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FINE DEL MONDO


Nessuno si ricorda delle ultime volte. Le ultime volte sono come tutte le altre volte.
Una bambina gioca con la bambola. La madre chiama, è ora di fare i compiti, giocherai più tardi, domani. Domani c’è molto da studiare e poi la lezione di danza, e il giorno dopo c’è il compleanno dell’amica del cuore, e poi, e poi,… Senza accorgersene la bambina rimanda il gioco a un futuro sempre differito.
La bambola viene spostata da una sedia all’altra, poi sullo scaffale, ancora uno scambio di sguardi intercorre tra lei e la bambina, poi nella scatola, con altri giocattoli, giornalini, vecchi album colorati, e la donna che riordinando il solaio la tirerà fuori, innocente e stupita, ricorderà forse quando la bambola le è stata regalata-il primo giorno, non l’ultimo.
Quell’estate preannunciarono la fine del mondo. Un monaco che si faceva chiamare Fratello Emman aveva indicato la data precisa: 14 luglio.
Io avevo dieci anni, come mia cugina Paola, otto mia sorella Catrina, dodici Pamela, una ragazzina nostra amica che già da tre estati veniva da Firenze a passare le vacanze al mare nella campagna vicino al nostro paese, con la nonna e una zia.
Avevamo commentato gli articoli su Fratello Emman apparsi sui giornali, e, come gli adulti, ci avevamo riso su . Ma, avvicinandosi il 14 luglio, le battute sulla “fine del mondo” ci lasciavano dentro una segreta, incomunicabile inquietudine che brillava negli occhi, una nervosa esaltazione, come un desiderio insoddisfatto.
Il giorno prima della data fissata per l’apocalisse, andammo a fare una passeggiata per raggiungere il boschetto di castagni lungo una strada chiamata Ferla per le piante di “ferula” o ferla, tipiche della macchia mediterranea, che vi crescevano abbondanti. Ci incamminammo nel pomeriggio per i tornanti odorosi di ginestre, chiacchierando. Eravamo noi quattro ragazzine, e dei grandi vennero la nonna e la zia di Pamela: la signora Eva e la signorina Vittoria.
Non era una gita come un’altra. Qualcuno aveva detto che tutto questo non sarebbe accaduto mai più.
Il cielo si sarebbe spaccato in mille lampi, spire di fuoco avrebbero avvolto la valle verde, galleggiando sul mare, distruggendo le case. La terra si sarebbe sgretolata da ogni parte. La vita sarebbe finita per tutti, per sempre.
C’era una possibilità su infinite che questo fosse vero.Che questo fosse domani. Domani, così vicino, domani, la lucente promessa del sole color arancio. Manterrai la tua promessa, sole? I tuoi colori d’estasi riemergeranno dal fondo del buio? Noi vogliamo che tu non torni, sole!Che il rosso, il rosa, l’arancio si fermino per sempre in questo azzurro. Vogliamo che i rami dei castagni restino immobili e i ricci verdi non siano mai raccolti.
Pensavamo così nel profondo, mentre scherzando rispondevamo parole a parole.
La signora Eva, alta, vestita di nero, col suo bastone dal pomo d’argento, si fermò davanti alla vallata. “Che cosa meravigliosa”, disse. E questo cambiò tutto.
“Pensate”, disse Pamela, “se Fratello Emman avesse ragione. Se il mondo finisse domani”.
Catrina la fissò con gli occhi spalancati: “Stai scherzando, vero? Lo fai apposta per farmi paura.”
Io dissi: “Tutto è così perfetto”.
“Non succederà proprio niente, “mormorò Paola. “Ci saranno tanti altri giorni, tutti uguali…”
“Non saranno uguali”, disse Pamela. “Ci saranno cambiamenti piccoli, da non accorgersi di niente. E’ questa la cosa tremenda. Succede tutto piano, piano. Tutto cambierà. Noi cambieremo. Non resterà niente, di noi, di questa estate, di questo tramonto”.
Ci fu un silenzio lungo. Catrina gettò via il rametto di “calacèto” che stava masticando, e poi gridò: “Guarda! Guarda quante more!”
Paola rise.
“Io”, disse Pamela “adesso raccoglierò le more. E dopo di oggi non ne raccoglierò più. Mai più nella mia vita”.
“Ho capito”, dissi. “Così questo giorno sarà l’ultimo delle more. E resterà”.
“Già”, ripetè Pamela. “Resterà.”
“Ma che sciocchezze”, disse Paola. E raggiunse Catrina che cauta, attenta a non pungersi, raccoglieva le more nere lucide.
Era tutto stranamente fermo, in quella luce d’estate. Il cielo, il verde dei castagni, il rosso oro sul mare, il vestito nero della signora Eva, il suo bastone dal pomo d’argento, anche la gonna gialla di Vittoria mossa dalla brezza.
Pamela ed io ci guardammo., andammo anche noi verso la siepe profumata. E raccogliemmo le more.
Per l’ultima volta.







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