Anna Cellamaro "La giustizia
va all'inferno" Michele Di Salvo Editore
Commento di
Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
Capita spesso che per scontare residui
di pena riferiti a reati commessi anche molti anni prima, in molti si siano
ritrovati a dover interrompere percorsi personali, lavorativi, famigliari
intrapresi con il preciso scopo di emanciparsi dalla condizione di ex detenuti.
Poi un giorno arriva la sentenza e per qualche mese è di nuovo carcere,
il ritorno di una condizione che si era sperato di essersi lasciati alle
spalle per sempre. È quello che succede a Primo Damici, il protagonista
di “La Giustizia va all’Inferno”, il romanzo d’esordio di Anna Cellamaro.
Attenzione, sensibilità,
una sottile ironia e la profonda conoscenza del carcere e di chi lo abita,
i detenuti, il personale nei vari ruoli e i volontari, sono alla base di
una narrazione che scorre veloce e coinvolgente, che mette in evidenza
gli aspetti profondi della realtà carceraria, di “quell’animale
– come lo definisce il protagonista – che mi avrebbe ingoiato, a lungo
masticato e infine impietosamente espulso fuori, indifferente, i miei resti”.
L’autrice, impegnata nel campo penitenziario
dal 1984, prima nel Servizio interventi penitenziari della Regione Piemonte
e dal 1991 come educatrice nel carcere di Torino, riesce, mentre racconta
la vicenda di un detenuto che in carcere trova amicizia e motivazioni per
pensare alla vita in generale e alla propria in un futuro diverso, a mettere
in evidenza, e proprio nel contrasto, le carenze umane e strutturali del
carcere: il sovraffollamento che porta alla violenza e alla solitudine,
le strutture di pessima fattura, insopportabile caldo in estate e gelo
in inverno, un comune modo di considerare i detenuti dei numeri, dei reati
anziché delle persone, i percorsi umilianti a cui debbono sottostare,
le regole illogiche, la mancanza di sensibilità, di attenzione,
di ascolto. Il carcere è un luogo dove è quasi impossibile
non peggiorare, ma dove esistono anche persone che credono nel proprio
lavoro, che lo fanno con passione, serietà e rispetto.
La storia di Primo non si propone
come un modello: è semplicemente un mezzo per raccontare un mondo
ancora poco conosciuto e spesso visto come lontano da noi, un modo per
mettere in luce i limiti di una giustizia che molto spesso non riesce a
ottenere gli obiettivi che si è data perché non sa tenere
conto delle situazioni e delle differenze, perché spesso vuole “conservare
il già conosciuto, le sicurezze già acquisite, i poteri stabiliti”,
perché pensa che il carcere possa essere una soluzione per tutti
i reati e non sa prendere in considerazione altre forme di inserimento
sociale, culturale e umano.
Correndo velocemente per i corridoi,
tra le celle, guardando da finestre in cui le sbarre si fanno sempre più
fitte, ascoltando i rumori, le urla, i richiami, i mille bisogni e desideri,
i sogni e i ricordi, le attese, le illusioni e le disperazioni, il dolore
fisico e morale, Anna Cellamaro ci fa conoscere con delicatezza questa
piccola città in cui la società tenta di isolare il male,
di allontanarlo da sé, senza rendersi conto che questa separazione,
questa negazione dell’altro non può che portare a un peggioramento
della vita di tutti.
gabriella bona
|