Critica di Gerardo Pedicini

 

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Tratto dal catalogo Dei campi e della civiltà contadina a sud di Procida

di Gerardo Pedicini, 1997

A  Sud di Procida. Il titolo delimita immediatamente il territorio. Lo individua geograficamente e, nello stesso momento, lo indica come luogo privilegiato del discorso, avvertendoci che bisogna partire da questo punto preliminare di osservazione, da questo confine per comprendere ciò che avviene, ciò che è accaduto, ciò che è a Sud di Procida.

Tale prospettiva non è senza fascino, anche se sconcerta per la ricchezza dei motivi cui fa riferimento. Il Sud, di cui il titolo intende discutere, diventa, immediatamente, un campo di saperi e di conoscenze sterminato, infinito. E qualsiasi tentativo di comprenderlo nella sua interezza, ci appare un’impresa difficile, improba. Soprattutto oggi che non lo si può più affrontare con i mezzi e gli strumenti di una ragione classica, in quanto l’omologazione ha eroso, fin nel profondo, i perimetri in cui si iscriveva la sua identità e le caratteristiche della sua forte soggettività che, anche se non in linea col progresso del paese, ne facevano un territorio ancora caratterizzato di una propria matrice storica, antropologica, sociale.

"Oggetto" Scultura in legno, 1995 (Diametro cm 100)
Pur tuttavia, la difficoltà non ci impedisce di leggere al di sotto della apparenza della superficie la molteplicità culturale dei rimandi. Il viluppo senza fine di tracciati che si intersecano e si aggrovigliano, la sottesa evocazione poetica che li accompagna gli echi che solleva e i motivi lontani che richiama. Immediatamente li facciamo nostri, immediatamente diventano la nostra ideale linea di orizzonte. Ma altrettanto immediatamente veniamo frenati. Il sottotitolo (I segni della civiltà contadina) ci impongono questo rallentamento. Dunque, si vuole discutere di questi segni. Dei segni della civiltà contadina. E da quale angolazione, da quale punto di osservazione? Gli interrogativi si aprono a nuove dislocazioni mentali, a nuovi richiami e rimandano a nuovi significati.

Lo smarrimento è totale: ci si sente  come naufraghi, in un vasto mare. Anche perché è difficile comprendere da dove partire, quali segni la rassegna vuole discutere e di quale cultura. Quella che si è appiattita nelle secche del consumismo o di quella che è ormai, o appare,  un residuo antropologico, e che, pertanto, ha smarrito ogni valore d’attualità, e ha perso ogni significato contestuale?

Né ci soccorrono,  a fugare questi legittimi dubbi, gli artisti della rassegna. Da un lato Carlo Levi e dall’altro Antonio Baglivo. Due realtà antitetiche, non solo sul piano poetico ma anche sul piano temporale e spaziale.

Carlo Levi  muove la sua ricerca pittorica nell’ambito della rappresentatività figurativa, vissuta dentro la realtà storica e artistica, dagli anni trenta agli anni cinquanta.  Antonio Baglivo vive l’attualità della nostra condizione storica orfana di certezze, caratterizzata dalla perdita di centralità, dal tramonto delle ideologie a cui si accompagna un totale smarrimento epocale. Agisce ed opera cioè in un territorio culturale che, dopo i fasti della stagione concettuale e dopo le postazioni analitiche condotte dagli artisti sui mezzi e sui luoghi stessi del linguaggio dell’arte, sulle modalità di essere, di porsi e di presentarsi dell’oggetto estetico come punto nodale di significazione e incrocio di comunicazione, non ha saputo rinnovare e affinare gli strumenti d’indagine; e quando l’ha fatto ha attraversato i linguaggi storici, più con uno sguardo al mercato, che con l’intento di operare una analisi delle condizioni di fatto del fare arte nella nostra società.

Ciò ha portato la ricerca artistica a una volontaria dimissione , come se la realtà e il proprio essere nella realtà si fossero completamente annegati nell’insignificanza dell’esistenza. Questa immersione nell’esistente si è operata con diverse modalità di decentramento. E l’arte ha finito così per abdicare al proprio ruolo, ha negato la propria funzione, diventando il luogo epifanico dell’apparenza, un gioco nel gioco complesso della vita.

