

Stelarc

 

Orlan, Autoritratto, 1998

 

C'è in tutti questi casi una evidente caduta dell'espressionismo dal suo specifico livello simbolico-formale al livello dell'esibizione reale. In altre parole, l'orrore è in scena senza filtri e in questa assenza di «velatura» si finisce per perdere l'essere dell'opera come dialettica inesauribile tra la sua consistenza materiale e la sua apertura di senso, tra la sua dimensione reale e la sua dimensione simbolica. Piuttosto, ciò che si evidenzia è un collasso del simbolico e una irruzione devastante del reale. Secondo l'insegnamento di Lacan è proprio nella psicosi che il soggetto incontra un reale senza contorni simbolici; un reale che lo assedia persecutoriamente, che lo assilla nel corpo e nei pensieri, che lo invade abusivamente. E' nella psicosi che il reale si afferma senza filtro, senza schermi protettivi scatenando quegli effetti catastrofici che incontriamo nella clinica (dissoluzione del mondo, frammentazione, deliri, allucinazioni, automutilazioni). I sostenitori del cosiddetto realismo dell'arte contemporanea ritengono interessante assimilare la creazione artistica alla psicosi in questi termini? Non si tratta piuttosto di assumere il fatto che arte e psicoanalisi condividano una prospettiva comune? Entrambe, infatti, sono pratiche simboliche che mirano a raggiungere il reale, ad incontrarlo senza però che questo incontro risulti mortifero e catastrofico. Ma il reale può essere raggiunto solo attraverso il simbolico, il che, tradotto in termini estetici, significa solo attraverso un equilibrio linguistico-formale. E' propriamente la dimenticanza di questa centralità della mediazione significante che pare caratterizzare invece ampi settori dell'arte contemporanea, insieme al suo realismo maligno.

Diversamente, un'opera ormai classica come Guernica di Picasso è l'esempio di una tensione riuscita tra il reale che si manifesta come sventramento atroce e catastrofico dell'intimità, come esplosione della violenza maligna che dissesta ed esteriorizza drammaticamente la quiete abitudinaria del familiare, e la ricomposizione e riduzione simbolico-formale di questa stessa esplosione (lo aveva mostrato mirabilmente nel dettaglio un ormai vecchio studio di Dino Formaggio commentando i disegni preparatori e l'esigenza picassiana di raggiungere in contrappunto alla violenza della scena un equilibrio formale quasi ascetico, in Arte, Isedi, Milano, 1982). Didi-Huberman (in Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Einaudi, 2001) si è soffermato sulla doppia anima di Botticelli e della sua creatura. Ad uno sguardo attento, infatti, la radiosità della Venere botticelliana è obbligata a rivelare il suo fondo d'orrore. L'apertura di Venere significa qui letteralmente taglio, lacerazione, superamento del carattere ideale della bella immagine, «attraversamento dello specchio» (come direbbe Antoni Tapiès).

 

E' impossibile ridurre la nudità della Venere al paradigma scultoreo di una bellezza solo ideale senza tener conto «dell'inquietudine mortale che porta con sé ogni nudità della carne». In particolare, il carattere tragico di Botticelli si rivela nelle sequenze della Storia di Nastagio degli Onesti, dove la Venere appare rincorsa e dilaniata da cani feroci, per essere infine sventrata, ferita, smembrata in un modo tale da fare riapparire in questo stesso squartamento del corpo e della sua bella immagine, la potenza ingovernabile del reale della pulsione di morte.

Nella lettura di Didi-Hubermann, la Venere di Botticelli ci offre, dunque, un esempio paradigmatico del rapporto tra simbolico e reale che governa l'opera d'arte. Il punto chiave è qui come intendere questa apparizione dell'informe. Gran parte dell'arte contemporanea sembra perdersi in un'attrazione feticistica o psicotica di fronte a tale apparizione. Forma-informe, Venere di marmo-Venere aperta, apollineo-dionisiaco (Mallarmé e Artaud, Freud-positivista e Freud-egizio), simbolico e reale. Ogni opera d'arte vive della tensione continua di questi due estremi. Un testo di grande importanza, in questo ambito, è L'informe di Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss (Bruno Mondadori, 2003), due storici dell'arte che non disdegnano di richiamarsi spesso a Freud e a Lacan.

Affascinante e audace nella sua costruzione concettuale, questo testo rivela apertamente la tendenza «psicotica» dell'arte contemporanea, ovvero questo mito di un accesso diretto, prelinguisitico - «originario», «animale», «naturale», «tattile» - alla cosa. Gli autori insistono nel presentare il concetto di «informe» come sganciato da una corrente precisa dell'arte contemporanea (dunque non vale il riferimento all'esperienza storica dell'informale, che è anzi agli antipodi dell'informe). Si tratta piuttosto di un'«operazione» («né un tema, né una sostanza, né un concetto») imparentata con quell'operazione che Bataille chiamava «scatologia» o «eterologia». Si tratta di quell'operazione di declassamento, nel suo doppio senso di «abbassamento» e di «disordine tassonomico», che emancipa l'arte da ogni ideale estetico «alto».

