Sergio Benevento:
"Dicerie e pettegolezzi" - edizione Il Mulino
Recensione di Gabriella
Bona
Qualsiasi persona, durante la propria vita,
non è in grado di verificare che una piccolissima parte delle informazioni
e delle notizie che incontra sulla propria strada. Come riuscire a capire
se sono vere o false, se meritano di essere ricordate o meno? Leggiamo
i giornali, ascoltiamo la radio, vediamo la televisione, studiamo sui libri
di seri studiosi, frequentiamo incontri e conferenze anche se spesso scegliamo
giornali, radio, televisioni, libri o dibattiti che servono a consolidare
un’idea che abbiamo già adottato, a cui siamo affezionati. Spesso,
invece ci troviamo catapultati in dibattiti su temi sui quali abbiamo poche
e confuse idee ma sui quali, da un giorno all’altro, sembra un obbligo
avere un opinione: il caso Di Bella è uno dei casi più recenti.
Oppure scopriamo che opinioni ufficiali da secoli, come quella secondo
la quale gli affreschi della Chiesa superiore di S. Francesco d’Assisi
sono di Giotto, nel 1997 si dimostra falsa: sono di Pietro Cavallini.
Come districarsi tra tante notizie,
come distinguere tra tante informazioni quelle vere da quelle false, inventate
o mal interpretate?
Sergio Benevento con il libro “Dicerie
e pettegolezzi” edito dal Mulino, ci offre alcuni attenti e precisi strumenti
per sopravvivere al bombardamento di notizie senza rischiare di fare la
figura degli scemi, presentandoci un ampio campionario di voci, leggende
metropolitane, dicerie, fandonie, false informazioni, interpretazioni abusive
o forzate o comunque soggettive. Ma nessuno può pensare di riportare
la realtà senza scostamenti dovuti alla propria interpretazione:
vediamo ciò che succede attraverso i filtri della nostra età,
esperienza, cultura, pregiudizi, paure, vediamo e ricordiamo soltanto parti
di ciò che abbiamo vissuto e la notizia, circolando, subisce ulteriori
processi di “appiattimento”, diventando “più breve, più concisa,
più semplice”, di “accentuazione” dove “un particolare insignificante
diventa il centro”, di “assimilazione” a preconcetti presenti nella
mente del narratore/ascoltatore.
La diceria e il pettegolezzo diventano
spesso “una forma di polizia” dove “la chiacchiera denuncia atti reprensibili,
così additati al pubblico biasimo”, diventa un modo per rendere
pubblici argomenti che solitamente si ritiene più educato tacere,
per esprimere teorie razziste, per tentare di mettere in cattiva luce gruppi
o classi sociali.
La diceria e il pettegolezzo nascono
spesso dalla paura e dall’invidia verso chi ha più potere e trovano
terreno di diffusione tra chi ha interesse a considerare vera la notizia
e a propagarla ulteriormente. Chi, sospettoso di natura, non è disposto
a credere, scopre che sono spesso fatti successi in posto lontani e non
ben definiti, riportati da qualcuno, ma nessuno sa chi è, che era
presente.
Importante differenza, scrive Benevento,
è quella tra i “vocefondai”, coloro che riportano volentieri, aggiungendo,
togliendo e interpretando, quanto hanno sentito e i “vicolocecanti” che
per sospetto o disinteresse lasciano cadere l’informazione. I primi, scrive,
sono persone poco socievoli e con pochi amici, che trovano in questo modo
uno spazio sociale per alleviare il proprio isolamento.
Il libro di Benevento è sicuramente
un libro utile, anche se rischia di crearci più problemi di quanti
ne risolve ma che ci obbliga a guardare al funzionamento della nostra memoria
e alla realtà con occhio più attento.
gabriella bona
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