Certo, ciò è stato possibile grazie alla complicità della critica che, come gli artisti, ha smarrito il proprio ruolo, riducendosi e confezionandosi all’interno delle ragioni del mercato. Anzi quest’ultima, con la componente discorsiva che le è propria, ha giustificato e avallato ogni operazione artistica, circoscrivendo la sua funzione nell’assolutezza del suo dettato critico dimenticando che “nel discorso critico la funzione metalinguistica accompagna e sorregge una funzione fondamentalmente referenziale” che, come giustamente rileva Menna, non sempre è riducibile a discorso, in quanto nell’oggetto estetico si sedimenta la “compresenza di un fattore operativo e di un fattore comunicativo”; compresenza che chi vuole penetrare nei perimetri dell’opera d’arte deve ripercorrere per comprendere i meccanismi che reggono e regolano il discorso artistico e ne fanno un luogo significante, pena di cadere altrimenti nella “convinzione, più o meno esplicita, di una sostanziale ineffabilità dell’arte da intendere come non traducibilità in un altro linguaggio” o nel “convincimento contrario di una traducibilità totale del messaggio artistico in una formulazione teorico-critica, fino al punto che i due messaggi finiscono con il coincidere” (Critica della critica, p.37). Da questa angolazione si intende avviare un preciso riscontro critico con l’opera di Baglivo. Che, del resto, già in altra sede abbiamo affrontato e identificato, quando abbiamo scritto che alla base dell’operatività di Baglivo agisce “l’unità dell’idea astratta, nel senso indicato da Max Bill e sviluppata da Max Bense; e ciò al fine di raggiungere e sintetizzare, trasponendoli in nuovi ambiti e percorsi immaginari, la correaltà dei nessi estetici e logici”. E ancora: “i passaggi tra questi due momenti ideativi e operativi non sono mai forzati, né - direi - scanditi ma entrano, con dolci movenze, in relazione con la superficie con la quale dialogano per individuare, fondare, segnare nuove e incalzanti varianti segniche”. E, in conclusione, si riconosceva che, proprio per queste ragioni, “l’universo immaginativo di Baglivo acquistava una propria legittimità espressiva, una propria cadenza interiore”(Presentazione mostra personale Antichi Arsenali di Amalfi).

" Senza Titolo " Legno patinato, 1995 (Cm 70 x 70)
Questo iter intendiamo seguire per l’artista salernitano. Per quanto riguarda l’attività di Carlo Levi, da parte nostra, non c’è nessuna volontà di tacerne i meriti. E, del resto, sarebbe impossibile, in quanto siamo consapevoli della sua collocazione storica. Aggiungere nuove motivazioni critiche, ci porterebbe ad un esercizio di riscrittura che giudichiamo inutile.

Dunque, Baglivo. Il solo lavoro di Baglivo che, a differenza di quello di Levi, non nasce da una postazione ideologica, né dalla  amara e dolente consapevolezza di chi si trova a vivere, malgré lui, una condizione storica pregna di religiosità in una realtà confinata e, direi, bloccata al di fuori della storia, alle soglie, nel bene e nel male, dell’infanzia della umanità (Cristo si è fermato ad Eboli), ma muove dall’interno del processo stesso della storia. Dai suoi segni, dai suoi lasciti, dal suo labirinto di tracce. E a partire da essi avvia la ricerca della propria identità e della propria storia.

Qui, credo, risieda il limite o meglio il diaframma tra una operatività, quella di Levi, e l’altra, quella di Baglivo. Qui il segno distintivo del suo procedere operativo. Che non vuole essere mimesi, ma religioso raccoglimento. Un ripiegamento entro se stesso che, partendo dalle vestigia della Storia, della nostra storia, aspira ad un’opera di ricomposizione e di raccolta della memoria, con i suoi echi, con le sue profondità abissali, con i suoi percorsi esperienzali.

