“Silenzio a Milano” di Anna Maria
Ortese, ripubblicato da Baldini & Castoldi
Recensione di Gabriella
Bona
Negli ultimi decenni il mondo, nel bene
e nel male, è cambiato ad una velocità rapidissima. Per rendersene
conto basta guardare una fotografia di una quarantina di anni fa e notare
i particolari che rivelano questi mutamenti.
“Silenzio a Milano” di Anna Maria Ortese,
ripubblicato da Baldini & Castoldi a quarant’anni dalla sua prima apparizione,
ci offre un’immagine di una Milano che non esiste più, di persone,
momenti, costruzioni che è difficile pensare abbiano avuto un aspetto
simile soltanto pochi anni fa.
In una attenta e piacevole prosa giornalistica,
che fa rilevare quanto anche il giornalismo sia cambiato, Ortese dà
voce a chi, in quegli anni, era costretto al silenzio. La stazione centrale,
“le colonne, i bassorilievi, i leoni alati; le tettoie, le sbarre, il fumo;
la pietra e il ferro, il bianco e il nero, l’orribile ‘cosa’ di piazza
Duca d’Aosta” nasconde piccoli e grandi dolori e tragedie, le famiglie
degli immigrati, i lavoratori turnisti, le persone che lì cercano
qualche cosa che non sanno neppure loro che cosa sia, il vecchio professore
in cerca di una speranza, la stazione diventa “punto d’incontro di un’Italia
invecchiata, sorda, incivile e di un’epoca affamata di produzione”, al
centro di questa città dove “si entrava per essere trasformati in
cose, in cifre o respinti”. Il Centro di rieducazione di Arese, dove
i ragazzi difficili, soprattutto poveri, soprattutto meridionali, vengono
rinchiusi, il desiderio più grande diventa la solitudine, un istante
di solitudine, in quel casermone dove vivono in enormi camerate, senza
un attimo di intimità, per pensare in silenzio a se stessi. Al contrario,
nelle case albergo, alloggi per chi viene da fuori città, la solitudine
diventa un obbligo e l’isolamento è pesante da sopportare in una
città fredda e sconosciuta.
Leggiamo il silenzio della povertà,
degli emarginati, dei matti, di chi ha perso o non ha mai trovato la possibilità
di sognare, di immaginare una vita diversa da un continuo doloroso presente,
tra case che crescono in pochi giorni, frenetici cambiamenti dove Antonio
sente che “queste cose non lo assorbivano, ma lo schiacciavano”, nella
città che allontana i suoi abitanti per confinarli in sempre più
ampie periferie, tutte tristi, tutte uguali.
Sono pagine scritte con attenzione,
che ci permettono di cogliere vecchie povertà e di confrontarle
con le nuove, non molto diverse, anche se l’aspetto esteriore è
molto mutato. Quello che rimane, che questi racconti ci rivelano e su cui
diventa impossibile non meditare, è il silenzio: di chi non sa parlare,
di chi ha paura ad esprimersi, di chi tenta di farsi sentire ma non trova
nessuno pronto ad ascoltare.
gabriella bona
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