Il fu Mattia Pascal

Luigi Pirandello (estratti)
 



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(Micro)cosmo


microcosmo

(1) Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente.Oramai noi ci siamo adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico della nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci, ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra poverina stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così noiosi come adesso. Basta. Parecchie migliaia di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? Don Eligio Pellegrinotto, mi fa però osservare che, per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente. […] Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.

Libertà (2) «E innanzi tutto,» dicevo a me stesso, «avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’essere stati due uomini».

(3)  Mi calcai il cappellaccio su gli occhi e, sotto la pioggerella fina fina che già il cielo cominciava a mandare, m’allontanai, considerando però, per la prima volta, che era bella, sì, senza dubbio, quella mia libertà così sconfinata, ma anche un tantino tiranna, ecco, se non mi consentiva neppure di comprarmi un cagnolino.

Fenomenologia

(4) Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch’esso evoca e provoca e aggrappa, per così dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura ben si trova nell’oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d’immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi i che le nostre abitudini vi associano. Nell’oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l’accordo, l’armonia che stabiliamo tra esso e noi, l’anima che esso acquista per noi soltanto e è formata dai nostri ricordi.

Coscienza


coscienza

(5) La coscienza? Ma la coscienza non serve, caro signore! La coscienza, come guida, non può bastare. Basterebbe forse, ma se essa forse, ma se essa castello e non piazza, per così dire: se noi cioè potessimo riuscire a concepirci isolatamente, ed essa non fosse per sua natura aperta agli altri. Nella coscienza, secondo me, insomma, esiste una relazione essenziale… sicuro, essenziale, tra me che penso egli altri esseri che io penso. E dunque non è assoluto che basti a se stesso, mi spiego? Quando i sentimenti, le inclinazioni, i gusti di questi altri che io penso o che lei pensa non si riflettono su di me o in lei, noi non possiamo essere né paghi, né tranquilli, né lieti; tanto vero che tutti lottiamo perché i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano nella coscienza degli altri. E se questo non avviene, perché… diciamo così, l’aria del momento non si presta a trasportare e a far fiorire, caro signore, i germi… i germi della sua idea nella mente altrui, lei non può dire che la sua coscienza le basta. A che le basta? Le basta per viver solo? per isterilire nell’ombra? Eh via! Eh via! Senta: io odio la retorica, vecchia bugiarda e fanfarona, civetta con gli occhiali. La retorica,sicuro, ha foggiato questa bella frase con tanto di petto in fuori: «Ho la mia coscienza e mi basta». Già! Cicerone prima aveva detto: Mea mihi conscientia pluris est quam hominum sermo. Cicerone però, diciamo la verità, eloquenza, eloquenza, ma… Dio ne scampi e liberi, caro signore! Noioso più di un principiante di violino!

Sapere (6) C’è chi comprende e chi non comprende, caro signore. Sta molto peggio chi comprende, perché alla fine si ritrova senza energia e senza volontà. Chi comprende, infatti dice: «Io non devo fare far questo, non devo far quest’altro,m per non commettere questa o quella bestialità». Benissimo! Ma a un certo punto s’accorge che la vita è tutta una bestialità, e allora dica un po’ lei che cosa significa il non averne commessa nessuna: significa per lo meno non aver vissuto, caro signore.

Relazioni

(7) ) Le anime hanno un loro particolare modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e le loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quanto veda l’impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d’ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana e cessa subito, non appena un terzo intervenga, allora, passata l’angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorriderci da lontano.

Bene e male (8) Potei sperimentare che l’uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del male che glia altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto di compenso; e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno il bene quasi per dovere, egli li accusa e di tutto il male ch’egli fa quasi per diritto, facilmente si scusa.

Lanterne


lanterna

(9) ) A noi uomini, nascendo, è toccato un triste privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.E questo sentimento della vita […] era come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé accesso; un lanternino che ci fa vedere sperduti sulla terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che proietta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe se in lanternino non fosse accesso in noi ma che noi dobbiamo purtroppo credere vera, fintanto ch’essa si mantiene vivo in noi.

(10) Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento si scinde, riamane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che sono detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso buio, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, che si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche ce non trovino più la bocca del formicaio otturata per spasso da un bambino crudele.[…] Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell’alimento necessario le loro lanternucce. […] Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certa invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. Ma domando io ora, […]: e se tutto questo buio, quest’enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se noi, finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanto paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi quel lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato definito da questo cerchio d’ombra fittizia oltre il breve ambito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci proiettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane così imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste. Noi, - non so se questa possa farle piacere – noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com’esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco che forse in un’altra forma d’esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate, […], di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, dalla paura che c’ispirò!

(11) ) Non viviamo noi, […], in relazione con l’universo? Ora sta a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa commettere, di cui chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra, tirata da forze esterne, abbagliata da una luce che è fuori di lei. E, all’incontro, quante deliberazioni prese , quanti disegni architettati, quanti espedienti macchinati durante la notte non appaiono poi vani e non crollano e non sfumano alla luce del giorno? Com’altro è il giorno, altro la notte, così forse una cosa siamo noi di giorno, altra di notte: miserabilissima cosa, ahimè, così di notte come di giorno.

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Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal (Ed. Mondadori, I Meridiani)

(1) cap. II – (2), (3) cap. VIII – (4), (5) (6) cap IX – (7) cap. XI – (8), (9), (10) cap. XIII – (11) cap. XV

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