Considerata in quest’ottica, l’opera di Baglivo diventa un repertorio, una catalogazione, un archivio di momenti, di atti, di fatti, di segni, di emozioni, di ricordi, di atmosfere, di racconti provvisori che si evolvono per approssimazioni successive, che avanzano di frammento in frammento, e si pongono come luogo della cosa e nello stesso momento come ripensamento della cosa stessa. E la “cosa”, per Baglivo, è ovvio, è quell’Altro da sé dimenticato, confinato nell’infanzia di Casalvelino, dove è nato. Quel palpito, appunto, di un mondo intriso di segni, dove ancora vigono credenze, aspetti, luoghi dell’immaginario della cultura contadina; dove si attestano i richiami e gli echi della cultura della Magna Grecia; dove la memoria collettiva è ancora  una voce rapsodica che viaggia in sintonia con la natura.

E’ questo mondo che Baglivo vuole ritrovare, che ricerca entro se stesso e che la città, in qualche modo, gli ha sottratto e rimosso. E’ questo mondo che vuole rappresentare, in modi e forme analogiche, spazianti, con una trasposizione allusiva di atmosfere, con uno slancio evocativo che, in qualche modo, riporti nell’opera l’anima e l’essere di quella cultura, piuttosto che aspetti visibili della sua narratività. E’ con questo intento muove la sua ricerca. Che è una ricerca anche fabbrile per mettersi in sintonia con lo scenario del mistero della creazione. Questo spiega la scelta dei materiali e le modalità operative, l’iterazione ripetitiva di gesti e atti, la persistenza di alcune figure, la scelta di determinate icone che, indirettamente, si richiamano e ci riportano verso quel mondo.

Per agire in questa direzione, Baglivo ha dovuto operare una sorta di trasposizione di sé, ha dovuto cioè entrare in rapporto con l’Altro, con l’Altro da sé perduto nelle pieghe del tempo, lasciato nelle plaghe delle case di Casalvelino o lungo le spiagge brividanti di luci e di colori del mare di Velia che, forse, ancora custodiscono le tracce della sua infanzia e dove, forse, è ancora possibile rinvenire gli echi e le memorie di una cultura e di una modalità di porsi di questa cultura rispetto alla Storia e al suo darsi come storia.

Verso questo mondo Baglivo disloca tutto se stesso e da qui prende l’avvio la rimemorazione. Da questo polo del desiderio partono però altri percorsi di Alterità che si dirigono “verso un luogo primario pre-individuale, strutturante, che, nella terminologia di Greimas, può essere occupato e ridotto dalla figura dell’Ordinatore cosmologico, e che nelle formulazioni di Jean Petitot, è popolato di pregnanze a-semantiche”, come ci avverte Prado Coelho. Ma sono proprio queste pregnanze che l’artista intende scoprire e ritrovare, recuperare e rappresentare. In quanto si rende conto che in esse è racchiuso quel patrimonio di conoscenze che l’ hanno determinato come uomo, e ha avuto origine, in lui, “lo spazio asimmetrico dove si elabora l’enunciazione, si basano le credenze, si processano gli intrecci della manipolazione e della seduzione. Essendo la manipolazione un intreccio dove io, manipolatore, agisco soltanto come Soggetto-del-fare. Essendo la seduzione un intreccio dove io, Soggetto-del-fare, mi lascio coinvolgere e convertire in Soggetto passionale. Perciò, nella seduzione, la terra ci sfugge sotto i piedi. Sino alla caduta. Questa asimmetria fa sì che il Soggetto-ego sia infinitamente passivo in relazione al Soggetto-alter, perché ha interiorizzato il riferimento del mondo che rappresenta. Ma questa infinita passività è la fonte di un’attività senza limiti” ( Prado Coelho). E questa attività senza limiti che Baglivo solleva dall’imo della rimozione del tempo, perché in essa è il regno dell’equilibrio precario delle figure, l’infanzia della parola e delle immagini che si porta dentro. “L’infanzia triste di un dio futuro, la desolazione umana dell’immortalità presentita”, secondo Pessoa, dove prendono corpo i percorsi dell’alterità come sogno ed evenienza della cosa radicata nel profondo della nostra coscienza.