Questa operazione si scandisce in quattro direzioni: «orizzontalità», «basso materialismo», «pulsazione» ed «entropia». La sua finalità è radunare in uno stesso movimento artisti e opere diversi tra loro, ma accomunati dall'intento di sovvertire il carattere «modernista» dell'opera d'arte. Prendere in «contropelo» il modernismo significa innanzitutto mostrare come l'opera d'arte moderna si fondi su una serie di procedure di esclusione: esclusione del «tattile» e del «temporale» rispetto all'istantaneità visiva (il quadro si dà classicamente in un istante all'occhio dello spettatore); esclusione dell'animalità (in quanto l'attività artistica sarebbe un'attività in sé sublimatoria che «separa il soggetto percepiente dal suo corpo»); esclusione del disordine e del frammento (in quanto l'opera «deve avere un inizio e una fine»). Il valore d'uso dell'informale, secondo il libro di Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, è in controtendenza rispetto a queste esclusioni. Dunque: orizzontalità significa, per questi autori, ribaltamento della posizione idealmente verticale acquisita dall'uomo (contaminazione con la polvere e col fango), superamento della netta demarcazione tra la «verticalità del campo visivo» e il «campo carnale». E' nell'action painting di Pollock che questa rotazione dal verticale all'orizzontale troverebbe la sua massima manifestazione. Per basso materialismo si intende, invece, un recupero della materia contro ogni idealismo (compresi quelli cosiddetti materialisti).

Untitled No 3 Jackson Pollock

Anche in questo caso viene colpita al cuore la presunzione della posizione verticale dell'essere umano e dei suoi ideali. Le sculture e i tagli di Fontana, come le sue ceramiche spaziali, così come le Combustioni di Burri vengono presi come esempio di questo «amore per lo escrementizio» di cui si nutre il basso materialismo, contro ogni dover-essere ideale. L'operazione alla quale si allude sotto il nome pulsazione consiste nell'introdurre la temporalità nel campo visivo. Si tratta di fare spazio al battito animale, all'irruzione del carnale nel tempio modernista della «pura visibilità».

 

Grande Rosso P18, Alberto Burri

Con la pulsazione il campo visivo cessa di essere un campo neutro, perché si trova attraversato da una corrente che «buca lo schermo del suo formalismo e lo popola di organi» - è questo il movimento compiuto da Duchamp il cui «oculismo» attenta, nella pulsazione dinamica dei suoi dischi ottici, la stabilità ideale della «buona forma». Con l'ultima operazione - quella sintetizzata come entropia - si completa il valore d'uso dell'informe, ovvero si definisce la messa in valore di una tendenza alla perdita di energia che, come la fisica insegna, colpisce il funzionamento di ogni sistema. Non a caso il «rifiuto» appare un oggetto centrale della nostra civiltà e autori come Piero Manzoni ne mostrerebbero il carattere proliferante. Il destino dell'arte contemporanea si compirà dunque nel culto dell'abiezione? Si compirà nell'apologia psicotica o perversa degli organi del corpo, dei suoi orifizi e delle sue secrezioni? Si compirà nel ribaltamento - di tipo assolutamente puberale - dell'ideale del bello nel suo rovescio speculare, ovvero nell'esibizione idealizzata dell'escrementizio? E' a tutto questo che ci conduce la critica al «sistema della forma»? Cosa ne direbbe Freud, che definiva il fondamento della vera arte poetica come uno schermo rispetto al «disgustoso»? E cosa ne direbbe Lacan, che pure aveva elogiato l'apparire del «bidone della spazzatura» in Finale di partita, riconoscendo al suo autore il fatto di avere salvato, così ,«l'onore della letteratura»?

Non a caso Adorno dedicò la sua Teoria estetica a samule Beckett. Davvero Pollock, Burri e Fontana possono essere risucchiati nella ideologia dell'informe, nell'orizzontalità del basso materialismo? La ferita che incontriamo nelle loro opere - quella ferita che secondo Roland Barthes «ci punge» - può essere davvero intesa prescindendo dalle leggi formali che regolano l'opera, ovvero dal fatto che il suo essere è innanzitutto un essere di linguaggio? Lacan ricordava nel suo Seminario titolato L'etica della psicoanalisi che l'essenza dell'opera d'arte non consiste semplicemente nella sua diretta prossimità al vuoto innominabile e osceno della Cosa; ma nella sua capacità di riuscire a darne un'organizzazione simbolica. L'arte, infatti, non è il vuoto della rappresentazione quanto piuttosto la rappresentazione del vuoto. In questo senso essa non può mai liberarsi dal linguaggio in nome di un originario prelinguistico. Ecco perché, sempre Lacan, definiva in quello stesso Seminario il «bello» come una barriera di fronte all'orrore del reale, come una difesa non «dal» desiderio, ma «del» desiderio.

da www.ilmanifesto.it

 

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