"Senza Titolo" Xilografia a rilievo, 1994
Il continuo transfert  mentale, il complesso gioco di ricomposizione dei dati aurorali della memoria  sono i passaggi che possono consentirci di ritornare alla fonte primigenia di questi movimenti a-sematici. Relegati in una zona buia del nostro essere, compressi dagli affanni della vita quotidiana essi ritornano a vivere riattraversando le infinite connessure che finora avevano impedito il passaggio e riaffiorano lentamente alla mente, riportandoci i palpiti perduti della nostra storia, gli stadi percettivi e le sensazioni del passato, i profumi, gli echi, gli odori, i sapori, le parole di un tempo d’antan, che il tempo aveva rimosso. E questa sorta di scavo che l’artista opera gli permette di ritrovarli ancora palpitanti e vivi  nei meandri del proprio io, consentendogli di ricongiungersi a quell’Altro da sé smarrito nella difficile condizione postmoderna.

E’ lo stesso Baglivo a indicarci questo percorso di lettura con “Katakatascia”.

Ascoltiamolo. “Katakatascia/a monte e abbascio/ mamma t’è chiuso/ indo la cascia/ katakatascia, katakatascia...” Così l’incipit. Katakatascia, cioè la lucciola, chiusa nell’ampolla di vetro, è l’emblema della debole traccia della memoria. La cascia, il vetro, il luogo da cui possono muovere i ricordi o dove possono definitivamente morire. 

Il mondo delle pregnanze a-semantiche si accampa in questo luogo, e questo spazio-tempo-luogo segna lo stato aurorale dell’infanzia da cui  è stata espulsa la desolazione umana del dio futuro, di cui sopra. E’ uno spazio senza confini e senza più certezze. E in esso si procede per successive tappe, per approssimazioni, per analogie di confini, per evocazioni. Si procede à rebours, in una terra desolata dove si inciampa continuamente nei lasciti informi, nelle scorie, nei detriti che il secolo ci ha consegnato. Il malessere della coscienza diviene senza fondo. Totale. Si ha la consapevolezza che l’ anima  della realtà e il suo senso non sono più raccontabili o riassumibili in un’opera definitiva ma darsi solo per frammenti. “Katakatascia” è, appunto, la storia di questo frammentato viaggio. La ricomposizione, in qualche modo, dei resti che ancora dominano la scena della nostra esistenza quotidiana. Il racconto dell’Altro da sé che agisce nella memoria, e che si manifesta con onde intermittenti come un luccichio lontano, come una eco, come traccia sempre ritornante  su di sé che si dà per illuminazioni improvvise, per accensioni ma anche con altrettanto improvvisi cedimenti e cadute. Ma nonostante questi percorsi accidentati essa ci consente di testimoniare le modalità del nostro esserci nella storia, e le forme con cui ne prendiamo atto.

Per questo, questo racconto, questa sorta di zibaldone di frammenti e di baluginii della coscienza, che è Katakatascia, anche se è stato scritto solo recentemente e non integralmente viene stampato per questa rassegna, ha funzionato, inconsciamente, da sempre, come traccia poetica sotterranea nell’opera di pittura e di scultura di Antonio Baglivo. Da qui prende l’avvio la sua attitudine a dislocarsi nel luogo dell’Altro da sé, in quel luogo cioè che rappresenta l’intima operatività dei suoi poetici lavori. Un dislocarsi che altro non è che un ritrovarsi, un sapere di esserci, un definirsi e un riconoscersi.

“Non erano fratelli, erano uno, duplicato e contrapposto. Ma erano anche due, l’uno nell’altro. Come astri gemelli che si inseguono costretti in un’orbita tiranna regolata da forze uguali e contrastanti, in equilibrio eterno. Mai si sarebbero incontrati, né i loro sguardi si sarebbero incrociati: come l’uomo che volge le spalle allo specchio, mai l’uno riuscì a vedere il viso dell’altro. Vissero così, compressi in un unico involucro di pelle stretto e opprimente, vicini e distanti, uguali e diversi, uniti e separati, accomunati solo dalle lacrime della disperazione e dall’impotenza, dal digrignare dei denti e dalla follia devastante. E le grida acute e le bestemmie furono le loro preghiere e i lamenti i loro canti”.

La narrazione di “Katakatascia” dunque argomenta un ritorno, un tentativo di ripartire dal luogo stesso che avevamo abbandonato. La discesa  nelle derive dell’inconscio accompagna il viaggiatore solitario e lo sostiene nella difficile impresa di  cogliersi nell’ io di oggi, l’uomo di ieri. E’ una sorta di entrata e nello stesso tempo una uscita, un peregrinare nell’infinito mare dell’essere in cerca della propria patria, come Ulisse. Un viaggio inarrestabile, senza fine, senza contorni definiti, senza uscite.

Lo stesso avviene nell’opera pittorica e scultorea di Baglivo. Dalle prime opere alle più recenti. A ben guardare già nei lavori dei suoi primi anni di magistero artistico, si possono rintracciare gli esiti attuali. La campionatura era allora la natura: farfalle, gusci di lumache e di conchiglie, fossili, nervature di pietre. Erano il documento, l’atto protocollare dei suoi primi interessi di fanciullo. Il suo primo affacciarsi nel campo della conoscenza. La natura era il vertice di questi interessi. Veniva però ripercorsa e traspostoa con la malizia dello sguardo di un adulto e con una formulazione iperrealistica. Quasi come se l’artista volesse ricordare e ricordarci quanto l’umanità andava smarrendo con la sua folle corsa tecnologica. E lo faceva, da una postazione, direi, ecologica. E a mo’ di ammonimento, ci dava i risultati  con riferimento fedele all’oggetto, con una puntigliosità maniacale, assolutizzante.

Subito dopo questa stagione, incominciò un intenso scavo sulla materia. Una materia che, nella preziosità del lavoro artigianale, accoglieva un vasto repertorio di frammentate visioni, che ragionavano di antichi equilibri e agognavano ad una “dimensione esclusiva dell’immagine” (Franco Solmi) per accogliere i segni di un mondo inorganico in cui  ancora pulsano e vivono le tensioni di un mondo energicamente forte e oscuro. La ricerca spaziava da una materia all’altra; dalla carta al legno, dalla tela alla ceramica: liberamente. Trame, orditi, segni ordinavano una fitta tessitura di rimandi che, anche se non direttamente, declinavano la vastità di un labirintico ordine cosmologico, dove si respirava ancora l’”antico equilibrio degli elementi primi” (ancora, Solmi) che raggiungevano nelle calcografie a secco di Optica e di Albe, forse, i punti di sapienza più alti. Queste due cartelle-libro, che si accompagnano a poesie di Elio Filippo Accrocca, Bianca Maria Frabotta, Antonio Porta, Maria Luisa Spaziani e del sottoscritto, vibrano di “direttrici lineari nel bianco che le contengono” (Carlo Belloli), di punti luminosi, di nervature sottili che echeggiano i nodi della memoria, i fili di un impenetrabile e arcano mistero della forma, come immagine di un ordine precostituito, in cui mito e storia, si riconoscono e si dimensionano come respiro dell’Universo.

E ciò avviene puntualmente. E quanti, prima di me hanno discusso del lavoro di Baglivo, l’hanno, a più riprese, sottolineato. Da Laura Di Pierro a Massimo Bignardi, da Giuseppe Siano a Tonino Sicoli, da Franco Dionesalvi a Nicola Scontrino, da Maurizio Vitiello a Luciano Marziano, da Giorgio Celli a Ennio Di Pierro, da Giancarlo Cavallo a Francesco D’Episcopo, da Angelo Calabrese a Mario Maiorino. Quest’ultimo, anzi, parla di “fascino del segno”, come “labirinto di tutte le idee”.

Un labirinto di idee entro cui Baglivo svolge le trame del suo immaginario, da cui trae una “inesauribile vitalità di forze” (Nicola Scontrino) per dispiegare, interamente, l’energia della sua fonte creativa. 

Questo continuo, mobile mutamento non si chiude mai nella fissità di una cifra ma si apre a nuovi rinvenimenti di forme. Che, in un primo momento, possono far pensare ad un “luogo” primigenio della forma ma che, via via, si scopre che, altro non sono, che il lacus putredinis entro cui annaspa la memoria.

Dal ciclo "Atlantide" Xilografia a rilievo e foglia oro, 1986
Per la prima volta questo lago, come luogo dell’infanzia della forma, compare nelle opere in legno, a fine degli anni ’80.  Principalmente in Lunare,  ne Le vie del vento, in Fuochi d’acqua,  tutte opere del 1988. Questo ciclo argomenta la natura e la origine di alcuni elementi cosmogonici, come appunto, la luna, il vento, l’acqua. Luna vento acqua, studiati  come campi magnetici di forze, diventano gibbose ossature  di  linee  che si aggrovigliano e si accorpano in ondulati vortici per dare  vita  a un sistema di rilievi. In essi sembra che si specchiano le arcane significazioni di un lontano sapere che poggiava sulla anima della natura, sui luoghi delle sue trasformazioni, sui dettati delle sue interpretazioni. Come accade, appunto, nella civiltà contadina. Lo stesso discorso si dà in Mediterraneo, sempre dello stesso anno. Su una tavola quadrata tremolano scaglie di mare, increspati luccichii di onde, che la sapiente mano dell’artista ottiene mediante una variata grandezza di sgorbie. Lievi palpiti ondeggiano sulla superficie del mare e ci richiamano la vita che da esso  promana e ancora alimenta. Un mare brividato di sogni, di echi, di miti, che si sono fatti storia, e che sono ancora Storia.

Nello stesso anno, Baglivo dalle vie del cielo passa a nuove modalità scultoree. La circonferenza del supporto di base di Lunare di Le vie del cielo, di Fuochi d’acqua si spezza in due. Nascono gli Enigmi, le Stratificazioni, gli Idoli. Anche la quadratura si suddivide e si frammenta in triangoli, come in Il grande rettile, Geo-grafie. Queste opere già alludono a un nuovo passaggio, a nuovi esiti rappresentativi, a nuove icone. Si assiste all’intreccio di nuovi materiali, come nelle sculture del ciclo Organica. Di Organica fanno parte sia la serie Il deserto prossimo, grandi ed emblematiche steli di legno come quarti di una quinta che inscenano una scalettata sovrapposizione ondulata di piani che, magistralmente, arieggiano a un sistema di organizzati e ordinati terrazzamenti, sia i lavori della serie di Medusa e Isola. In questi bassorilievi l’incontro di più materiali, come il legno del supporto e i rilievi materici che vi si accampano, accolgono ulteriori  innesti come, ad esempio, la terracotta. Ed è quasi sempre quest’ultima a presenziare la forma di una Medusa. Sono lavori di una raffinata sapienza artigiana. Dove il gelatinoso corpo del celenterato non si presenta più con la ricchezza della frangia di filamenti o con il corpo a forma di cappello ma è una sfoglia in piano, senza più vita che sembra, lentamente, liquefarsi in un mare bollente di catrame. O, ed è il caso di Isola, si sospende e si protende su un mare livido e nero. Da questi umori nasce la serie dei mosaici dei Notturni dal Pliocene. Sono immagini tra pittura e scultura che l’artista ottiene assemblando, in piano, su tavola, spezzoni di legno, grandi più o meno come i pezzetti di plastica della Lego, che, tinteggiati di nero, diventano, per la varietà delle venature e la diversità del materiale di base, zone striate di colori caldi intervallate da fasce di colori freddi, dove si innestano particelle di pietre bianche che, nel contrasto, sembrano pulsare di luce. Ma tra questi mosaici ci sono anche quelli aggettanti. Ed è come se guardassimo da una lontananza abissale l’emersione di nuove terre o fossimo davanti a grandi trasgressioni marine. Questi corpi emersi sembrano congelati dall’abbassamento della temperatura, appaiono cioè come guglie, puntali, vette di una ipotetica crosta terrestre le cui immagini non ci rasserenano ma, al contrario, ci procurano un disorientamento e un bisogno di fuga. Verso dove? Nessuna possibile immagine ci conforta. E qui, Baglivo, l’ultimo Baglivo incontra il suo essere di Casalvelino. Qui incontra l’Altro da sé, di cui a lungo abbiamo discusso. Qui nascono i frammentati echi della sua infanzia. Dopo la notte nera della Storia, ci si può ritrovare solo nella propria  anteriorità perduta, in quel luogo primario pre-individuale costituito dall’infanzia della parola. E questa infanzia è, appunto, la memoria di Casalvelino. Da questo trasporto nascono le opere ultime. Soprattutto, la serie dei Trofei. Una serie che spazia dal mito (Lo sguardo di Ulisse, Sul mare di Velia) e al racconto fiabesco (Jenara, Katakatascia), e va dai ricordi personali (Mamma chiatta, La dimora del falco pellegrino) a quelli tipologici (Porta ianca, Latronica armigera, Barocco cilentano). Sono opere in cui l’artista con libertà operativa riesce a organizzare i vari materiali in una sorta di spirale di rimandi per cui, ad esempio, come in Sguardo di Ulisse o in Falco pellegrino gli bastano pochi elementi per far assurgere all’immagine bidimensionale una rilevanza assoluta. Il profilo di Ulisse, infatti, da un lato rimanda alla pregnanza di un capitello, dall’altro alla fissità di uno sguardo gettato come un ponte imperituro nei secoli. Così come la dimora del falco si accampa nell’immensità della plaga terrestre con la forza delle sue asperità geometriche come se volesse infinitivamente possederla.

In queste opere recenti non mi sembra che ci siano estatici abbandoni. Si avverte l’urto delle passioni e lo sforzo di pervenire all’essenzialità del ricordo, si sente cioè l’intenso lavorio sotterraneo da cui esso prende corpo. Anche laddove sembrerebbe il contrario, come in Barocco cilentano. La nudità della parete, chiusa e incapsulata in una teca, è lamellata d’oro. E sul cordone centrale, in disequilibrio, si innesta l’onda rossa come una ferita. Né diversamente accade per Porta ianca che ci trasporta immediatamente alla Porta Rosa degli scavi di Velia, così come Sul mare di Velia subito avvertiamo l’incrociarsi dei venti che erodono la terra ma che, d’altra parte, a lei guardano e verso di lei si protendono come se l’avessero scelta come dimora. Né, del resto, acquieta l’inquietante triangolo che raccoglie le nere sporgenze di Jenara che si protendono verso il nostro sguardo con un oscuro magnetismo o  le stele di Meridioni dove Baglivo sembra voler, con allusiva ironia, negare e ribaltare, come in uno specchio, la denominazione dello stesso titolo. Quasi come se volesse testimoniare che ognuno di noi ha il proprio intimo meridione. E di questo suo meridione Katakatascia ne è l’emblema vivente. Sul fondo nero della memoria, infatti, spazia la forma quadrangolare rossa che mostra aperture ovoidali. Sembrano feritoie che si incrociano su una campitura di filamentose linee verticali che si dipartono dalla curvatura aggettante su cui domina l’indicazione di una porzione di territorio rettangolare di legno naturale. Questo succedersi di piani forse allude alla asperità del rinvenimento dei ricordi che non tutti riescono a rinvenire dentro se stessi. Ma quando ci riescono il mondo che ci circonda sembra rinascere con noi e lungamente dialogare col passato che è in noi. E seppure a fatica ci sentiamo in sintonia con il nostro essere tanto atteso e tante volte cercato.

Questa, in sintesi, l’operatività di Baglivo. Che trova ulteriori momenti di riscontro con la serie di carte, dal titolo Naturalia artificialia. Già il titolo ne riassume senso e significato. Sono impronte calcografiche su carte colorate. Qui il richiamo alle falesie, alle erosioni, alle nervature e ai tracciati dei vestimenta della natura acquistano una spaziante armonia di forme che, da un lato, si richiamano e, dall’altro, internamente si oppongono tra loro. E’ come, insomma, se Baglivo in questi lavori portasse a maturazione ultima quel vasto repertorio di segni che è già nella pittura e nella scultura e volesse testimoniare che ciò è stato possibile in quanto in questo lento lavoro di riscrittura e di scavo è stato sorretto dall’esaltazione dei mezzi, piuttosto che da un rispecchiamento puro e semplice della realtà. E che, di contro ad una realtà ormai diventata una campionatura dell’inane frammentazione del soggetto, all’uomo, per continuare a vivere e a dire di sé, resta solo la libertà della ricerca artistica che, in qualche modo, può ancora risarcirlo e dargli, pur tra infinite sofferenze, quel palpito vitale che ancora giustifica l’esistenza.

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